Caldo di fine maggio

  

Il caldo, il sentire caldo in modo esagerato rispetto alla temperatura in gradi centigradi del momento, è solo una questione psicologica.

E poi il lamentarsi per questo caldo porta le persone ad agitarsi, a gesticolare, a parlarne continuamente, a muoversi cercando una brezza inesistente, col risultato di far loro sentire più caldo, di farle sudare.

E le donne… le donne, te le raccomando! Per loro non esiste mai la mezza stagione, signora mia.

Un giorno di primavera si lamentano per il freddo ed il giorno dopo cominciano a lamentarsi per il caldo e vanno avanti fino a quel giorno di autunno in cui ricominceranno a lamentarsi per il freddo.

Questi erano i pensieri del commissario Luigi Martino in quel mercoledì 24 maggio, mentre tutti intorno a lui si lamentavano negli uffici del commissariato di Ragusa per quel maledetto e fottuto condizionatore che aveva scelto proprio quel mercoledì 24 maggio, quando la temperatura all’ombra era di 27 gradi centigradi (quindi neanche tanto, pensava il commissario Martino, allora a luglio che faranno?), per guastarsi, emettendo il rumore che era lecito aspettarsi da un macchinario con 12 anni di vita, ma non il fresco che quasi tutti si attendevano da lui.

In quanto al commissario Martino, che sudava raramente e aborriva l’aria condizionata, deleteria per i suoi mal di schiena ricorrenti… ecco, il commissario Martino cominciava a convincersi di avere dei poteri fino allora insperati che avevano bloccato la suddetta aria condizionata.

Questi erano, vi ho fatto solo un riassunto piccolo piccolo, i pensieri del commissario quella mattina. Se vi avessi dato la versione integrale e, magari, glieli avessi fatti esternare in una conversazione con qualcuno che la pensava come lui, ne sarebbe venuto fuori un dialogo degno di uno dei primi film di Quentin Tarantino.

Non c’è da meravigliarsi allora se, quando il sovraintendente Di Blasi, dopo aver bussato e messo la testa dentro la sua stanza, disse:

“Che faccio, dottore, telefono di nuovo a quelli dell’assistenza per il condizionatore per fargli fretta, che ancora non sono venuti?” il commissario rispondesseestate secco:

“Che c’è Di Blasi? In questo commissariato non abbiamo niente di più importante da fare che telefonare continuamente per fare aggiustare la maledetta aria condizionata?”

Di Blasi si ritirò senza, saggiamente, permettersi di obiettare sull’avverbio continuamente.

Quando un quarto d’ora dopo si riaffacciò, il commissario Martino era pronto a fulminarlo. Di Blasi, che lo conosceva ormai ancor meglio di quanto conoscesse se stesso, si affrettò ad annunziare:

“Dottore, c’è una persona che insiste per vederla.”

“La conosco questa persona, Di Blasi?”

“Non credo, dottore.”

“E allora perché devo riceverla proprio io? Non c’è nessuno libero?

Tutti quelli che erano occupati a preoccuparsi per l’aria condizionata sono ora occupati per quelle cose per cui lo stato li paga, sia pure in maniera ridicola?”

“No, dottore, tutti occupati non sono. Ma io ho pensato che… forse lei…”

“Lascia stare, Di Blasi, scherzavo. Fai entrare quella persona. Così avrò una buona scusa per smettere di occuparmi di queste maledette carte.”

La signora che fece il suo ingresso nell’ufficio del commissario Martino e che prese subito posto nella sedia davanti alla scrivania senza che nessuno glielo dicesse, mentre nello stesso momento il commissario si alzava per cortesia, aveva almeno 80 anni.

Era magra e vestita di nero, un vestito che la copriva fino al collo nonostante i 27 gradi centigradi. Portava pochi gioielli discreti, ma sicuramente autentici.

“Permetta che mi presenti, signor commissario. Sono la baronessa Alfonsa Teresa Maria Zancla di Linosa.”

Se a questo punto il commissario Martino non fece un inchino davanti alla baronessa fu solo perché si era già seduto, ma vi assicuro che se fosse stato in piedi l’inchino gli sarebbe venuto istintivo.

“Io sono il commissario Luigi Martino. Onorato di conoscerla. Mi dica baronessa, come posso esserle utile?”

“Sono venuta, signor commissario, a denunciare la scomparsa di una persona che conosco.” detto velocemente, quasi come se la frase fosse stata a lungo trattenuta e non vedesse l’ora di venir fuori, oppure come se la volesse dire al più presto prima che, chissà mai, potesse pentirsene e desiderare di riaverla indietro.

Il commissario restò in silenzio mentre si ricordava di una targa che aveva visto in centro:

 

PALAZZO ZANCLA

Secolo XVII

 

e gli venne naturale paragonare il palazzo, uno dei tanti che c’erano nella parte vecchia della città, imponente ma molto usurato dal tempo, al vestito della baronessa che qualche segno di quel tipo di usura, sia pure di gran lunga minore, lo mostrava.

Che fosse anche quello del secolo XVII?

“La persona in questione si chiama Nicola Mazzullo.” continuò la baronessa.

“È un suo amico, baronessa?” chiese il commissario, riappropriandosi della parola e facendo nel contempo un cenno a Di Blasi che era entrato con la baronessa e si era seduto al suo tavolino perché prendesse appunti.

La baronessa esitò, quasi cercando le parole giuste.

“Sì, possiamo dire che è un mio amico… anche se è figlio di nostri coloni della tenuta di Seminaro.”

 “E da quando è scomparso il signor Mazzullo, baronessa?”

 “Da settanta anni. L’ho visto per l’ultima volta esattamente il 24 maggio di settanta anni fa. Io a quei tempi avevo 17 anni e Nicola… il signor Mazzullo 18.”

Il commissario Luigi Martino si adeguò al clima che si era creato in quella stanza con l’ingresso della baronessa Alfonsa Teresa Maria Zancla di Linosa e non le chiese subito come mai avesse aspettato settanta anni invece di venire subito in quelle stesse mura. Settanta anni prima quel commissariato di Ragusa esisteva già e magari anche cento anni prima.

Restò dapprima in silenzio, poi chiese invece:

“Lei, baronessa, ha idea di cosa possa essere successo al signor Mazzullo?”

Stavolta il tempo se lo prese la baronessa, ma in realtà in quel momento, in quella stanza, il tempo non esisteva più.

“Sì, commissario.” si decise infine, “Credo che sia morto.”nuvola

Ancora silenzio. Il commissario non voleva chiedere. Voleva che fosse la baronessa a decidere cosa dirgli.

“Credo… ho fondati motivi di credere… che sia stato ucciso.”

Stavolta il commissario non poteva tacere:

“Sa anche da chi è stato ucciso?”

“Chi lo abbia fatto materialmente non lo so, ma credo di sapere chi ha dato l’ordine di ucciderlo.

È stato mio padre. Il barone Goffredo Francesco Ludovico Zancla di Linosa.”

“Ha qualche ipotesi sul motivo per cui suo padre ha ordinato l’omicidio del signor Mazzullo?” chiese il commissario, pur conoscendo in anticipo la risposta.

La baronessa non lo deluse.

“Nicola mi amava, signor commissario, ed io amavo Nicola.

Era biondo e aveva gli occhi chiari, come a volte succede in questa terra di turchi.

Era figlio di contadini e sapeva a malapena leggere e scrivere, ma scriveva poesie per me. Gliele mostrerei se mio padre non le avesse distrutte, ma le ricordo tutte parola per parola, ancora dopo settanta anni.

Ma, lei mi perdoni, una cosa è fargliele leggere e un’altra cosa dirgliele io.

Mio padre voleva che io sposassi il barone Drago… che io poi ho sposato.”

Il commissario credette di avvertire un sospiro non emesso, ma solo pensato, in questa ultima frase.

“L’ultima volta che ho visto Nicola è stato di notte. Era il ventiquattro di maggio, come oggi.

Io ero su un balcone al secondo piano, non era quello della mia stanza, era un balcone dell’ala che non abitavamo mai del palazzo di campagna, così era meno probabile che ci sentissero. Prima ci parlammo, lui sotto e io sul balcone come nella tragedia di Shakespeare.”

Il commissario Martino si immaginò il piacere di Di Blasi, che era un appassionato cultore di Shakespeare, nel sentire come il suo amato William avesse previsto il colloquio tra la baronessina e Nicola Mazzullo con largo anticipo di secoli, sia pure trasferendolo molti chilometri a nord.

“Poi lui salì fino a me. Era forte e agile Nicola. Andò via insieme alla luna che calava nel cielo. Da allora non l’ho più visto.”

Nel silenzio che seguì il commissario si ritrovò a chiedersi quale fosse l’odore di quella notte di un maggio di settanta anni prima in campagna.

“Cosa si aspetta che io faccia, baronessa?”

Ancora silenzio come se la baronessa si facesse la stessa domanda per la prima volta.

Poi:

“Non lo so esattamente, signor commissario. Ma la cosa importante era che io venissi a dirglielo anche se dopo tanto tempo.

Forse… ma sarà difficile… certo mi sentirei più… ecco, commissario, se fosse possibile trovare il corpo di Nicola in modo che io possa provvedere per la sepoltura… capisco che…”

“Faremo il possibile, baronessa.” si sbilanciò il commissario Martino senza chiedersi come avrebbe giustificato le spese per la ricerca.

“Grazie, commissario Martino.” per la prima volta commissario Martino e non semplicemente signor commissario, alzandosi mentre anche il commissario si alzava e Di Blasi teneva aperta la porta.

“Le farò sapere, baronessa Zancla.”

“Gli amici, i pochi rimasti, mi chiamano Alfonsina.”

E se ne andò con la sua dignità, il suo coraggio e le sue antiche pene.

 

Un’ora dopo Di Blasi si affacciò nell’ufficio del commissario Martino.

“Dottore, c’è il barone Goffredo. Il figlio della baronessa, non il padre.”

“Davvero, Di Blasi? Sei sicuro? Che c’è, quando non funziona l’aria condizionata non funzioni neanche tu?”

 “Mi scusi, dottore.”

Goffredo Drago aveva superato di parecchio i sessanta anni, alto e magro somigliava alla madre.

“Mia madre prima di venire qua mi ha messo al corrente di quello che intendeva fare e di tutto quello che avrebbe detto.”

“Bene e lei come mai è venuto? Deve dirmi qualcosa?” il commissario Martino che si aspettava una sconfessione della baronessa per salvare il buon nome della famiglia, fu volutamente brusco, “Forse vuol dirmi che sua madre si è inventata tutto?”

 “Al contrario. Io voglio molto bene a mia madre e non volevo che lei potesse avere l’impressione che fosse venuta qui per raccontare storie che fossero magari frutto delle sue fantasie. Per il bene che le voglio non sopporto che qualcuno possa pensare che lei si inventi… mia madre è molto lucida per la sua età.

E poi ho sentito parlare spesso di mio nonno, mio nonno è morto quando avevo tre anni, e quello che lei ha sempre raccontato mi pare verosimile.”

“Apprezzo molto il fatto che lei sia venuto.” disse sinceramente il commissario Martino, chiedendosi chi fosse il vero padre di Goffredo Drago.

 Il commissario, rimasto solo con il sovraintendente Di Blasi, ignorò volutamente il suddetto mentre farfugliava di salti da torri, passeggiate in vie frequentate da briganti, covi di serpenti e leoni ruggenti, sepolcri con scricchiolanti ossa di morti, castelli e piramidi frananti ed altre sciagure. Ma tutto, tutto era preferibile a sposare Paride, come pretendeva da Giulietta il vecchio Capuleti!

Il sottinteso della citazione shakespeariana di Di Blasi era che invece la baronessina Zancla il barone Drago se l’era sposato.

E allora, pensava Di Blasi, tanto valeva che se lo sposasse prima, salvando la vita a Nicola Mazzullo, che, biondo come era, non ci avrebbe messo molto a consolarsi con una procace contadina.

 

(continua)La danzatrice di Ragusa

 

Estratto da: Giovanni Merenda, La danzatrice di RagusaLa community di ilmiolibro.it, 2015

 

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E buona lettura!

 

 

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