«Lo diceva Neruda che d’estate si suda» le disse al telefono, ma forse non era esattamente così. Il fatto è che, se le cose le sai, t’imbrodi. Se invece non le sai, t’imbrigli. E se ti cacci in un imbuto, quando sei a corto d’argomenti, come fai poi a uscirne?
Uscirne? Già. E d’estate dove si va? Al mare. Nessuno ha più voglia di niente, tutto pesa, finanche l’amore. «No, grazie, non mi va di vederti. La verità ti fa male, lo so. Ma nessuno mi può giudicare, nemmeno tu. Lo so che ho sbagliato una volta e non sbaglio più», rispose infastidita lei al telefono, mentre pensava all’unica cosa che era in condizione di fare in quella giornata afosa: stendere un telo pietoso sotto l’ombrellone e chiudere gli occhi, con due auricolari alle orecchie. Ma lui voleva riconquistarla a tutti i costi, nonostante i pesanti rotoloni regina che lo avvolgevano ai fianchi e la fronte estesa sino alla nuca. Forse il mare poteva essere l’occasione giusta. Ecco come fare: occorreva un micidiale cocktail di musica, una compilation, che li riportasse lì, stessa spiaggia, stesso mare per poterla rivedere, per tornare e per restare insieme a lei.
L’attendeva oramai da mezz’ora abbondante al posto convenuto, baciato dal vento caldo del mare, bagnato dal sale, sotto il solleone, rosso in testa e spellato come un peperone. Ed eccola finalmente lì, con il viso suo nerissimo, a-abbronzatissima, sotto i raggi del sole, a due passi dal mare, che avanzava col profumo di salsedine. Avevi ragione tu, mia cara: la vita non dura mai una sera, pensò Carlo mentre lei, tra visioni da Celeste nostalgia, lo raggiungeva nella grazia dei suoi anni, con indosso il bikini mozzafiato del loro primo incontro. Forse aveva azzeccato la mossa dell’invito, una volta tanto.
Lei lo baciò in modo lieve e indifferente sulla guancia. Carlo cercò d’incrociarne lo sguardo sfuggente, ma lei lo allontanò chinando il capo. «C’è una strana espressione nei tuoi occhi. Vogliono dirmi che non mi ami più. Vogliono dirmi che non mi vuoi più bene. Mi fanno già capire che io ti perderò». Temette il peggio. O mio Signore, pensò, in questo mondo io non ho avuto tanto. Eppure sono contento. Però, se questa sera posso farti una preghiera: Fa’ che lei ritorni da me. Meglio affrontare l’argomento senza mezzi termini, in modo diretto, pensò Carlo. E così fece: «Se mi vuoi lasciare, dimmi almeno perché. Io non so capire perché tu vuoi fuggire, da me». «Senza fine, tu trascini la nostra vita. Non hai ieri, non hai domani», rispose lei enigmatica, forse riferendosi alla sua precaria situazione di lavoro e affermando, infine, che tutto era cambiato da un certo giorno.
«Che finimondo per un capello biondo che stava sul gilet!», sbottò Carlo ricordando quello spiacevole equivoco. «Ti dissi: amore, ti giuro sul mio onore, che non ti saprei tradire. Da un chimico il capello hai poi portato e lui, dopo averlo analizzato, ha rilasciato un certificato in cui diceva “dichiaro così: non è un capello, ma un crine di cavallo uscito dal paltò”». Ciononostante, Luglio gli aveva fatto una promessa: vedrai non finirà, l’amore tornerà. Preso il coraggio a quattro mani, Carlo provò ad abbracciarla. «Come te non c’è nessuno: tu sei l’unica al mondo». Ma lei rispose prontamente assestandogli una carezza in un pugno. Non vorrei, pensò Carlo, che a mezzanotte e tre potesse già pensare a un altro uomo! Ma non immaginava ancora che le parole di lei potessero ferirlo ancor di più di quel pugno chiuso. E che parole!
«Mi sono innamorata di te perché non avevo niente da fare». «Prendiamo in affitto una barca», propose Carlo basito, tentando la carta della disperazione. «Andiamo a cercare uno scoglio, un’ora soltanto, andiamo a cercare uno scoglio, che lì si sta meglio». Non trovandone, si fermarono invece presso una rotonda sul mare, con il loro disco che suonava ancora dall’ultima volta. Lì lei, inaspettatamente e piangendo, gli disse: «Perdono, perdono, perdono»: tre volte! E questo era un brutto segno. «A volte piangendo non vedi più. Da come ha sorriso sembravi tu. Di notte, è molto strano, ma il fuoco di un cerino ti sembra il sole che non hai». «Ma, cara!, Quando? Dove?». «Nel continente nero, paraponziponzipò, alle falde del Kilimangiaro», disse lei che nei casi di forte stress doveva intercalare e cantilenare. «So-o-no i vatussi, so-o-no i vatussi». «I vatussi? Quelli che hanno inventato tanti balli?», pensò Carlo in modo assolutamente istintivo e irrazionale. Quelli che si scambiano l’amore profondo dandosi i baci più alti del mondo? E pensare che – beffa delle beffe – lui aveva la pelle del colore della lampada al neon della scrivania e un collo da giraffa in mezzo a due orecchie da elefante. Si sentì bollire dalla gelosia.
Remando sudato, rabbioso e scottato, Carlo si avviò verso la spiaggia lontana: «Da una lacrima sul viso avrei dovuto capire molte cose. Dopo tanti mesi, ora so cosa sono per te», le disse rimproverandola. Ma poi, un lampo sinistro gli attraversò lo sguardo e si fermò, improvvisamente lucido, in mezzo al mare, gettando i remi in acqua, salendo in precario equilibrio con i piedi sul bordo della barca, dando vigorosi colpi sui fianchi cascanti di trippa e facendo, così, oscillare vistosamente la barca: «Guarda come dondolo, guarda come dondolo!», cantò ghignando come il Jack Torrence di Shining mentre lei, impaurita e disperatamente aggrappata al bordo, lo implorava di fermarsi e di non fare così.
«Uò-oh-oh-oh-ò. Uò-oh-oh-oh-ò», disse Carlo con gli occhi sbarrati. «Alla mia età s’incomincia a capire l’amor. S’incomincia a cercar con chi poter sognar. Alla mia età si finisce così di giocar» fu il suo ultimo urlo d’amore disperato, da uomo tradito. Lei, adorabilmente implacabile, ne distrusse le ultime illusioni da dinosauro sentimentale, confessando: «Non ho l’età, non ho l’età per amarti. E non avrei nulla da dirti perché tu sai molte più cose di me. Lascia che io viva un amore romantico». Fu dura ammetterlo, ma quella giovane compagna valeva molto più di quanto lui l’avesse finora considerata. Umiliato e ferito cantò la sua resa: «Non sono degno di te, non ti merito più. Ma al mondo non esiste nessuno che non ha sbagliato una volta. E va bene così, me ne vado da te».
Fu così, cuando calienta el sol, che Carlo Vanzina pensò: non tutto il mare vien per nuocere. Perché, intanto, gli era venuta in mente l’idea strepitosa per un film che avrebbe potuto rivoluzionargli la vita e la carriera. Un film che si riallacciasse alle sensazioni e ai sapori delle canzoni che avevano composto quella giornata eccezziunale veramente e che ne avrebbero formato l’ossatura, sotto forma di colonna sonora: Sapore di mare.
«Ciunga ciunga ciun, ciunga ciunga ciun, la lalalalà… Andavo a cento all’ora, per trovar la bimba mia, ma si bruciò il motore nel bel mezzo della via» cantava nel 1983, mentre correva a casa per scrivere una storia di amori che iniziano e finiscono nel tempo di una stagione e con l’intenzione di caricare sul piatto del giradischi alcuni vecchi 45 giri.
Ma, potreste chiedere, questa qua sopra è una storia vera? Chiedere è legittimo, ma credere è assolutamente vietato. Di sicuro c’è che il cinema è un inganno, ma senza secondi fini. L’unica cosa che conta è quella di trascorrere un po’ di tempo insieme. Finito il film, restano solo le emozioni. Qui, le uniche importanti, sono quelle di una colonna sonora che è stata la compagna delle estati al mare di una generazione di italiani.
Buon ascolto.
45 giri in ordine d’apparizione (clicca col tasto destro se li vuoi ascoltare):
- Stessa spiaggia, stesso mare
- Il peperone
- Abbronzatissima
- Celeste nostalgia
- C’è una strana espressione nei tuoi occhi
- O mio Signore
- Se mi vuoi lasciare
- Senza fine
- Il capello
- Luglio
- Come te non c’è nessuno
- Una carezza in un pugno
- Mi sono innamorato di te
- Prendiamo in affitto una barca
- Una rotonda sul mare
- Perdono
- I vatussi
- Una lacrima sul viso
- Guarda come dondolo
- Alla mia età
- Non ho l’età (per amarti)
- Non son degno di te
- Cuando calienta el sol
- Andavo a cento all’ora
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Si ringrazia per l’editing M. Laura Villani
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