Il commissario Fabio Forti mi aspetta al bar di Sauro, una di quelle istituzioni che non ti fanno pensare mai al mondo di essere sulla Riviera romagnola. Il lungomare e le discoteche sono lontani anni luce da un posto dove i ragazzi che stanno seduti in veranda a suonare la chitarra e passarsi uno spinello, appoggiano la birra accanto ai tavolini perennemente colonizzati dalla maledizione del barista, i vecchietti che giocano a carte tutto il giorno e consumano al massimo un caffè, e guai a dirgli qualcosa perché i romagnoli hanno sempre ragione loro. Al massimo, la sera si fanno un grappino e poi litigano. E quelli che suonano la chitarra e si fanno le canne, più di un paio di birre non consumano, accidenti al bar di una volta, dice Sauro, quando fare il barista era una missione. Ma prima che anche il suo locale venga infestato dai fighetti degli aperitivi, dagli sborini, come diciamo noi in Romagna, da quei soggetti tutti firmati e alla moda che vengono a caricarsi di vodka prima, durante e dopo la discoteca, e non fanno in tempo a spendere i soldi che babbo gliene dà degli altri, io e il commissario ci diamo appuntamento qui, a berci una birra per farci venire appetito prima della piada con la salsiccia e il sangiovese.
Ho conosciuto il commissario Forti ai tempi della sua prima indagine, ambientata in riviera sul finire dell’estate, quando la stagione invecchia, le spiagge si svuotano, i turisti vanno a casa e rimangono solo gli indigeni e certi personaggi che non si sa mai bene cosa fanno per mantenersi, tra night club e residence anche in inverno. Io e Fabio ci siamo presi bene da subito: romagnolo come me, è il classico sbirro in crisi di identità. L’autorità gli va stretta, si fa incantare dalla sinistra antagonista, ha pure sposato un’anarchica e in questura non lo mandano giù. Guarda i ragazzi che suonano e si passano la canna e per un momento vedo passare nei suoi occhi la voglia di unirsi a loro. Come me, non ama il gigantesco meccanismo automatico che ci dà da vivere e che in cambio ci riduce tutti a ingranaggi, risucchiandoci la linfa vitale come in una castrazione di massa teleguidata. Ma dobbiamo campare anche noi, e il commissario ha pure tre figli da mantenere. E poi anche lui è un ciclista, e sa quanto è dura la salita. La si aggredisce con entusiasmo, poi l’energia cala metro dopo metro, i muscoli si riempiono di acido lattico e ci possiamo solo fare forza pensando alla fontana di acqua fresca che ci aspetta in cima. Però noi siamo romagnoli, discendiamo delle popolazioni barbare che si erano accampate in queste pianure aspettando il momento buono per dare l’assalto finale all’Impero romano, e quando c’è da combattere sappiamo anche adattare gli ingranaggi alla nostra maniera creativa.
Questa seconda indagine del mio amico commissario è fortemente intrecciata alle caratteristiche di una terra dove si sono fatti i soldi in fretta, e tanti, ma in pochi decenni si è disgregato un tessuto umano e sociale costruito nei secoli. Un po’ quello che sta per fare Sauro, il nostro barista; quando si accorgerà che in due ore di lavoro con gli sborini degli aperitivi, incassa quanto a tenere aperto fino alle due di notte per i ragazzi che suonano e gli operai che giocano a biliardo, sbatterà fuori i pensionati che occupano i tavolini da mattina a sera con un caffè, anche se per adesso spara col fucile del babbo alle pantegane che risalgono dal fossato. La nostra Riviera è ancora così, un misto di corruzione da terzo millennio e di pregiudizi provinciali, e da un fatto di cronaca nera abbastanza comune, il ritrovamento del cadavere di una ragazza uccisa in pineta, può saltare fuori un intreccio di quelli che fanno venire male alla testa, dove sono coinvolti tutti e di più, politici locali, direttori di banca, albergatori, usurai, funzionari comunali, gay e transessuali.
Il commissario Forti mi racconta della scritta che la ragazza, prima di morire, è riuscita a tracciare sulla sabbia, di quella pista che li ha portati a un pregiudicato siciliano che non c’entrava e però invece c’entrava, e di lì mi ha invornito con i ragazzotti in fuga verso le cubane, i direttori di banca in società con gli usurai, il vitellone che da giovane, d’estate, faceva i grandi numeri e rimpiange le svedesi di una volta, mica come le russe di adesso che ti chiedono sempre dei soldi… e via col razzismo di noi altri, perché i finocchi ci fanno schifo ma coi trans è diverso, prendiamo le badanti ucraine per i nostri vecchi ma non le vogliamo vedere sedute ai giardinetti e gridiamo vendetta se qualcuna riesce a farsi sposare dal nonno, che si vuole cavare una soddisfazione prima di morire. Ma prima o poi, era inevitabile, si arriva al politico locale, come Paolone, l’assessore all’urbanistica di cui non si poteva fare a meno di notare i denti, un paio di canini aguzzi con i quali trasmetteva la sensazione di poterti azzannare in qualsiasi momento. È quello capace di venderti la giustificazione della corruzione in politica, e che ha la faccia come il culo di spiegarti che la gigantesca speculazione edilizia in cui ci sta mangiando tutta la sua cricca è a nome dell’interesse pubblico. Quando lo sentiamo parlare, però, capiamo che lui è solo il gradino più basso del potere politico, quello che con la sua opera contribuisce a creare l’immagine della realtà che di volta in volta fa comodo a chi tiene in mano le autentiche redini del potere. Noi gli diamo del bastardo e dell’infame, ma nella grande mangiatoia è poco più di un cameriere. Forse, a dir molto, un assaggiatore.
Nei romanzi gialli, quando si arriva in fondo, la spiegazione finale del delitto capovolge il senso di tutti gli indizi comparsi nel libro, e quindi anche del ruolo dei sospettati. Gli elementi rimangono gli stessi, ma la soluzione ne rovescia completamente il senso. È il rovesciamento della prospettiva, che mi tiene attaccata al racconto del commissario finché Sauro il barista, che già da un po’ si è messo a dare lo straccio per terra, ci sbatte in mano due lattine di birra e ci caccia fuori perché lui domattina deve aprire alle sei. Ce le andiamo a bere sulle dune tirate su d’inverno dai bagnini per non farsi mangiare le cabine dal mare, che torna padrone della spiaggia. È tra gli alberghi chiusi e le colonie abbandonate che la nostra riviera riprende il suo sapore di Romagna, di terra indomita dove noi facciamo sempre le cose alla nostra maniera, e anche i commissari di polizia, a volte, conducono le indagini in un modo non proprio ortodosso. Ma in che modo, non ve lo racconto. Sarebbe una cattiveria, come mangiarvi davanti i cappelletti in brodo e dirvi quanto sono buoni. Il racconto del commissario Forti ve lo lascio da gustare come i bomboloni caldi che noi due ci andiamo a mangiare proprio adesso, con l’alba che illumina le colline e le sagome dei castelli medioevali che le proteggono, e il Monte Titano all’orizzonte, con la Repubblica di San Marino sempre pronta a nascondere le sue sorprese.
Simmetria mortale
Enrico Carlini
Editore Robin (collana I luoghi del delitto)
376 pagine
15 euro
- Cinquanta sfumature di Amore – L’Amor Felino - 17 Febbraio 2014
- Resistenza in vita - 3 Febbraio 2014
- Non è mai troppo tardi - 6 Gennaio 2014