di Diletta Finotto
Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, 1975.
C’è stato chi voleva farne un fritto misto.
C’è stato chi l’ha considerato un capolavoro senza precedenti, ma senza averlo letto.
Di Horcynus Orca non si è mai capito un granché. Il perché?
Caro lettore,
Horcynus Orca è uno di quei romanzi difficili, di quelli che quando tieni tra le mani, prima di aprirli, fai un bel respiro perché sai che pretenderà tutto te stesso.
Un romanzo che chiede di essere posato, dopo sole poche pagine lette, per poter apprezzare ogni parola così abilmente costruita, per poter scoprire ogni significato nascosto; niente in Horcynus Orca ha un’unica chiave di lettura.
Un romanzo che esige un lettore caparbio, che non demorde davanti alle incomprensioni, che si diverte nello srotolare gomitoli nel caos, che si lascia cullare dagli avanti e indietro temporali e che accetta, con tacito consenso, le incertezze: alcuni punti di domanda non chiedono di essere interrogati, perderebbero la loro fascinazione, vanno semplicemente lasciati vagare, fluttuanti sopra un alone di arcano mistero.
Il romanzo darrighiano è la storia di un nostos, quello di ‘Ndrja Cambria, un nocchiero semplice della fu regia marina che se la scapola per casa. E come ogni nostos:
“C’è sempre un mare rosso, un mare vivo o morto, che si para davanti a chi va ramingo, in cerca di casa…”
E questo mare è lo scill’e cariddi, nome preso in prestito dal serbatoio omerico. Sì perché ‘Ndrja Cambria non è altro che una delle tante copie novecentesce dell’Ulisse omerico: un Ulisse che parla un dialetto jonico, che odora di acqua salmastra, reduce da una guerra che non è quella di Troia ma la nostra Seconda Guerra Mondiale. D’Arrigo non è il primo autore che si azzarda a rapire Ulisse dall’antica Grecia per collocarlo nel proprio romanzo: Joyce l’aveva trasportato in Irlanda per quella famosa giornata dublinese in nome dell’eroismo della banalità che fa tanto novecento, Tasso l’aveva catapultato nel Nuovo Mondo, tra esploratori e colonizzatori, per non parlare di Dante che addirittura l’aveva spedito all’inferno, reo di aver sfidato Dio.
D’Arrigo sceglie Odisseo per farne l’emblema del mito e subito dopo immolarlo nell’altare della storia. Storia vestita col suo abito più aberrante: la guerra.
E Cariddi… culla del nostro reduce, piccolo paesino siciliano, fatto di pescatori, i cosiddetti “pellisquadre”, coloro che si guadagnano da vivere con un mestieruzzo sano e onorevole.
Cariddi così arcaica, ancestrale, pregna di sostanza mitica.
Cariddi, ultimo baluardo del mito, spento dal soffio pestilenziale della storia.
Intaccato, contaminato, avvelenato, devastato.
Horcynus Orca è il funerale del mito, la sua celebrazione e il suo compianto. Non c’è speranza per ‘Ndrja di ritrovare la sua Itaca, ovunque cammini, posa il suo passo Sui prati, ora in cenere, d’Omero*.
E di nuovo il mare. Nel mare l’eroe deve tornare.
Mare che è vita,
mare che è placenta
mare che è madre.
Mare che è sangue,
mare che è morte;
sepoltura itinerante di soldati caduti.
L’acqua è il ciclo della vita, l’inizio e la fine di quel grande cerchio che è Horcynus Orca.
E poi il buio.
Un folle volo dantesco.
“Dentro più dentro, dove il mare è mare.”
Horcynus Orca è un libro scritto col blu.
Una penna, spinta dalla spuma lussureggiante dell’onda marina, si è posata nella carta bianca stropicciata. Ci ha scritto sopra, con fare ondoso.
Dicono che qualcuno ha sentito l’odore del mare leggendolo.
*La poesia, considerata vero e proprio incunabolo del romanzo, è tratta dalla raccolta Il Codice siciliano, Milano, Scheiwiller, 1957.
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