– racconto e illustrazioni di Mauro Cristofani –
Cielo tempestoso, isolotto sinistro. Luce livida. Un gruppo di cipressi è più nero del cielo e del mare. Una barca carica d’un feretro scivola verso l’isolotto, a prua si drizza una forma biancastra avviluppata in un sudario: un vivente, un morto o un fantasma, o l’anima che accompagna le proprie spoglie carnali verso l’ultima dimora. La caverna edificata sulla roccia è lì per ingoiare i destini, ma anche un palazzo di perfide delizie. La barca reca un feretro inghirlandato, e forse gli strumenti per un perverso rito d’amore. La bianca figura alta sulla bara è compresa in un atteggiamento di pietà, oppure nel raccoglimento che presuppone l’iniziazione a un rituale erotico…Ambiguità a cui Arnold Böcklin dà corpo quando dipinge L’isola dei Morti, sul finire dell’ottavo decennio del secolo XIX; un secolo in cui, Eros, al pari di Thanatos domina per intero, per poi compenetrarsi ed esaltarsi a vicenda.
Altri artisti raffigureranno la morte con grazia e crudeltà, ma anche con allucinato furore. La bellezza dolorosa, viatico alla voluttà mortuaria, ha un volto duplice: quello di Salomè, in cui prevale la componente sadica, e quello di Ofelia, in cui prevale la componente masochistica.
Salomè è regina e maga, è l’orca e la sfinge, il mostro partorito dall’inferno quando pretende con avidità fatale
la tête d’Iokanaan dans un bassin d’argent!
Ma proprio per la sua qualità demoniaca diviene strumento di piacere per quanti l’assecondano o ne sono vittime. Offre in dono il frutto proibito, onde l’amante non può sottrarsi alla scelta fra piacere e perdizione o rifiuto e salvezza.
Ofelia è raffigurata nella morte con compiacimento voyeuristico, la necrofilia aleggia appena in lontananza; la fanciulla è solo un pretesto per raffigurare la bellezza dolorosa su cui è impresso il marchio della morte, destinato ad esaltarsi nelle stagioni terminali del secolo. Creatura su cui incombe l’imminenza della fine, Ofelia si configurerà come vergine indifesa e ogni amante potrà dire di lei, come della esangue Ippolita di D’Annunzio
è pallida… mi piacerebbe sempre afflitta e sempre malata
quando ella si colorisce mi pare un’altra
quando ella ride non posso difendermi da un vago sentimento ostile
quasi d’ira contro il suo riso
Per donargli piacere e risvegliarne il desiderio, la donna deve soffrire, portare i tratti devastanti della malattia e del disfacimento. Sensualità equivoca in cui l’immagine della bellezza femminile è accomunata a quella della morte, una specchio dell’altra.
Anche l’uomo quasi si compiace della brevità della vita e spesso viene raffigurato col teschio a fianco, funereo angelo custode. Ma assai più di tale simbologia, troppo scoperta, sarà l’ebbrezza del dolore che ispirerà maggiormente gli artisti di fine Ottocento, e la figura più consona a rappresentarlo sarà quella di San Sebastiano.
Angelicato protagonista del martirio voluttuoso, via via egli viene dipinto come soggetto remissivo ai carnefici, o in uno stato d’estasi tale che le labbra accennano a un sorriso; oppure trafitto con sadico accanimento da persecutori, o esaltato nella singolare bellezza lasciata intatta dai carnefici…Ma, sempre, il supplizio è inteso quale fonte suprema di estasi e di godimento. Nei Canti di Maldoror, così lo evoca De Lautréamont
là in un boschetto circondato di fiori dorme
profondamente assopito sull’erba bagnata dal suo pianto
stanco della vita e vergognoso di muoversi
fra esseri che non gli somigliano
se ne va solo
come il medicante nella valle
Sottoposto a persecuzione e tortura, gli uomini che lo hanno frustato dovrebbero rappresentare l’umanità mediocre, che giudica nemico tutto ciò che si pone al di fuori delle regole comunemente accettate; quando è invece vero l’opposto, che cioè nel “segreto” di questa misteriosa deviazione dal corso della natura risiede il seme di un diletto più alto, sconosciuto al volgo.
L’artista romantico, nel suo viaggio fra le tenebre, incontra inevitabilmente il mostro evocato dalla fantasia macabra che da ogni altro più si distingue: il vampiro, ovvero la morte che rifiuta se stessa, al contempo procurandosi un piacere erotico nel succhiare il sangue delle proprie vittime. Manifestando un’ostinata volontà di sopravvivenza, il vampiro dal buio del nulla reca i germi del contagio e dell’annientamento. Costretto alla bara, si umanizza in quanto umano è il rifiuto della morte, umana l’eterna lotta che contro la morte s’ingaggia. Incarna il demonio, perché infrange le leggi della natura stabilite da Dio. La sua solitudine corrisponde al pensiero di Kierkegaard
il demoniaco non si richiude
insieme a qualche altra cosa
ma si chiude in se stesso
Nelle arti figurative il vampiro raffigurerà anche la bramosia sessuale, che non può esaurirsi se non con l’annientamento del partner o con la sua fatale contaminazione. Quindi diventerà l’ Angelo del Male, l’amante impossibile che conosce il segreto d’ogni piacere; il demone che si fa mediatore fra la creatura umana e la morte, indicando nella morte la fonte di insospettati godimenti.
Si ringrazia Micaela Lazzari per l’editing
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