Cum Pane

Di seguito tre capitoli estratti dal racconto “Cum Pane” di Margherita de Simone


CUM PANE

Io sono mio padre. La sua voglia di mattino. L’insofferenza alle folle. La fame d’infinito. Il talento che ha voracità di dire. La libertà, che spesso cade dentro le tagliole della solitudine. L’insofferenza , sentita necessaria, all’età e agli schemi. Attuarne la dimenticanza. La lotta riluttante fra sentimento e fuga. L’asimmetria del vivere. L’insaziabilità di colore. L’ammirazione stupita per la natura. L’estorsione perseguita, nel tentativo costante per trafugarne le tinte. Fermarle su tele, affrancandosi dalle stagioni.

Io sono mia madre. La sua fantasia. L’amore per la comunicazione. La venerazione per le parole. La lussuria della scrittura. L’indipendenza sotto chiave. La melanconia. Che si veste da autogoverno dilaniato. E s’ammanta di quel nero che resta dolce, per somigliare all’oblio, sulle ali di una leggera tristezza, che annega nel profondo di una pace introspettiva.

Quell’ ondeggiare, con cui s’inonda di gramaglia, gli artisti, e che svela e che scherma tutti quegli aspetti che sfuggono agli audaci e agli irruenti. Quell’amarezza, serbata come tesoro o come nel custodito di prigione. Il pensiero e il suo potenziale. Il buon gusto e l’ estetica. L’autonomia ambita e d’universo. Il rispetto e la tolleranza per chi passa accanto. Il dovere di un tempo che va diviso fra lavoro e riposo. L’ordine che ha permesso le mie trasgressioni.

Io sono il conflitto di entrambi. E il loro compendio. La strada sbagliata. E l’imponderabile. Sono chi scrive di loro. Insospettabile cronista. Sono il loro postumo, in uno sconcertato anticipo. Sono chi ne narra prima che spariscano. Sono una voce che ne può riferire.

Sono chi mi ha conosciuto. Le parole che ho detto, perché mi si ricordasse. I sorrisi che ho cercato di salvare o di provocare.. E ciò che ho cercato d’essere, tendendo a divenire quell’obolo di essenza che ognuno dovrebbe sentire, che dovrebbe sempre spendere, che oltre i confini del sé, dovrebbe trasferire.

Sono nata per caso. Nel senso che, proprio il mio arrivo non era stato disposto, ma neanche regolarizzato o consentito.

Mia madre aveva solo sedici anni, quando m’ha partorito.


Mio padre qualcuno in più, ma io sono diventata chi, ha impresso una virata spaventosa e repentina

alla sua vita. Io l’ho reso prima padre e poi, e per questo, anche di colpo un marito, prima che lo potesse scegliere o rifiutare. Io che sono diventata la primogenita di quattro fratelli, e che così sono anche chi , è diventata la stura, ad una prole numerosa e non prevista.

Un senso di disappunto e sorpresa mi ha accompagnato da subito. Era ciò che mi stava aspettando, e che con un senso di beffa oltre il danno, mi ha fatto anche femmina. Credo che questo sia stato il colmo delle insoddisfazioni per chi ha dovuto accettare suo malgrado, una situazione, che è tracimata nel rammarico, di aver generato chi non avrebbe neanche perpetuato il proprio cognome e il sesso.

Ho cercato di capire perché.

Ci provo ancora, ma non riesco a trovare colpe o responsabilità che siano mie, a questo stato di cose.

Destino di ogni prodotto, è ciò che può solo riconoscere le proprie matrici, ma non può intervenire sulle valutazionialtrui e neanche demolire i rimpianti e i rimorsi che rappresenta. E che invece, tutto questo, lo è già, quando lo personifica solo nascendo.

Così ho ricercato quell’approvazione che mi confermasse nel valore.

E nacque l’urgenza, che diventò il bisogno di cercare amici.

Devo dire che l’amicizia è sorte, più difficile dell’amore, non ne ha le passioni, ma è chiara e spietata in quelle emozioni che mostrano ben presto quanto sia facile scoprire l’abbaglio, rivelando che non è solo superficiale conoscenza, contatto o casuale incontro.

Ognuno ha un complementare e questo resta sempre vero, nonostante i torti, le risse, le vite, i gusti e le idee. Un amico resterà tale, per sempre, proprio perché diverso, cancellando i propri difetti e i nostri, in nome di qualcosa di grande, che abbatte anche l’orgoglio e l’amor proprio.

Io trovai te, sembra solo grazie alla scuola.

Nessuna di noi lo capì, ma una invisibile catena di empatia, cominciò ad inanellare un legame che si

rinforzava giorno per giorno, a noi invisibile e a noi inconsapevole.

Il tempo e le sue mutazioni, non hanno potuto nulla, su chi rappresentavamo l’una per l’altra, e neanche i nostri rifiuti e le nostre vane intenzioni, tesi a recidere un flusso di richiamo che ci avrebbe unito per sempre.

Adesso è il momento mai attraversato, quello in cui capisco che la fine è un fermo, è l’ arresto coatto al progetto della confusione della vita, è il setaccio che scavalca il tempo, è lo spazio del controtempo. Dove tutto è freddo e nitido, come un mattino d’inverno, i pensieri e la mente sono lucidi e mostrano ciò che resta, al di là del rumore, della distrazione, dei malintesi, delle illusioni.

E resti tu, ed io. E anche esponendo al rischio di mille gogne la nudità del “nostro” esistere, sento di dovere imprimere di noi l’evento.

E questo devo farlo, adesso anche per te. Per renderti immune, almeno dall’anonimato.


ROSSO DI DONNA

Siamo arrivate entrambe, fra alti e bassi, all’esame di quinta elementare.

Io mi sento strana, come stessi vivendo una convalescenza.

A fine maggio ho avuto il mio primo ciclo di mestruazioni.

Solo qualche chiazza rossastra, che mi ha spaventato, ho pensato d’essermi ferita. E che m’ha sconvolto come null’altro prima. E mi ha intimidito, perché non so bene cosa accade, cosa mi succede. Nessuno mi ha parlato di un evento a me certamente riservato. Forse perché tutti hanno pensato che fosse presto per parlare di api e fiori, per metafore di miele che hanno ben poco di dolce per me.

Solo alle medie, qualche avanguardista docente ce ne parlerà, e per iniziativa personale, e non da programma ministeriale.

Ci parlerà di uova, che giunte a maturazione e non essendo state fecondate, andranno incontro ad un destino di caduta.

Quella precipitazione, sarà la pioggia rossa che ci determinerà come fertili e capaci di procreare.

Ma quando apprenderò tutto questo, io avrò già bruciato questa tappa, come al mio solito.

Non capisco perché, ma lo sento un tabù da celare, perché nessuna altra bambina l’ha ancora avuto.

Ecco ancora fuori dal coro, questa precoce crescita involontaria, mi condanna così anche la natura, mi spinge ad essere diversa dalle altre.

Sento una tristezza infinita, e senza ragione, che sembra egemonizzare anche le giornate che un tempo erano serene.

Neanche tu m’hai fatto alcun cenno, riferito a qualche novità adolescenziale, e non so se parlartene.

Indossi ancora quelle ampie gonne a ruota, tutte plissettate, come vestiti da bambola, vezzosi e dismessi indumenti, che tua madre si fa mandare dai suoi parenti dall’Istria.

Lei, amante del risparmio e del riciclo, fa di te la vittima delle sue memorie di ristrettezze, ancora vivide e irriducibili che ha imparato dalla guerra. La miseria che ha portato con sé, e che ha vissuto anche qui, ne fa ancora una donna che vive da profuga. Le pare ancora offesa a quei tempi duri, buttare via ogni cosa, anche se davvero irrecuperabile, e non più riciclabile o risulti risparmio.

Le tue lentiggini sono ancora sul tuo naso, e tu ti comporti come hai sempre fatto.

Vorrei dirti che adesso non vedo più i ragazzi come dei rompiscatole, e a volte mi sale un rossore sconosciuto alle guance, che mi sento martellare dentro le anche, come se qualcosa o qualcuno cercasse di allargarmi i fianchi, e poi dentro mi frulla come un battito di farfalle, e spesso sento che mi addormento con una sorta di languore, che mi fa sentire come un gatto pigro.

Sul torace hanno fatto capolino  sporgenze che si fanno sempre più grandi, e mi si disseminano peli ovunque, in zone dove non pensavo potessero germogliare e dove prima non c’erano.

Lo so che tu invece, non vedi l’ora di indossare il reggiseno.

Io mi farò ammazzare piuttosto, è un arnese che segna e stringe,  e cosa atroce, mi cataloga senza appello, come femmina.

Mi considerano il famigerato “ragazzaccio”, ma ormai anche l’evidenza mi piega al fatto, che non ho più neanche l’aspetto, il mio corpo è esploso, nonostante me, senza permesso, comincia quel processo che m’inchioderà ad un genere.

Il colpo di grazia, tuttavia, deve ancora arrivare.

E’ già dietro il nostro prossimo angolo. Oltre l’estate, eccolo è ottobre, da sempre per noi, mese d’inizio scolastico, il quale ci sta preparando una precisa fisionomia. Almeno nel sociale.

Noi dovremo aderire al collettivo, siccome l’individualità è ancora mal tollerata.

Ecco abbiamo concluso un ciclo, senza volerlo o temerlo, siamo chi si  definisce “signorinella”,  come ci chiamano ora, quelle bambine che non sono più tali, e che debbono per incanto, nutrire altri interessi e voglie. Ci aspetta tetro e serioso, già celato dall’anta scura dell’armadio, il grembiule nero delle scuole medie.

Camice reso ancora più tetro e funereo dai colletti bianchi. Quel colletto che molte delle nostre coetanee, hanno commissionato ad entusiaste nonne e zie. Dovrà essere il più civettuolo possibile, lavorato all’uncinetto, guarnito di pizzi e aereo di nuvole di merletto.

Inutile dire che tutto questo allineamento da uniforme, ai maschi sarà risparmiato.

Ho tentato una dimensione, cercando di truccarmi come fate voi tutte.

Il rimmel mi brucia gli occhi, piango molto , fallisco nel tentativo di assumere un fascino, e ottengo l’effetto di essere ancor meno attraente, a causa di congiuntiviti e occhi rossi, antitesi della seduzione.

I gelsomini non attraggono più le mie narici, e non mi rassicurano più come nessuna primavera conosciuta, e devo confessarti che mi sento fuori posto, e ovunque mi trovi.

A ottobre t’ho superato d’una buona spanna, e mi sento gigantesca. Tu mi dici che tua madre t’ha imposto una panciera, perché afferma che altrimenti non cresci sostenuta nell’addome.

Insomma sei già tra i merletti e le guaine, ma perché hai così fretta di crescere?

Ci vediamo molto meno, hai scelto il corso di latino, e io quello di francese, sottolineando così ancora, il mio bohemien e la tua inversa “solidità” e tradizione di studi, così hai altri compiti e differenti pomeriggi.

Ci chiedono spesso, che liceo vorremmo frequentare dopo il terzo anno di medie.

A tal proposito, dovremo affrontare una serie di test attitudinali.

Io non lo so, non so più niente, e mi smarrisco anche di fronte a questo modulo.

Tu no, ti ho vista decisa, ti stanno chiedendo qualcosa che ti è stato imposto, fin da quando sei venuta al mondo, e hai sincerato tutti del fatto che fossi femmina, e pertanto una maestra.



LONTANO DI SGOMENTO.

Il patrimonio di possibile è stato dilapidato .Prim’ancora che si potesse spendere.

In una notte sola, il ragno ha intessuto le sue tele. Brillano lucenti come lame, a quel sole che sorgerà ancora. Un aracnide nascosto e inesorabile, riesce adesso a rendere sinistramente nota, la propria presenza.

Non ha una faccia da prendere a pugni, né altro orgoglio che non sia il nostro e devastato. Quello già annientato, avviluppandolo con il suo invisibile bozzolo, come si fa con le mummie indifese, che non possono che meritare la trasformazione.

Il non senso e l’assurdo si sono impadroniti della vita, smarrendo l’itinerario di tutti i domani.

Quelli che io non saprò più incanalare, perché il tuo, sta assumendo le spire inaspettate di quel lontano, che non amo, che non capisco, che è buio d’ignoto, che è riservato a chi muore, e chi non muore non può capire. Io non amo più la libertà, perché può vestirsi di distacco, e di riluttanza se significa l’allontanamento, e da te. E non sarei più io. Perché io sono, perché sei tu.

Tu che mi hai mostrato come si possa anche essere donna, magari come tutti si aspettano. Che si può cedere alla non ribellione, riposarsi dalla lotta, che spesso è vana.

Hai svelato quello che sono, sotto l’eterna difesa che ho deciso, per fronteggiare mio padre, le pose che ho assunto per somigliargli, rifiutando il sesso di cui faccio parte, perché voleva un maschio, per dimostrare che anche una femmina può reagire, che è capace di rivoluzioni, che può ribaltare perfino la natura e gli istinti. Perché m’accettasse, così come hai fatto tu. Tu che non hai voluto cambiarmi né mai ti sei aspettata che lo facessi. Noi abbiamo potuto accedere alla realizzazione, che ci ha consentito un riferimento al di sopra delle differenze. Non abbiamo mai lasciato spazio al rancore, che non capiamo, che non professiamo. Tu sei il sorriso dei momenti duri, l’ironia pacata, e mi sai aspettare.

Perché ero una figura, che ti provocava sdegno, la cui ostentata androginia non t’ha spaventata, perché la sapevi armatura e fasulla . E che hai scordata, convertendola in una forma di meraviglia, che ti e mi mostrava altre strade. Che quindi diventavano possibili, che non hai seguito, ma che hanno anche confermato che si potesse restare se stessi e interessare, nonostante le inverse idee. Io ti devo la stima che nessuno mi ha mai riservato, e che mi ha fatto capire che posso esistere come sono, e vivere anche senza esibire e tutelare il conflitto, che mi faccia e mi renda libera.

Noi abbiamo diviso il pane, sotto l’approvazione del sole, poco e timido, e flagellato da raffiche e vento, a volte contrario, ma l’abbiamo spartito, dopo averlo conquistato e insieme, quel cibo che si distribuisce come si fa fra fratelli, perché noi saremo per sempre compagne, provando che si può essere le cumpane di una vita, di cui abbiamo segnato la condivisione. Le donne, dicevi che sanno morire continuando a vivere, io credo che si possa vivere morendo un poco per volta. Così da capire che oltre la morte del corpo, ci sia ancora l’essenza che ci siamo trasferite e che di noi abbiamo offerto.

Perché io sono chi mi ha conosciuto, tu sei chi ho conosciuto.



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