di Ella May
Non è la prima volta che “uso” un libro per conoscere meglio chi lo ha scritto; tale operazione (sempre e comunque interessante) in certi casi si rivela semplice e immediata, in altri invece richiede uno studio più approfondito e corposo.
Con Luca Ricci non è stato né facile né faticoso; è stato difficile. Sarebbe inutile spiegarne il motivo, perché lui è un autore che va letto, e basta. Descrivere il suo stile, solo in apparenza liscio e scorrevole come l’olio, nella migliore delle ipotesi potrebbe fornire a stento un riflesso di cosa si prova immergendosi nel suo mondo, denso di parole a tal punto chirurgiche da regalare al lettore un perfetto sentimento dell’ambiguo. Per questo il titolo del suo ultimo lavoro, “Fantasmi dell’Aldiquà”, edito da La scuola di Pitagora, è più che calzante.
Quando si cerca di raccontare un libro che si è letto, una delle maggiori tentazioni a cui ci si sottopone è quella di spiegarne il titolo; stavolta la voglia di farlo mi fa addirittura prudere il naso, perché nel momento in cui si afferra il suo significato sembra di aprire una finestra su un mondo che è sempre stato lì, davanti ai nostri occhi, ma che eravamo incapaci di vedere. Eppure non lo farò, per non privare nessuno della sorpresa che ho sperimentato io.
Una cosa però sono costretta a dirvela: se cercate un libro che vi faccia star bene, che vi faccia dimenticare per un attimo i vostri dubbi e le vostre incertezze, non leggete “Fantasmi dell’Aldiquà”; questo volumetto ha l’insospettabile capacità di trascinarvi in una sorta di sogno lucido vivido e reale che, prima o poi, toccherà di sicuro uno dei nervi scoperti più segreti che vi affannate a nascondere, senza che voi possiate difendervi. E affonderà i suoi artigli in profondità. Siete avvisati.
1) Ciao Luca, benvenuto su LetterMagazine. Ti confesso che sono emozionata all’idea di poterti finalmente intervistare, dato che tu sei considerato uno tra i migliori nel nostro panorama letterario. Se ce lo permetti, a noi piacerebbe partire dai tuoi albori. Ci racconti perché hai deciso di fare proprio lo scrittore e come hai iniziato a scrivere?
Come ho iniziato è facile, Stephen King (un autore che ho letto da ragazzo, conoscete?) direbbe una parola dopo l’altra, da sinistra a destra. Ho qualche difficoltà a evadere la parte relativa al ”perché”. Se scoprissi le ragioni profonde, se le risolvessi e rimuovessi, non scriverei più. Sarei spiegato e sterile, un obbrobrio.
2) Allora raccontaci almeno il tuo esordio. Ci parli del primo testo che hai pubblicato e come ci sei riuscito?
Il primo racconto in volume l’ho pubblicato nel 1998 in un’antologia che s’intitolava “Embrioni, prime prove di scrittori”. Mi ricordo che presi un treno e andai a prelevarne una copia direttamente negli uffici dell’editore. Festeggiai al secondo piano di un McDonald’s, guardavo Milano da questo punto appena sopraelevato, e mi sentivo il Re del mondo. Per me all’inizio ha contato molto il giro milanese che si era formato attorno alla rivista Addictions. C’erano Leonardo Pelo, Raul Montanari, Andrea G. Pinketts, Andrea Carlo Cappi e Sandro Ossola. Gente generosa, matta ma con un cuore così. Mi trattavano già come un autore nonostante fossi solo un ragazzetto di provincia. Sono stato allevato, me ne rendo conto solo ora, in un covo di noiristi pulp!
3) Dal secondo piano di un McDonal’s milanese alle principali librerie nazionali. Come sei entrato a far parte della scuderia di purosangue “Einaudi”?
È stato per merito (o colpa) di Guido Davico Bonino, uno degli ultimi einaudiani doc rimasti in circolazione. Lesse alcuni dei miei raccontini e ne rimase folgorato. La prima volta in casa editrice venni portato al cospetto del Presidente, Roberto Cerati. Mi disse qualcosa che dalla troppa emozione non capii, e allora blaterai una sentenza di Wittgenstein, per tentare di fare bella figura.
4) Prima di lasciarti ardere definitivamente dal fuoco sacro della scrittura hai frequentato la Scuola d’Arte Drammatica. Quanto ha influito questa parentesi nel tuo percorso professionale?
Sì, ben prima di tutto questo avevo frequentato sempre a Milano la Paolo Grassi. Ho abbandonato dopo il primo anno perché l’unica lezione che mi appassionava era “drammaturgia”, ovvero lo studio della scrittura teatrale. Quindi direi che la scuola è stata una tappa importantissima: in quei mesi ho capito che avrei davvero fatto lo scrittore.
5) Svelaci chi sono i tuoi autori preferiti e i tuoi punti di riferimento. Quali scrittori ti hanno convinto a dedicarti a questo “mestiere”? Vado anche oltre: secondo te la scrittura può essere un “mestiere” a tutti gli effetti?
Maupassant è in assoluto lo scrittore a cui mi sento più vicino. Ancora oggi, se leggo uno dei suoi racconti so già che ne riceverò una sensazione stupefacente: l’impressione di leggermi. Sono contiguo a un malato di nervi, è andata così. La scrittura non è un mestiere, ma se si vuole combinare qualcosa bisogna fare finta che lo sia. Bisogna inventarsi cartellini da timbrare, e in certi casi perfino superiori dispotici e sottoposti zelanti.
6) Concorsi letterari, scuole di scrittura, talent show per scrittori. Siamo curiosi, dicci la tua.
Hai citato cose molto diverse tra loro. I concorsi letterari in quanto premi in genere servono ad autori già editi, a meno che non siano concorsi per esordienti come il Calvino (che consiglio); le scuole di scrittura funzionano come uno specchio, fanno bene se sei un bravo scrittore, fanno male se sei un cattivo scrittore (quindi direi che sono utili almeno per la funzione del “rispecchiamento”, del riconoscersi per quello che si è); i talent show letterari invece sono stati un buco nell’acqua, ascolti bassi e vendite in libreria dei concorrenti irrisorie.
7) Veniamo alla tua produzione letteraria. Tu sei considerato un maestro del racconto. Aiutaci a capire la tua scelta: perché il racconto e non il romanzo? Cos’ha il racconto che manca al romanzo e cos’ha il romanzo che manca al racconto?
Un romanzo è una narrazione di una certa lunghezza che contiene in sé delle cose sbagliate. Per molti anni mi è interessato cominciare a scrivere carezzando l’illusione del gesto perfetto. La tensione verso la perfezione mi ha relegato nel limbo (soltanto editoriale, beninteso) del racconto.
8) “Mabel dice sì” però rappresenta in qualche modo un’eccezione. Oppure no?
Mabel dice sì è un oggetto letterario strano. Per me è un racconto, nel senso che volevo costruire una situazione – un’atmosfera – più interessante dei singoli personaggi (premessa strutturale comune a tanti racconti), eppure i lettori sono rimasti ossessionati da Mabel. Pensando di liquidarla in poche righe di descrizione, ho creato un mostro: ciascuno vede in Mabel ciò che vuole.
9) Ed eccoci alla tua ultima creatura, “Fantasmi dell’Aldiquà”: come nasce questa raccolta di racconti?
Nasce a seguito di un invito. Mario Andrea Rigoni, il leopardiano e cioraniano, mi ha contattato dicendomi che una piccola casa editrice napoletana (La scuola di Pitagora) voleva imbarcarsi in una grande impresa: approntare una summa della forma breve, mettere in fila i migliori del racconto. Non potevo dire di no, e allora ne ho approfittato per mettere un po’ in ordine la mia produzione di short stories, tentando di approntare a mia volta una specie di best off di quello che era rimasto fuori dalle raccolte già pubblicate in passato.
10) I racconti di questo libro ci riportano scene familiari apparentemente normali che racchiudono nel loro ventre un seme di follia; è così che vedi la realtà della famiglia?
Francesco De Sanctis, uno dei padri fondatori della critica letteraria, ha detto: “Il contenuto può essere importante per se stesso; ma come letteratura o come arte non ha valore”. La vita familiare è il tema dei miei racconti brevi, ma ciò che più conta è che i miei racconti brevi siano la forma – così modulare, stilizzata – che ho scelto per trattare la vita familiare.
11) A volte sembra che tu affidi allo sguardo dei bambini il compito di mostrare la cruda verità. Ma non dovrebbero essere gli adulti a condurre i bambini verso il mondo reale?
Non so se i bambini siano portatori di verità, in questi racconti. Ci sono delle epifanie, che sono degli svelamenti, anche minuscoli, che però sono fenomeni assai diversi dal giungere a una qualsivoglia verità. Se c’è una verità nei miei racconti penso che si debba ricercare nell’ambiguità. Pare un controsenso, lo so, ma non è così. Questi racconti dicono la verità dell’ambiguità.
12) Il tuo è un libro a suo modo violento; non lascia scampo al lettore così come non transige con i personaggi raccontati. Hai davvero uno sguardo così disincantato sulla famiglia?
Penso che dalla famiglia tutto parta, e che nella famiglia tutto possa finire. Sennò non ci avrei costruito sopra un intero sistema segnico, che prescinde da questa o quella pubblicazione. Ormai qui si tratta di un corpus di un centinaio di racconti, che possono essere ricombinati in libri diversi. Una materia che prima o poi spero di poter fissare in un’auto-antologia che faccia da “canzoniere”.
13) Tutti questi racconti sono narrati in prima persona da altrettanti voci maschili. Anche in Mabel la voce narrante è maschile. Si potrebbe affermare che tutta la tua produzione letteraria sia un coro di voci maschili che cantano melodie tanto poetiche quanto crude e feroci. Perché non hai mai prestato la tua voce ad una donna?
Non credo che una scelta simile significhi necessariamente che nella mia scrittura i personaggi femminili sono proiezioni dello sguardo maschile eccetera. Le donne sono state lavorate quanto gli uomini, ma soprattutto nei racconti, per una questione di ottemperare a vecchie regole sociali, era giusto che a parlare fosse il cosiddetto capo famiglia.
14) Sappiamo che gli scrittori sono gelosi dei loro segreti, ma non possiamo fare a meno di chiedertelo. Stai lavorando a qualcosa attualmente?
Il lavoro più impegnativo di questi mesi è quello di relativizzare l’importanza della carriera letteraria in favore del piacere (e dello strazio) della scrittura pura. Tradotto: per chi scrive gli editori dovrebbero essere ornamenti, conseguenze, mezzi. Soltanto così si può tornare a sentirsi Re, liberi di scrivere ciò che si vuole, come mi è capitato dentro a quel McDonald’s milanese alla fine degli anni novanta.
http://www.scuoladipitagora.it
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