Quest’articolo è molto lungo, credo però che valga la pena arrivare fino in fondo. Si compone di due parti: la prima è la recensione ad un magnifico libro, la seconda è un’intervista alla sua autrice. Buona lettura.
Mai recensione fu più complicata di questa. Ho iniziato e cancellato questo cappello non so quante volte e forse questa è la volta giusta. È complicata perché si parla di poesia ed io odio parlarne perché la poesia non mi piace. Allora perché lo fai? Si chiederà il lettore. La verità è che io odio la poesia perché, in realtà, la amo. A questo punto state pensando – lo sento – che al buon Petrucci il caldo ha dato alla testa.
Non è così, giuro, vi spiego subito perché. Odio la poesia perché in giro se ne abusa in modo spropositato; perché sul web – per non parlare di Facebook – i poeti sedicenti tali sono migliaia, forse milioni! E sono lì con le loro lagne personali, con frasi mandate a capo a casaccio e spacciate per componimento poetico. Guai a scrivere un commento che faccia intendere la mediocrità della loro scrittura! Ne verrebbe fuori un putiferio. Non che sulla carta stampata le cose vadano meglio. Con l’avvento degli editori a pagamento, i sedicenti poeti (come i sedicenti scrittori) pagano e vedono i loro obbrobri prendere forma cartacea e tangibile. Così pensano (e scrivono nei loro profili) di essere “scrittore” oppure “poeta”, si guardino i vari profili su Facebook. Giù con altre lagne e racconti senza capo né coda. Fatemi prendere fiato, per favore…
Per fortuna le cose non vanno sempre così e se avete ancora un po’ di pazienza e voglia di scoprire perché, vi accontento subito.
Un anno fa mi capita tra le mani “Dimentico sempre di dare l’acqua ai sogni”, tengo il libro sulla mia scrivania per quasi un mese, tediato al solo pensiero dell’ennesima antologia di “adolescenziali” e piagnucolose, disperate poesie. Finché un giorno sfoglio a caso e dopo un’ora mi trovo al computer a scrivere una recensione che poi pubblico sul mio blog (per leggerla, clicca qui).
La mia scrivania, nel frattempo, si è riempita di altri obbrobri, finché non è arrivato Chernobylove – il giorno dopo il vento. Questa volta non ho aspettato un mese e ho iniziato subito a leggerlo. Confesso che avevo qualche timore, speravo proprio di non imbattermi in una caduta di stile, invece il contrario: trovo che c’è perfino maggiore spessore.
Seduto sulla mia poltrona comoda ho letto tutto il libro, poi ho preso carta e penna e ho scritto un post-it che ho attaccato al monitor: scrivere la recensione di Chernobylove.
Il problema sul quale ho dovuto meditare è il seguente: come raccontare un libro di poesie? Come spiegare le sensazioni e le immagini suscitate dal testo? Insomma non si tratta di spiegare una trama o esaminare lo spessore caratteriale dei personaggi. Qui è necessario tratteggiare le emozioni suscitate dalle parole di un poeta; tutt’altra e più difficile cosa. Allora vi dico questo: le poesie di Francesca hanno il profumo del ragù la domenica mattina, hanno a che fare con il fango con il quale giocavo da bambino, hanno il sapore del pane calato di nascosto nella pentola, hanno qualcosa in comune con il sangue che scorre caldo e con le lenzuola sgualcite o i vestiti lasciati ai piedi del letto. Non so se mi spiego.
Sono “cose vere” e appartengono alle umane sensazioni, sono luoghi e non-luoghi in cui prima o poi ci troviamo tutti, sono istanti di vita che si espandono sotto la lente d’ingrandimento della sensibilità del poeta. Non voglio aggiungere altro perché sarebbe solo una ripetizione o un esercizio di stile.
Un libro di poesie come Chernobylove è da tenere e conservare, da leggere quando “chiama”, a piccoli sorsi, come un buon caffè sempre caldo, sempre pronto, a volte amaro, a volte dolce.
Chernobylove – Il giorno dopo il vento
Francesca Pellegrino
Kimerik Editore
12 euro
Ho contattato Francesca Pellegrino e le ho chiesto un po’ del suo tempo per concedermi una piccola intervista che potete leggere di seguito. Che altro dirvi? Ah, certo, potrei dirvi che Francesca Pellegrino è di Taranto, che ha vinto premi letterari, che è presente su riviste letterarie internazionali quali Journal of Italian Translation e Gradiva di New York, che molte sue poesie sono tradotte in diverse lingue e sono in giro per il mondo, ma sarebbe del tutto superfluo perché le emozioni e la bravura non hanno bisogno di lettere di raccomandazioni.
Intervista a Francesca Pellegrino
MASSIMO – Il libro è intitolato “Chernobylove – il giorno dopo il vento”. Vuole raccontarci la genesi di questo titolo.
FRANCESCA – C’è stato un momento, durante la stesura del libro, in cui sono stata assalita dalla parola “Chernobylove”, che poi è il titolo di una delle poesie. Dico che sono stata assalita, perché è come se avessi compreso che quella parola fosse la sintesi perfetta dell’intero libro, la parola “esatta”, insomma. Il giorno dopo il disastro a Chernobyl, il cielo aveva un aspetto meraviglioso: sbriluccicava di stelle. Di fatto fu evacuata tutta una città e i danni che comportò il disastro, li sappiamo tutti. L’amore – o meglio la demagogia intorno all’amore – è qualcosa che provoca, metaforicamente parlando, un disincanto simile. Pensiamo alla pubblicità che ci impacchetta bugie con un bel nastro sopra e ci dice che la vita è “Il fantastico mondo di Barbie”, in cui “Cicciobello” piange a comando, ma anche ride a comando e “Ken” è un uomo che fa quel che deve e che può per la sua “Barbie”, compreso carezze pronte premendo il tasto sulla schiena. E poi la casa con “mastro lindo” che ci pensa lui.
Il disincanto, dopo questo gioco che confeziona stereotipi, si chiama “chernobylove”.
M – Ho notato, specie nei titoli, l’uso di oggetti e marche di prodotti comuni, come ad esempio Barilla, Barbie. Come mai? Per dare maggiore forza? Per creare un contrasto e un impatto maggiore?
F – L’effetto non era un’intenzione. Tantomeno un virtuosismo. Era un’urgenza, quella di voler rappresentare, il più verosimilmente possibile, il sistema di “bugie”, convenzionali e no, che il sistema ci propina attraverso i media: la poesia è la verità nascosta, compresa l’ironia della sorte, mentre il titolo è la vita come ce la vogliono raccontare i mezzi di comunicazione.
È un bombardamento continuo di messaggi subliminali, per spingerci a rassomigliare sempre di più a uno stereotipo impersonale e poterci vendere la vita che vogliono. Un mondo in cui la scelta dei colori, delle forme è uno studio demagogico per preparare le coscienze a “ricevere” il prodotto e ad acquistarlo.
M – Sempre sui titoli, alcuni hanno suoni onomatopeici come “Ffiuuuu” oppure “Ciufciuf”. La poesia inizia già dal titolo? Che cosa sono e che cosa rappresentano i titoli delle sue poesie?
F – Come la pubblicità, anche la favola ha la sua responsabilità, soprattutto per la costruzione dei sensi di colpa e delle illusioni. Spesso le stesse dispensano onomatopeie, parlano il linguaggio dei bambini per farsi meglio intendere da loro e iniziare la tela delle bugie che dicevo prima.
Per me il titolo è l’ultima cosa. Prima nasce la poesia. Poi c’è il momento del titolo, che è il momento più difficile. Trovare quella parola o quelle parole che dicano qualcosa di fondamentale a riguardo della poesia di cui portano il nome.
Per me il titolo è una responsabilità. Non deve impaurire, sviare, ma solo accompagnare per mano il contenuto della poesia, come una possibile chiave di lettura o di coscienza, come dir si voglia.
M – Leggendo le sue poesie, ho spesso incontrato delle frasi cancellate, addirittura intere poesie. Come dovrebbero essere interpretati quei versi? Come andrebbero letti? Hanno un “suono” diverso?
F – Tra le cose che diciamo e i pensieri, ci sono oceani che passano. Qualcosa finiamo spesso con l’ometterla, perché, magari, non ci pare adeguata al contesto o perché è una nostra paura, per un nostro personalissimo, quanto soggettivo, vizio di forma.
Così si finisce col proibirsi – per sopravvivere – di guardare alcune cose. Come non dover necessariamente fare più caso ai percorsi quotidiani che ci “abituano”, stancandoci, a vivere una quotidianità che, nel suo ripetersi ciclicamente, ci soffoca.
A volte ho barrato parole che sono ripetizioni, altre che sono “dettagli” importanti, ma che ho il pudore di non dire ad alta voce. Altre volte sono un circolo vizioso, nel quale si finisce col trovarsi, ma non si hanno i mezzi per poterne uscire. Tuttavia, seppure evitiamo di prestare la nostra attenzione, quei pensieri, anche se nascosti, ci sono. Ecco, lasciarli barrati è un segno della loro esistenza.
M – Si dice che la poesia del Novecento sia andata in crisi a causa della mancata riforma del linguaggio poetico. I grandi temi sembrano aver lasciato il passo al quotidiano, i critici parlano di “quotidianisti” ovvero, cito, di coloro che eleggono il quotidiano a monumento sepolcrale della poesia. Quando, secondo lei, il quotidiano può essere poesia e quando invece si corre il rischio di scrivere qualcosa che assomiglia tanto a “mio caro diario”?
F – Personalmente credo che non si possa trattare di poesia qualcosa che non dica la contemporaneità a cui appartiene. Non si può dire Poesia, quando la stessa non parli il linguaggio del suo tempo.
I grandi temi sono questi, secondo me. Alla poesia spetta il compito di “raccontare” tutti i contorni possibili di un tempo e deve farlo con gli occhi di chi, quelle cose, le ha viste e vissute.
È importante dire, però, che questo è possibile soltanto se a dirle, è un Poeta.
Lo dico, perché il Novecento ha partorito tanti finti poeti, persone che si siano cimentate nella costruzione di qualche pensiero, azzardando la parola Poesia. Questo ha aumentato esponenzialmente i numeri e favorito i difetti dell’editoria attuale.
M – La poesia moderna ha subito quello che in letteratura prende il nome di dismetria (distruzione della struttura metrica) fenomeno al quale si affianca la distassia (distruzione della linearità sintattica). Così si ha la possibilità di andare a capo quando si vuole, senza pensare ai versi ed alla metrica, e nemmeno alla logica di costruzione della frase. Allora come si fa a comprendere quando ci troviamo di fronte alla poesia e quando invece siamo di fronte a un testo di prosa semplicemente mandato a capo a caso? Non si rischia di rendere “tutto” poesia?
F – La forma della poesia è un vestito. Ogni “a capo”, ogni ripetizione, ogni cadenza, è assolutamente una scelta “esatta” di quello che il Poeta ha scelto essere il vestito della sua opera. E non è vero che non si parla più di metrica. Le figure retoriche, il suono, l’uso di ogni possibile accorgimento, rendono possibile l’identificazione di un “sistema”, magari non conforme alle regole classiche, ma comunque assolutamente codificabile. È chiaro che non basta mandare a capo un testo per dire che sia Poesia.
Penso si possa parlare di Poesia solo quando, quelle parole, potevano essere le sole che potevano dire il suo contenuto.
M – Negli anni 80 del Novecento, si è avuto un fenomeno duplice: da una parte è stata messa in atto una vera e propria liquidazione della poesia meridionale, si veda in proposito la pubblicazione da parte di Giovanni Raboni (1981) di un’antologia intitolata “Poesia Italiana Contemporanea” in cui s’includono i maggiori poeti del Novecento ma si escludono tutti quelli meridionali. Dall’altra una corsa alla “vendita” di merce letteraria da parte di chi meglio ha saputo vendersi; tanto è vero che tutto il decennio tra il 1980 al 1990 è stato caratterizzato dalla poesia di coloro i quali facevano i traduttori o i professori di letterature straniere presso le università.
Com’è oggi lo scenario della poesia? Quali sono le difficoltà, se ce ne sono, che sta incontrando?
F – Sinceramente non sto incontrando difficoltà particolari. Per me la parola “difficoltà” passa per altre strade, come lo sbarcare il lunario a fine mese e ingegnarsi, giornalmente, nella sopravvivenza. Mi ritengo fortunata: la Poesia, in una maniera o nell’altra, mi ha portato solo cose bellissime.
Che poi il sistema Poetico italiano sia profondamente in crisi, è una realtà, ma, per conto mio, faccio tutto il mio possibile, e lo faccio tutti i giorni e in ogni luogo. E per dovere di sintesi, come gli ingegneri sanno, se ad un problema non c’è soluzione, il problema non esiste.
Sto inventandomi, altre forme di “esposizione” per la Poesia, così da accostare chi della Poesia, non sa nulla o sa cose errate. La Poesia è di tutti, non soltanto degli addetti ai lavori. Chiunque deve sapere cosa sia, per poi scegliere se amarla o no. In troppi credono che la poesia sia solo quella dei finti poeti e questo per la Poesia è vittima di un terribile pregiudizio che allontana la gente dalla stessa. E sono certa che le cose possano e devono migliorare, ma ci vuole lungimiranza e ascolto: ascoltare, per pretendere di essere ascoltati. Altrimenti, non si arriva a nulla.
M – Forse glielo hanno chiesto in tanti, ma è la domanda che ci poniamo un po’ tutti quando ci troviamo di fronte a qualcuno che fa letteratura. Come trova la sua ispirazione? Quando si rende conto che quella cosa che l’ha in qualche modo colpita, può diventare poesia? E poi, secondo lei, quanto conta l’ispirazione e quanto “l’artigianato”, che c’è dietro al lavoro di chi scrive ovvero quanta la “fatica” e quanta la “creatività”?
F – È che ho una pessima memoria, spesso dimentico arcipelaghi di parole per strada. Dovrei stare con un taccuino nella testa, per segnare tutto. Non c’è un momento che potrei chiamare “ispirazione”, perché ogni cosa può esserlo. È come stare dentro le stagioni e vivere la loro filosofia. Di continuo. Esistono i momenti in cui sono solo pensieri e momenti in cui, gli stessi, si trasformano e volano via come farfalle. Come le stagioni, appunto. Qualcuno mi ha chiesto: “quindi ti piace scrivere poesie?”. Gli risposi di no. Non è che mi piaccia, è che io sono così. E scrivo, come sono. Per questo ogni luogo è il suo luogo e non esistono contesti “speciali”. Lo sono, semplicemente, tutti.
M – Che importanza hanno le nuove tecnologie nella poesia moderna? Lei fa molto uso della video poesia dove declama i suoi stessi versi. Internet è un’opportunità per la poesia oppure, con tutti i sedicenti poeti che infestano il web, può creare maggiore confusione e allontanare ancora di più dalla buona poesia?
F – La poesia va letta sul libro, sulla carta. Su questo non ci piove. Poi, per accostarsi ad essa esistono mille maniere e che, a volte, sia importante proporre altre forme. Per me la contaminazione artistica è un credo. Ci sono progetti in corso, che prevedono la contaminazione con la fotografia e con il teatro.
Del resto la mia è una generazione abituata a “vedere”. La visionarietà mi sta agli occhi come la fame alla bocca. E di fame ne ho anche tanta. Per questo mi armo di tutto il possibile per diffondere su internet e dove posso, appena posso. Credo che internet si porti dietro una bella possibilità di visibilità, ma anche tanta confusione. Ma se è Poesia – se è Poesia – se è Buona a prescindere, allora resta e sopravvive al caos.
M – Per essere poeti è necessaria la sofferenza? E parlare della propria sofferenza quanto può essere utile agli altri? Quando “rendere poesia” il proprio mondo interiore può essere un dono per gli altri e superare il “fine a se stesso” o lo scrivere “per se stessi”?
F – “Sofferenza” è una parola che mi piace poco, forse perché ne ho troppo rispetto. Riesco a dirla di rado. È come ostentare il dolore e il dolore non si ostenta. Per questo, a volte, sono spietata perfino con me stessa. E chi scrive (o parla) della propria sofferenza e soltanto di quella, penso che proprio non sia il caso di parlare di Poesia. Non voglio sembrare estremamente “dura”, ma credo sia importante che ogni cosa abbia il suo nome. Un pensiero fino a sé stesso non è Poesia; neanche con tutta la buona volontà del mondo. Questo senza nulla togliere alle esternazioni di dolore – sulle quali porgerei tutte le carezze di consolazione che posso – solo che non sono poesia per lo stesso motivo per cui un fiore, non può essere è un’ape.
M – Chernobylove inizia con questi bellissimi versi che ho anche annotato per me:
I sogni sono come i fuchi
prima di morire, avverandosi
figliano nuovi sogni
Quali sono i suoi nuovi sogni? Che cosa sta progettando per il futuro, che cosa si aspetta? Dove sta andando Francesca Pellegrino?
F – Si sa: quando un’ape ti punge, poi muore. I sogni, quando si realizzano, sono api, fuchi che muoiono avverandosi, e prima di morire, ne figliano altri, perché non si può vivere senza averne uno, di sogni.
E poi ci sono i sogni che non si realizzano mai. “Le api regine”: i sogni inarrivabili.
Io, sto inseguendo con tutta la lungimiranza che posso, con tutta la cura, con tutto l’amore, il mio sogno – quello che ho definito “le api regine”; un po’ come l’urgenza delle api, al miele.
M – Grazie per il tempo che ci ha dedicato, Francesca. Le va di regalarci una sua poesia? Anzi una sua video poesia?
F – Grazie a voi, dell’ascolto. L’ascolto è il vero valore. Grazie a voi.
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Caro Massimo
ringrazio infinitamente per l’attenzione, la cura, e la scelta di ogni singola domanda. Le parole sono una responsabilità, alla fine. E questo articolo ne rende esattamente il peso specifico.
Grazie.