Canapa
un romanzo di Raffaele Abbate
Questa è una storia che parla del passato, ma è un passato bianco e nero solo nelle foto perché qui si parla di oro, ma non quello giallo e nemmeno quello nero, questo è oro verde, e l’oro verde, all’inizio del 1900, si chiama canapa.
Questa storia parla di Frattamaggiore, un paese che forse ai più non dirà niente, un paese che nemmeno chi è di Napoli sa dirci qualcosa in più di un nome stampato in bianco su un cartello blu sull’Asse Mediano, una strada di asfalto e cemento che attraversa indifferente comuni come Melito, Grumo Nevano ed, appunto, Frattamaggiore.
Allora perché sto scrivendo di un paese poco conosciuto e di un oro che di oro non ha nemmeno il colore? Per quale motivo scrivo di un tempo, il 1900, che appartiene a fotografie sbiadite ed a valori ormai persi?
Il fatto è che cambiano i nomi, le città, le strade, il colore delle cose, le lire diventano euro, ma l’essere umano, l’amore, l’odio, la gelosia, la fraternità, i sentimenti, quelli sono sempre gli stessi, quelli sono senza tempo.
Muovendosi tra le strade della periferia, ma anche verso il centro, non si possono non vedere solitari e lunghi comignoli, minareti di un impero economico ormai passato e dimenticato, ma che un tempo hanno dettato legge, modificato le vite delle persone, generato danaro e potere, lavoro e fatica, tradimento e morte, ma anche amore e valori famigliari di cui, molti di essi, sono oggi andati perduti come quell’oro verde che oggi, di oro, non ha più niente, nemmeno il nome.
Raffaele Abbate ha una voce rotta da troppe sigarette, è uno che se ti deve mandare a quel paese non ci pensa due volte, è uno che se lo incontri con la giacca di pelle ti ricorda uno di quegli strani personaggi di Tarantino. È senza peli sulla lingua, Raffaele, coi capelli bianchi disordinatamente buttati all’indietro, il pizzetto grigio, gli occhiali appesi al collo ed un sorriso beffardo di quelli che non sai se ti sta prendendo in giro o è puro affetto. Mi offre un caffè, ci sediamo ad un tavolino all’aperto, così ai accende una sigaretta.
“Perché hai scritto questo libro?” sono diretto, vado al sodo. Con Raffaele è controproducente girare attorno. E poi, a dirla tutta, non m’interessa la solita fuffa da marchetta libraria; sono curioso, perché, nel leggere il romanzo, al di là dei personaggi e dell’intreccio, ho avvertito qualcosa tre le righe, un sentimento quasi nostalgico, di chi teme di essere dimenticato.
“Sai, nella mia infanzia ho vissuto gli ultimi strascichi dell’impero decadente di quell’oro verde che era la canapa. Frattamaggiore, in cui sono nato, era la capitale del Sud e forse dell’Italia intera per quanto riguardava la produzione della canapa. Poi, dopo la seconda Guerra Mondiale, tutto è andato perso, tutto è precipitato veloce, così veloce che oggi quasi nessuno si ricorda di quel periodo.”
Prende una pausa di fumo che si solleva in una nube sospesa per un istante e poi spazzata via da una leggera brezza. Fa un po’ freddo, nonostante il sole.
“L’ho fatto per i miei figli. Per ricordare loro una storia ormai dimenticata.” Aggiunge. La risposta non mi sorprende, ma non mi delude, anzi, mi rassicura.
C’è una frase, nel romanzo, più volte ripetuta; me la sono annotata: i signori della canapa non lasciano conti in giro né in dare né in avere. Gliela leggo. Non so se mi ha ascoltato, forse sta inseguendo pensieri. Gli concedo il suo tempo, quindi, dopo un sorso di caffè, risponde: “Racconto la storia di un figlio bastardo di uno dei signori della canapa, lo seguo nel suo percorso di vita, è un personaggio negativo. Non amo quelli positivi. Mi piace raccontare dei cattivi…”
“Come nel tuo romanzo I Fetenti.”
“Bravo! C’è più gusto nel raccontare il male.” Sorride ancora, è un mefistofele beffardo.
Finisco il mio caffè. Intuisco dove vuole arrivare: il male non chiede il conto, il male è il conto.
“Cosa ti piace del tuo romanzo?”
Lo so, sono domande insolite, ma io non faccio interviste, non le so fare e nemmeno m’interessa la classica recensione; sono curioso di scoprire le ombre.
Raffaele prende il romanzo, lo apre, sfoglia. Strizza gli occhi, lo allontana per mettere a fuoco, quindi si ricorda degli occhiali appesi al collo. L’inforca e legge: “Dai bassi degli stretti vicoli del centro storico di Frattamaggiore, dalle casupole sparse lungo la ferrovia, prima in piccoli gruppi, poi in una colonna bisbigliante che man mano si ingrossa, le canapine vanno verso i capannoni della Premiata Ditta Profili, verso quelli del Canapificio Nazionale, verso quelli degli altri signori della canapa e dei piccoli padroncini, operai che hanno fatto il salto di classe sociale ed hanno messo su un piccolo capannone dove pettinano canapa per conto dei signori.”
Chiude il libro, lo ripone sul tavolino e lo tiene con la mano come se temesse che potesse volare via come il fumo della sua sigaretta ormai consumata.
“Capisci?” aggiunge, “Queste donne erano madri, erano figlie, ed andavano al lavoro alle due di notte e lavoravano fino alle dieci del mattino. In posti malsani, dove la mortalità era altissima. Erano persone semplici, persone che ogni giorno davano il loro contributo, piccole formiche operaie che comunque portavano avanti quel mondo, che permettevano a quell’impero di essere tale. Persone poi dimenticate.”
“Come accade oggi…” incalzo.
“Ecco cosa mi piace del mio romanzo, mi piace che abbia dato voce e luce a quelle persone anonime che, nel silenzio e nel sacrificio, portano avanti una nazione.”
Mi convince. Non ho bisogno d’altro, il romanzo lo conosco e mi è piaciuto perché racconta, attraverso la lente dell’impero della canapa, le decine di sfaccettature dell’uomo e dei suoi sentimenti.
Vale la pena leggerlo, secondo me. Vale davvero la pena.
“Scrivimi una dedica, va…” gli dico passandogli nuovamente il libro.
“Hai una penna?” mi chiede.
“Ma come? Uno scrittore senza penna?” ribatto.
Raffaele mi guarda sornione, poi risponde: “Oggi si scrive con le tastiere!”
Mi scappa una risata e chiedo la penna alla cameriera.
Canapa
Raffaele Abbate
Edizioni Melagrana
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