Nine e il musical

Nine esce in questi giorni in versione home video e, pertanto, chi non lo avesse visto al cinema, può rimediare.

Ma è davvero il caso di rimediare? Cioè, quante volte abbiamo mancato le première vision e mentre riflettevamo sul da farsi, se fosse il caso o meno di andare a vedere, indecisi tra un film ed un altro, tra una cena con amici ed un pollo con patate, una recensione ed un’altra, il cinema ed il teatro, la boxe ed il cucito, la poltrona ed il divano, il frac ed il pigiama, la scarpa col tacco e la pantofola, improvvisamente il film stesso ci ha tolto dalle ambasce e, com’era arrivato, se n’è andato. E’ sparito, così, senza che potessimo sentire il gong. Quel tempo nel quale: avanti il prossimo! The show must go on! Il tempo nel quale un film fa posto ad un altro e la giostra continua.

Bene! Allora, avremo detto. Forse non valeva la pena di vederlo ed allora: meglio così.

Però, anche: peccato! Perché se n’era tanto parlato, era costato parecchi milioni di dollari, il cast era stellare e poi… un musical!

Ma tu te li ricordi i musical, quelli che saltavi dalla poltrona, che non ce la facevi a tenere i piedi inchiodati a terra, che li dovevi battere per forza, che le ginocchiate nella poltrona davanti la tua non si contavano più, sino a quando quell’omone alto e grosso davanti si girava e ti guardava brutto? All that jazz? Sì, non soltanto La febbre del sabato sera, perché – in quel senso – davi di testa anche se ti facevi di Grease. Ed era inutile che ti andavi a confessare, perché con Jesus Christ Superstar era lo stesso. Poi venne il tempo degli occhiali da Blues Brothers: se li mettevi la sera al chiuso non vedevi nulla, ma ti veniva di ballare irrefrenabilmente e il senso del film era tutto racchiuso nella danza, nel canto trattenuto a stento e del resto del film non ti interessava granché, perché quello che ti piaceva di più erano le musiche, le canzoni ed i balletti.

Per non parlare di Hair: il massimo della trasgressione al quadrato, anzi al cubo, anzi di più a saperne di matematica. Perché lì, in quelle canzoni, non c’era soltanto la protesta, la ribellione e il desiderio di evadere che è tipico del sogno giovanile. Lì c’era l’indicibile, che era meglio in inglese: almeno non si capiva e, quindi, lo potevi cantare anche a casa mentre tua madre, rimestando il sugo nella pentola si chiedeva: masturbation, che sarà mai?

Ecco: masturbation! Perché, con tutti i milioni di dollari di cui Hollywood dispone, cerca sempre di fare il remake di qualcosa. Cioè di rifare meglio qualcosa che doveva finire lì dov’era stata lasciata. Forse, non sanno più inventare storie nuove? La letteratura non offre spunti per storie mai narrate? E il sogno: perché deve essere quello di Shakespeare (e non dei suoi personaggi), di Agatha Christie (e non delle sue storie). Cioè, quale motivo abbiamo per rievocare al cinema la vita di uomini e donne che sono stati grandi per le storie che hanno inventato? L’artista non dovrebbe essere ricordato per le sue opere, piuttosto che per la sua vita? Allora, perché rievocare la vita di Fellini, piuttosto che riassumerne l’arte, le idee, la visione?

Nine non è 8 e ½, anche se è di più, nel senso del numero. E’ maggiore nel senso del budget, perché Federico Fellini pensava in grande ma Guido Contini, il suo alter ego (Daniel Day  Lewis), nelle mani di Rob Marshall, spende di più: ottanta milioni di dollari, dicono. E forse non li ha recuperati tutti. Allora, perché? Perché si fanno film così? Ma anche, perché non ha recuperato tutti i soldi spesi?

La risposta non è in queste righe, ma nel film, nelle coreografie, nelle musiche, nella storia capricciosa di un uomo (perché un grande artista è pur sempre un uomo) che aveva spostato il baricentro della sua vita sul sogno che viveva dentro di sé. La risposta è nelle corse sui tornanti della litoranea, negli onnipresenti tavoli dei caffè, nelle donne procaci ed ammiccanti che ti lasciano la chiave della camera nel taschino della giacca, nelle sale degli hotel a cinque stelle dell’Italia che non fu mai, se non nell’immaginario di turisti americani in cerca di chist’è ‘o paese d’ ‘o sole.

Guido, sii italiano, dice una delle tante muse ispiratrici (Penélope Cruz, Sophia Loren, Judi Dench, Nicole Kidman, solo per citarne alcune) di Contini, in una delle canzoni più travolgenti del film. Se vuoi far felice una donna, affidati a quello con cui sei nato, perché ce l’hai nel sangue. Sii italiano, ti prego, sii delicato, appassionato, dammi un colpetto sulla guancia, ma sii intraprendente e indifferente. Quando mi pizzichi, cerca di farlo dove c’è un cuscinetto. Sii un cantante, sii un amante, vivi oggi come se domani non ci fossi.

Ma, forse, funziona solo per Contini che visse d’arte, visse d’amore e si poteva permettere di giungere all’inizio delle riprese del suo prossimo film senza copione, confidando sul tocco della sua mano, sul movimento del collo delle bellissime star, sulla bellezza incantevole della luna. Quella forma del bello che lo ha, comunque, travolto come un sogno, distaccandolo dalla realtà, affinché potesse ricrearla nuovamente a sua immagine. Ad immagine dei suoi sogni e dei suoi ricordi.

Guido, tu fai sogni e, per farli, vivi un sogno singolare. Alcuni dirigono banche, alcuni dirigono il mondo, altri semplicemente usano l’impastatrice. Tu, invece, intrecci i sogni e li vivi per darli agli altri. Ma non distingui tra lavoro e focolare, gli dice la moglie (Marion Cotillard) nel film. Noi invece, nella vita di tutti i giorni, i nostri piedi dobbiamo tenerli per terra, dobbiamo vivere oggi solo per essere sicuri di avere un domani. Sogniamo – è vero – ma ad occhi aperti e con il cuore in gola, a meno che un musical…

Stanley Kubrick, che fece danzare i pianeti e le navicelle spaziali, disse: “Un film è, o dovrebbe essere, più simile alla musica che non alla fiction. Dovrebbe essere una progressione di stati d’animo e sentimenti. Il tema, ciò che è dietro all’emozione, il significato: tutto viene dopo”. Le vite problematiche e complesse, le biografie dei grandi  uomini ci interessano, ma ancora di più vogliamo le loro opere. E’ ad esse che siamo interessati. Vogliamo ciò che manca alla natura, agli alveari, ai formicai. Come disse un personaggio di Victor Hugo in un suo romanzo: “vogliamo i monumenti, le arti, la poesia. Noi siamo la società, la natura sublimata. E vogliamo spalancare le ali, non trascinare catene”.


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