di Ella May
Giorgio Fontana, classe 1981, vive e lavora a Milano, tiene un corso di scrittura digitale per la Scuola Holden e, soprattutto, è il giovanissimo vincitore del Premio Campiello 2014. Non credo che sia necessario aggiungere altro per presentarlo. L’abbiamo raggiunto telefonicamente in una delle sue giornate cariche di impegni e abbiamo avuto il piacere di chiacchierare un po’ con lui, tra una corsa e l’altra.
Disponibile e sincero, semplice e diretto, ci ha raccontato la sua passione per la scrittura e il suo ultimo meritato successo.
1) Ciao Giorgio, è un vero piacere per noi poterti ospitare nello spazio di LetterMagazine.
Tanto per cominciare, ci piacerebbe conoscerti meglio. Che lavoro fai in quel di Milano?
– Per dirla in termini tecnici, sono “content manager”, cioè scrivo contenuti e curo la comunicazione per un’azienda di software. E sì, è un lavoro che mi piace.
– Cos’altro ti piace fare, quando non sei occupato a lavorare o a scrivere?
– Non vorrei deluderti, ma sono un ragazzo normalissimo. Nel tempo libero esco con gli amici, suono la mia chitarra, viaggio ogni volta che posso, leggo, ascolto musica.
2) Come sei diventato scrittore? Hai iniziato pubblicando per Mondadori nel 2007: svelaci come hai fatto… Conosco ragazzi che darebbero un occhio per riuscirci.
– Senza trucchi o sotterfugi, davvero. Ho semplicemente inviato il romanzo a varie case editrici ed è stata proprio la Mondadori a rispondermi. Naturalmente ho avuto anche molti rifiuti, anche per i libri successivi. Credo che conti molto la determinazione e la capacità di sopportare un fallimento.
3) Spesso gli artisti sviluppano la tendenza a riti scaramantici o maniacali che eseguono immancabilmente prima di mettersi all’opera. Tu ne hai qualcuno?
– No no, nessun rito strano. L’unica cosa di cui ho bisogno quando scrivo è la solitudine.
4) Quanto tempo dedichi allo studio e alla ricerca per i tuoi romanzi?
– Moltissimo. Studiare è indispensabile per conoscere a fondo l’argomento di cui si vuol parlare. Per scrivere “Morte di un uomo felice”, ad esempio, ho impiegato tre anni.
5) Mentre scrivi fai leggere le tue pagine a qualcuno di fiducia o ti tieni tutto per te?
– Preferisco scrivere per conto mio fino alla fine, per non rischiare di farmi influenzare troppo. Poi sì, quando il lavoro è concluso lo faccio leggere.
6) Nella vita di tutti i giorni, qual è la cosa che apprezzi di più e quella che invece ti dà più fastidio?
– Domanda spiazzante. Diciamo che sopporto male certi rapporti di potere, mentre apprezzo molto l’onestà intellettuale, ecco.
7) Con “Morte di un uomo felice” hai vinto il Campiello 2014 ed eri l’autore più giovane della cinquina finalista, deve essere stata un’esperienza emozionante. Come l’hai vissuta?
– Sì, è vero, è stata un’esperienza importante. A dirla tutta è iniziata da lontano, con il tour di presentazione che si è tenuto nei mesi di giugno e luglio… La sera della finale penso di essere rimasto in apnea per dieci minuti buoni, tanto ero emozionato. Gli altri finalisti sono stati gentilissimi con me, si è instaurato da subito un bel clima tra di noi.
8) Cosa ha significato per te vincere il Campiello? Cosa cambierà adesso nella tua vita di scrittore?
– Non lo so ancora. Di sicuro sono aumentati gli impegni, le richieste d’interviste ed è cresciuto il numero di copie vendute, però nel mio quotidiano non è cambiato nulla. Mi sento più libero e più sereno quando scrivo, ma non per questo mi metterò seduto a campare di rendita, se così si può dire. Non è un punto d’arrivo quanto piuttosto un altro punto di partenza, un nuovo inizio. Mettiamola così: la mia vita di scrittore non cambia; la mia routine quotidiana è cambiata un po’ e forse cambierà ulteriormente nei prossimi mesi. Ma per ora vado avanti così.
9) Parliamo un po’ dei tuoi libri e dei tuoi personaggi. “Morte di un uomo felice” forma un dittico con il precedente “Per legge superiore” e i due romanzi hanno molti spunti in comune. A grandi linee si potrebbe dire che sei partito dalla crisi etica di un magistrato sessantenne per arrivare ai conflitti interiori di un magistrato quarantenne. Cosa differenzia i due protagonisti e cosa invece li accomuna?
– In effetti si tratta di due uomini abbastanza differenti l’uno dall’altro. Doni, protagonista di “Per legge superiore”, è soprattutto un conservatore, un uomo che non perde tempo a farsi troppe domande, molto pragmatico… Mentre il Colnaghi, protagonista di “Morte di un uomo felice”, è un idealista, un uomo tormentato e votato al dubbio. Secondo me è più simpatico il Colnaghi.
10) Accanto a questi due notevoli uomini ci sono le mogli, due donne “appropriate” che li amano quasi da lontano, senza entrare troppo nel mondo più o meno sofferto dei mariti. Sono personaggi meno delineati e meno approfonditi. Come mai?
– Non è stata una scelta voluta e razionale. È vero che sono due romanzi prettamente maschili, in cui sono gli uomini ad avere il ruolo preponderante. Ed è vero che le donne sono poco definite; soprattutto in “Per legge superiore” avrei forse dovuto tratteggiare meglio la moglie del Doni. Però c’è ad esempio la figura di Elena che ha il suo peso nell’evoluzione della storia. È proprio la giovane giornalista free-lance che in qualche modo risveglia la coscienza del magistrato, spingendolo a ricordare i sentimenti e i valori che lo avevano animato in gioventù.
11) Entrambe le vicende hanno come sfondo la città di Milano, che poi è anche la tua città.
– Sì, è vero. Trovo che Milano sia un’eccellente ambientazione. È una città che ha moltissimo da dare, andando oltre gli stereotipi semplificati che tutti conosciamo. Io ci vivo da sette anni, ormai posso dire di conoscerla, ne ho scavato perfino i lati inediti e credo che meriti di essere raccontata, anche al di fuori del clima tipico del giallo e del noir. Possiede una bellezza ruvida e nascosta che non ha nulla di immediato e non ti cade addosso… Devi andare a cercartela.
12) Visto che ne hai parlato, colgo la palla al balzo: questi due romanzi hanno in qualche modo il respiro del giallo o del noir?
– No, non direi. Io li definirei più che altro “romanzi esistenziali”. Raccontano vite complicate intrecciate con storie complicate.
13) Se tu dovessi scegliere una colonna sonora e una fotografia per raccontarli, quali sceglieresti?
– Guarda, sinceramente non saprei dirti, non ho troppa affinità con il cinema. Dovendo scegliere… Forse per la musica opterei per un quartetto di Brahms, o comunque per la musica da camera tardo ottocentesca. Per la fotografia… Assolutamente in bianco e nero.
14) Soffermiamoci un attimo su “Morte di un uomo felice”, il titolo con cui ti sei aggiudicato il Premio Campiello 2014. Giacomo Colnaghi è un magistrato quarantenne, a suo modo cattolico, di umili origini, che tiene molto agli amici e che ha rapporti distanti con la famiglia.
Quanto c’è di te in lui e in cosa, invece, è diverso da te?
– Se mi stai chiedendo quanto ci sia di autobiografico nel personaggio, ti rispondo che non c’è quasi niente. Ci somigliamo perché crediamo nell’onestà del lavoro e nell’amore per la felicità fatta di piccole cose, come le cene tra amici in trattoria, i giri in bici, le semplici spiritosaggini. Per il resto abbiamo molto poco in comune. Lui è cattolico, io ateo; lui è democristiano, io l’esatto opposto; lui è sposato con figli e io single; e così via.
15) Perché hai eletto questo personaggio, secondario nel primo libro, a protagonista del secondo? Cosa ti aveva colpito di lui?
– Nelle poche righe che gli ho riservato in “Per legge superiore” il Colnaghi ha dimostrato di essere un personaggio interessante: un magistrato cattolico, il contrasto tra la giustizia divina e la giustizia terrena, la lotta armata di sinistra… Mi è rimasto subito simpatico, contraddittorio ma bendisposto alla risata. Per di più viene da Saronno come me e questo mi ha dato la possibilità di raccontare i luoghi della mia infanzia.
16) Dunque: famiglia cattolica e padre partigiano e, come se non bastasse, magistrato impegnato contro il terrorismo rosso. Il Colnaghi sembra essere il paradigma della contraddizione. Qual è il suo tormento maggiore?
– Il conflitto/confronto con il padre partigiano è senza dubbio un punto cardine del romanzo. Il protagonista si interroga di continuo su come il padre avrebbe potuto giudicarlo. Si chiede costantemente se l’avrebbe apprezzato per ciò che è diventato, con il timore di risultare deludente. Per lui il padre è l’eroe assoluto, nonostante tutto ciò che la sua famiglia cattolica e conservatrice possa pensarne.
17) La storia si svolge negli anni del terrorismo rosso, un periodo che ha indubbiamente segnato la storia dell’Italia e la sua futura evoluzione politica. Tu cosa pensi di quegli anni?
– Essendo nato nel 1981, non ho vissuto coscientemente gli eventi di cui parlo nel libro, però li ho studiati con attenzione; ciò che ho apprezzato dello spirito di quel periodo è il sentimento di coesione sociale che ormai non esiste quasi più, la spinta dal basso verso l’alto che pure si andava già spegnendo ma che animava ogni lotta sociale con la voglia di un paese più giusto.
18) Se il Colnaghi fosse magistrato ai giorni nostri, come descriverebbe l’Italia attuale e come ci vivrebbe dentro?
– Ci vivrebbe bene e male, come ci viveva allora. L’avrebbe osservata con uno sguardo disincantato, ma spiritoso e partecipe.
O forse avrebbe dismesso la toga per indossare la tunica e avrebbe fatto il prete a Saronno.
19) Cosa impara il Colnaghi alla fine della storia? Qual è la verità che trova?
– Il libro si intitola “Morte di un uomo felice”, quindi va da sé che il protagonista più che imparare qualcosa alla fine muore. Però come spunto di riflessione, direi che pone l’accento sul concetto di giustizia come comprensione attiva, non basata soltanto sullo scheletro delle leggi.
20) E tu invece, cos’hai imparato scrivendo questo romanzo?
– Scrivere questa storia è stato molto faticoso e complesso, una bella palestra tecnica, che mi ha aiutato a fare un’ulteriore esperienza con la scrittura. Spero mi servirà per il futuro.
21) Prevedi un futuro per il Colnaghi all’interno della tua produzione letteraria? In altri termini… Il dittico diventerà un trittico o hai già la mente rivolta ad un altro progetto?
– Al momento non ho in mente niente di preciso, solo qualche idea; ma di sicuro con Colnaghi e giustizia finisce qui, la sua vicenda non avrà un seguito e il dittico non diventerà una trilogia.
22) In conclusione, te la senti di dare un consiglio ai molti ragazzi che vorrebbero diventare scrittori?
– Non saprei cosa suggerire, se non che a scrivere si impara scrivendo.
Bisogna scrivere e riscrivere tantissimo, rileggersi e avere il coraggio di buttare via molto di quanto si è prodotto, in modo da conservare solo ciò che vale e poi, da lì, crederci davvero.
Noi ringraziamo di cuore Giorgio Fontana per essersi prestato a parlare con noi e per averci permesso di conoscere il suo lavoro attraverso le sue stesse parole. Ci auguriamo di ritrovarlo presto in libreria con un nuovo romanzo e siamo certi che continuerà ad ottenere tutto il successo che merita. Lo salutiamo con grande affetto e con la speranza che vorrà incontrarci ancora, alla prossima occasione.
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