Di seguito il racconto “Il presepe ungherese” di Agi Berta
All’Orientale alla fine degli anni settanta, il titolare della cattedra d’ungherese era il prof Laszlo Toth, un signore anziano, un gentiluomo d’altri tempi.
Possedeva una cultura classica profonda, a tratti pignola unita ad un amore infinito per la letteratura ungherese.
Aveva studiato in Italia tra le due guerre, e quando a guerra ormai finita, un carro armato sovietico – secondo lui in modo deliberato – aveva distrutto un prugno del suo orto decise di tornare a Roma dove aveva parecchi amici. Il suo non è stato un gesto marcatamente politico, benché fosse di idee moderate, legate alla tradizione democristiana, era semplicemente una persona mite che non riusciva a tollerare nessun gesto di inutile distruzione specialmente non dopo anni pieni di dolore e di morte. Voleva rimanere in Italia solo il tempo necessario per vedere quale futuro si prospettava per l’Ungheria dopo il trattato di pace. Gli accordi di Yalta, pur mettendo l’Ungheria nella zona d’influenza sovietica avevano previsto l’indipendenza, elezioni democratiche, dunque lo spiraglio verso uno sviluppo autonomo non era ancora del tutto sbarrato.
Nel 1948 però, quando il governo del fronte popolare rivolse un ultimatum agli ungheresi residenti all’estero di rientrare in patria, Toth, memore ancora di quello stupido gesto del soldato sovietico e perplesso dai racconti di altri fuoriusciti decise di rimanere a Roma. La sua permanenza dunque divenne in tutti gli effetti esilio.
Amava l’Ungheria con la disperazione degli esuli e cercava di sublimare la nostalgia con l’impegno culturale: aveva insegnato con competenza e dedizione a centinaia di studenti italiani. Una delle sue discepole è Marinella d’Alessandro, traduttrice virtuosa e sensibile dei capolavori di Marai, ma la lista completa sarebbe lunga.
Odiava i comunisti. La rivolta del ’56 non fece altro, che aggravare il suo astio perciò si era sempre rifiutato di riconoscere che il consolidamento portato avanti da Kadar avesse cambiato profondamente il paese.
Per gli emigrati è importante rinnovare quotidianamente la scelta dolorosa dell’esilio volontario, perciò preferiscono frequentare gente che vive la stessa sofferenza, infatti, anche Toth guardava con diffidenza chiunque arrivasse da oltrecortina senza essere dissidente, o contestatore del socialismo reale.
Era diffidente anche nei miei confronti finché il suo libro autobiografico non causò una svolta inaspettata nei nostri rapporti.
Lessi quel libro con curiosità, sì ma anche con la superficialità dei giovani e non colsi nelle feroci ed esagerate critiche del socialismo reale il suo disperato amore per l’Ungheria. Negli anni settanta Toth continuava a parlare dello stalinismo, continuava ad odiare un mondo che non esisteva più. Le mie osservazioni sui cambiamenti, sulle cose buone che si stavano realizzando non servirono a niente per fargli cambiare l’idea, anzi, guastarono ulteriormente il nostro già non idilliaco rapporto.
Poi passai il libro a mia nonna, che non solo era coetanea del professore, ma ambedue avevano fatto il liceo nella stessa città, a Gyor.
Nell’autobiografia, il professore dedicò un tenerissimo e pudico capitolo al suo primo amore, indicando solo le iniziali della signorina in questione: I. O. Non voleva “compromettere” nemmeno da distanza geografica e del tempo la dolcissima ragazza dei suoi sogni giovanili.
Però la compromise lo stesso.
Ormai posso violare le regole della privacy, ormai tutti i protagonisti di questa storia sono morti da decenni: Forse sola ora, oltre i ’50 posso immaginare l’emozione della ormai quasi ottantenne Ildiko Osztovich, lontana cugina di mia nonna, quando lesse il libro, che nonna le spedì con l’espresso raccomandato.
Quando raccontai al prof l’accaduto diventò rosso per la gioia mista a vergogna. Lui, che anche dopo 40 anni vissuti all’estero parlava un ungherese perfetto, di più, un ungherese splendido, quella volta riuscì solo a balbettare.
– Come? Lei è imparentata con gli Osztovich? Dio mio che mondo… –
E incredulo scosse la testa.
Da questo episodio in poi i nostri rapporti migliorarono sensibilmente. Lui smise di considerarmi solo una specie di pronipote comunista di Attila e io cercai ad essere più diplomatica parlandogli della “mia” Ungheria.
Dopo la laurea, rimasi all’Orientale nella fragile qualifica dello “schiavottello”, cosi continuavamo a vederci spesso. Poi ad un certo punto smise di venire, i viaggi da Roma diventarono sempre più pesanti per un uomo della sua età e poi non gli piaceva molto il nuovo assistente rampante che da lì a poco avrebbe occupato il suo posto più per le sue “giuste” conoscenze che per meriti accademici.
Poi il prof si ammalò e intorno a Natale andai a trovarlo nella sua bella casa di Roma, tappezzata di libri. Era diventato ancor più piccolo, ancor più fragile e il suo sguardo sempre acuto ed intelligente aveva assunto una nuova luce fatta di dolcezza.
– Come sta professore?
– Abbastanza bene signora, visto le circostanze. Certo, sotto Natale la nostalgia torna più prepotente. Lo sa cosa mi manca? Il presepio…. non quello napoletano…ma quello di legno, quello portatile che noi ancora bambini usavamo a portare in giro per le case la sera del 24 di dicembre. Ma di queste cose lei sicuramente non ne sa niente.
– Come no, professore? Anche i miei amici portavano in giro per le case il presepio di legno, inscenando la Natività. Mi arrabbiavo sempre perché a noi femmine non era permesso, solo ai maschi…eppure le filastrocche o le canzoni da cantare li conoscevo tutti.
– Ma cosa dice? Vuole dirmi che i comunisti permettevano a fare queste cose?
Sarei dovuto rimanere zitta, avrei dovuto confermargli che effettivamente il partito ostacolava queste tradizioni religiose e popolari, avrei dovuto lasciarlo nella sua convinzione, che sbagliata che fosse, aveva dato un senso per oltre 40 anni alla sua vita da esule.
Invece non mi sembrò vero poter per l’ennesima volta ribadirgli che stava sbagliando, che viveva in un mondo fatto di preconcetti…che, doveva tornare a casa, che dal governo avrebbe avuto una medaglia per i suoi meriti…altroché persecuzione!…, che l’Ungheria non era quella che aveva lasciato tanti anni fa…
Parlavo, parlavo, parlavo come solo gli stupidi riescono a parlare…e solo quando colsi il luccichio di una lacrima negli suoi occhi e finalmente mi resi conto che stavo demolendo un mondo che ormai non poteva essere più ricostruito, solo allora smisi di parlare….
Lui mi accarezzò le mani e disse con la voce spezzata:
– E’ troppo tardi ormai…Agi. Forse avevo sbagliato tutto?
Per la prima volta mi aveva chiamato per nome e quella fu anche l’ultima: morì alcune settimane dopo. Spero con tutta me stessa, di non essere riuscita convincerlo delle mie ragioni e che fosse morto convinto di non aver sprecato la sua vita in un inutile e doloroso esilio.
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