L’impiegato dell’anagrafe che le aveva appioppato quel nome doveva essere dotato di un bizzarro senso dell’umorismo, perché quando Araucana diventò maggiorenne e lo cercò negli uffici dell’anagrafe, con le dita infilate in un tirapugni, tra i denti rotti e il setto nasale che pisciava sangue l’omino riuscì a giustificarsi sostenendo che era il nome di un’antica tribù dell’America preincaica, “Quelli che possiedono la rabbia”. E nessun nome gli era sembrato più adatto per una neonata abbandonata in una discarica sotto a un cavalcavia, che era riuscita a farsi trovare a suon di urla e che era pure sopravvissuta, anche sotto la neve. Per la prima volta da quando aveva lasciato l’orfanotrofio, Araucana provò pietà e risparmiò la vita al vecchio imbrattacarte, limitandosi a rubargli il portafoglio. Povero scemo, lui non sapeva niente. Non erano stati i suoi polmoni a salvarla, ma la metalupa che l’aveva riscaldata e allattata insieme ai suoi cuccioli, e lei aveva urlato alla disperata perché la portavano via dall’unica madre che la vita le aveva fatto conoscere, per rinchiuderla tra le sbarre di una prigione.
E in prigione, o meglio, nell’istituto, come lo chiamavano le sadiche suore che lo gestivano, non era impazzita soltanto perché ogni notte la sua mamma e i suoi fratelli metalupi si ritrovavano sotto le mura del convento, le raccontavano le storie del suo popolo e le insegnavano a diventare saggia, grande e forte e a prepararsi al momento in cui si sarebbe riunita al branco. In effetti non si dormiva un cazzo in quell’istituto, con i lupi che ululavano per tutta la notte, ma le rare suore temerarie che avevano cercato di allontanarli erano state sgozzate, e di comune accordo la madre superiora e le consorelle avevano deciso di accettare gli ululati come una prova a cui il loro dio le sottoponeva. Da allora diventò perfino vietato dire che si sentivano i lupi. Chi osava tanto, veniva punito con una notte in ginocchio sui ceci a recitare il rosario.
Di Araucana i medici del carcere dicevano che soffriva di un disturbo di personalità schizoide, ma la verità era che lei non ne soffriva affatto, anzi, ne godeva ogni minuto. Come potevano pensare, quelle pinguine isteriche e impacchettate di nero, che fosse un disturbo di personalità provare freddezza nei loro confronti e in quelli delle pallide larve cresciute a loro immagine e somiglianza? Le rimproveravano l’incapacità di esprimere sentimenti verso gli altri, la spiccata preferenza per la solitudine, l’assenza di spirito partecipativo e la totale mancanza di amicizie, la marcata indifferenza a elogi o critiche, e soprattutto alle norme comportamentali e alle convenzioni sociali che vigevano nel carcere. Beh, che cosa avrebbe dovuto fare, secondo loro? Le fusa? Riportare la palla quando gliela tiravano? Grazie a una forza di volontà titanica, non aveva ancora sgozzato nessuno: di più non si poteva chiedere.
Quando raggiunse la maggiore età, una suora le mise in mano una valigetta con un cambio d’abiti, due soldi e l’indirizzo di una casa in cui cercavano una domestica. Araucana usò il biglietto da visita della famiglia per fare il filtro a una canna da dividere coi ragazzi di strada che vivevano al riparo delle mura del convento, camminò fino al municipio per togliersi la curiosità sull’origine del suo strano nome, e aspettò la notte per riunirsi con la sua famiglia. A mezzanotte c’erano tutti, la sua mamma metalupa, ormai vecchia ma ancora temibile, e i suoi sei fratelli, tra cui Spettro, il metalupo albino con cui aveva legato di più. Con loro, si mise in marcia verso la montagna. Nei suoi anni di prigione non aveva visto quasi nulla del mondo. I programmi TV che risuonavano incessantemente tra le mura del convento mostravano immagini di benessere, ricchezza, lusso, famiglie felici, macchine da corsa, abiti eleganti, cibi raffinati, e le sue compagne di carcere credevano che fosse quello il mondo che le attendeva fuori, ma Araucana aveva una madre e dei fratelli che ogni notte le raccontavano le storie della vita.
Lei sapeva che fuori dalle mure del convento – prigione, per quelle come lei c’erano solo due strade, la prostituzione o la servitù. La depravazione delle classi dirigenti – o digerenti, come era più corretto chiamarle – e i diktat della finanza avevano gettato quelli come lei nel buco di scarico, ma Araucana era ben decisa a risalire con un coltello fra i denti, anche a costo di arrampicarsi in mezzo alla merda. Seguì il suo branco in silenzio e per la prima volta fu fuori dalla città. Ci volle quasi un mese, perché le città come le aveva studiate in geografia non esistevano più; c’era solo un unico, gigantesco agglomerato di baracche appoggiate come castelli di carte alle mura che proteggevano le enclave dei signori, i centri commerciali e le ricostruzioni degli antichi borghi storici ad uso e consumo dei turisti giapponesi, che facevano tanta strada per visitare le Disneyland costruite apposta per loro. Il branco camminava di notte e di giorno si nascondeva nelle fogne, dove si nutriva catturando topi. In confronto alla cucina delle suore, un bel topone era un progresso notevole per Araucana, che col tempo convertì anche i metalupi al gusto della carne cotta. Lei sapeva accendere il fuoco, ed era bellissimo stringersi tutti insieme e passare la notte al caldo, con la pancia piena di ratto allo spiedo, anche se la mamma la rimproverava perché secondo lei ci si abituava troppo alle comodità.
Camminando di notte e riposando di giorno, arrivarono a una zona di confine in cui l’agglomerato cedeva il passo a qualche boschetto rachitico e c’erano appezzamenti di terreno dove gli uomini non avevano mai costruito case, neppure per bruciarle. Era più difficile trovare riparo, ma c’era del buon cibo, non solo ratti ma anche lepri e scoiattoli. Araucana non era mai diventata brava nella caccia come i suoi fratelli, però sapeva accendere il fuoco e scuoiare le prede. Raggiunta la foresta, i metalupi si sentirono finalmente più tranquilli; nelle terre di nessuno vagavano troppi umani sbandati e randagi, da cui era necessario difendere la sorella più debole, priva di zanne e di artigli. Lei non sapeva dove fossero diretti, ma si fidava del suo branco, e quando si inoltrarono nella Foresta della Lama, che gli umani consideravano stregata, provò per la prima volta nella sua vita la sensazione di essere a casa.
Araucana sperava di non vedere mai più esemplari di razza umana, ma il suo desiderio non si avverò. Ne incontrarono, eccome. Molti erano profughi come lei, scarti del neoliberismo, vecchi che andavano a morire nella foresta per non essere di peso ai figli, o perché non avevano più nessuno a cui essere di peso, famiglie senza reddito che preferivano tentare coltivazioni di fortuna cercando rifugio nei ruderi delle vecchie case piuttosto che vendere i figli agli schiavisti, bande di ragazzi che cercavano di produrre qualche droga da vendere in città. Ma c’erano anche i cacciatori di carne umana, i sadici, i contrabbandieri, e le guide turistiche. Tra i ricchissimi delle città fortificate andava di moda un tipo di caccia un po’ particolare, e molto eccitante dal loro punto di vista. Con pochi euro, i contractors acquistavano ragazzini e ragazzine dalle prigioni e dagli orfanotrofi, oppure li rubavano dalle strade, e li liberavano in mezzo alla foresta, nudi e scalzi. Lasciavano loro un giorno di vantaggio, e poi sguinzagliavano branchi di molossi assetati di sangue. Gli esemplari troppo danneggiati dai morsi dei cani erano i più fortunati, perché venivano lasciati loro come pasto, invece quelli ancora in buone condizioni finivano dentro i castelli dei signori, per soddisfare i loro piaceri più inconfessabili, e quando ne rimaneva soltanto una poltiglia sanguinolenta, finivano come pappa per i cuccioli.
Il branco di Araucana era stato addestrato molto bene dall’anziana madre; i metalupi fiutavano le guide e se ne tenevano alla larga, come del resto facevano gli stessi contractors, assai poco entusiasti di imbattersi in un branco di belve grosse come orsi. Finché non si sparse la voce che con uno di quei branchi viaggiava una ragazza. Il mito della ragazza metalupo corse dall’uno all’altro dei circoli di caccia e i ricchi più influenti misero taglie sulla sua testa. In brevissimo tempo la foresta fu disseminata di trappole e il branco si dovette spostare ancora più in alto, verso la Barriera, là dove la foresta terminava e cominciavano le regioni ghiacciate. Il cibo era scarso e il riparo ancora di più, e Araucana decise di lasciare i lupi; non voleva mettere a repentaglio la loro sopravvivenza per proteggere sé stessa. Così parlò con l’anziana madre e le chiese di lasciarla andare al suo destino: avrebbe camminato verso nord fino a morire assiderata. Una dolce morte, in confronto alla prigionia e alla tortura.
Il branco si oppose, ma Araucana non li volle ascoltare. Cominciò la sua marcia verso il nord alla ricerca di un albero sotto il quale raggomitolarsi e aspettare la fine, sepolta dalla neve, ma i fratelli metalupi non si rassegnarono e continuarono a seguirla da lontano. Il primo a trovarla, semiassiderata sotto a un mucchio di neve, non fu però un procacciatore di schiavi, ma un membro dei Figli Bastardi, una comunità di uomini e donne che non si erano rassegnati all’alternativa tra morte e servitù e vivevano sulle montagne per preparare la Resistenza. Adottarono Araucana come una di loro, e quando il branco dei fratelli lupi capì l’onestà delle loro intenzioni, si riavvicinò alla sorella perduta. Lei pianse quando li poté abbracciare di nuovo, e da quel giorno il loro commando, più forte con i sette metalupi, divenne la leggenda della foresta.
La Tribù dei Figli Bastardi sapeva di non avere né le forze numeriche né le armi per abbattere un sistema mondiale fondato sul dominio di una piccolissima percentuale di ricchi sfondati su miliardi di schiavi, e si accontentava di togliersi qualche piccola soddisfazione, come dicevano loro. In quel periodo avevano deciso di ripulire un pezzo di foresta dai ricchi che la usavano come riserva di caccia, e di espropriare il castello del magnate che la possedeva, per usarlo come rifugio per i bambini, gli anziani, i feriti e gli ammalati. Le armi non mancavano, perché i soldati dei vari eserciti erano pagati così male che le vendevano in cambio dei pochi soldi che i Figli Bastardi rubavano ai furgoni portavalori senza colpo ferire, visto che le guardie giurate prendevano una paga miserabile e si accontentavano di spartire il bottino. Araucana imparò in fretta a sparare e in pochissimo tempo diventò la migliore tiratrice della Tribù. Si esercitava sui contractors in esplorazione, li fulminava con pochi colpi precisi, li spogliava delle loro costose attrezzature, e i suoi fratelli metalupi erano così veloci a sbranare i cadaveri, di cui lei teneva sempre il teschio come trofeo, che la Foresta della Lama acquistò una fama ancora più sinistra. Il prezzo dei safari aumentava di settimana in settimana, e il suo proprietario si arricchiva ancora più schifosamente.
Araucana, i suoi fratelli metalupi e gli altri fratelli bastardi, quelli umani, volevano impadronirsi del castello di questo magnate della finanza, che offriva tutte le comodità necessarie a crescere i cuccioli, a curare i malati, a passare i mesi più duri dell’inverno, ma la perfidia di quell’individuo era pari solo alla sua immensa ricchezza, e non si poteva pensare di spaventarlo. Bisognava ucciderlo e basta, lui, le sue mogli legittime e i suoi cinque figli. Il Natale era l’occasione per trovare tutta la famiglia riunita, e la preparazione dell’agguato iniziò già a primavera. Alcuni Figli Bastardi si arruolarono nel suo esercito privato, dove c’era sempre posto perché la vita valeva meno di una siringa usata, ma quando si ha un grande progetto in mente e si è in grado di vedere anche senza gli occhi, udire senza le orecchie, ascoltare i pensieri e leggere le parole non scritte, si parte avvantaggiati. I Figli Bastardi divennero in breve una leggenda tra le truppe mercenarie del magnate, perché tornavano sempre incolumi dalle spedizioni nella Foresta della Lama, che tutti ormai consideravano stregata, e convinsero i loro capi a preparare la festa di Natale proprio nel castello che il riccone possedeva lassù.
Costui era l’uomo più ricco della nazione. Era nato in una famiglia benestante, ma non dotata di immensi mezzi propri, però la sua totale mancanza di scrupoli e un’indubbia capacità di anticipare i tempi lo portò a superare in ricchezza i rampolli di più nobile nascita. Cominciò a entrare in affari nel momento in cui nel paese la speculazione edilizia era vincente, e costruì un’intera città riciclando i soldi della criminalità organizzata. Lesse qualche libro, e comprese prima degli altri speculatori quanto era importante la manipolazione dell’opinione pubblica, così si buttò nell’affare della televisione commerciale quando ancora il paese era congelato da una TV di Stato noiosa e bigotta. Conosceva bene i suoi concittadini, di cui rappresentava il concentrato di tutti i difetti: egoismo, familismo amorale, doppiezza, grettezza d’animo, desiderio di affidarsi all’Uomo della Provvidenza. Cominciò a trasmettere programmi notturni per maschi, con casalinghe che si spogliavano, e assurde soap opera americane per le donne, e li ebbe tutti in pugno. Comprò politici di ogni schieramento e legalizzò le sue licenze abusive, acquistò giornali e case editrici, e quando si trovò in cattive acque si fece addirittura eleggere capo del governo. E senza brogli… I cittadini del paese erano così stupidi, decerebrati e ignoranti da pensare che questo soggetto fosse sceso in campo per fare del bene a loro.
Vent’anni trascorsero come un soffio. Sul soggetto venivano a galla notizie sempre più inquietanti, truffe, frodi, evasioni fiscali, falso in bilancio, corruzione, concussione, appropriazione indebita, affari con la criminalità organizzata, prostituzione minorile, orge, monopoli e finanziamenti illeciti, traffico di droga e concorso in strage, ma ogni reato finiva archiviato, prescritto o depenalizzato da leggi che si faceva da solo, non senza l’aiuto di una finta opposizione complice, più che connivente. Ma gli elettori del paese lo votavano con sempre maggiore entusiasmo. Bastava promettere la cancellazione di una piccola tassa qualunque e lo premiavano con valanghe di voti, senza pensare che, in seguito, il modesto condono elargito sarebbe stato pagato con altri spietati provvedimenti economici, che avrebbero reso ancora più povera la grande massa della popolazione e più ricca solo la piccolissima percentuale che deteneva l’intera ricchezza del paese. Gli abitanti di quella nazione non avevano fama di essere dotati né di cultura né di senso critico, ma la religione catodica a cui si erano votati nell’ultimo trentennio aveva eradicato dai loro labili cervelli anche il più piccolo barlume di pensiero.
Araucana e i suoi amici – umani e metalupi – pensavano che un soggetto così non meritasse più di vivere, se non altro per una pura motivazione estetica. Il loro paese, nel passato, aveva arricchito il mondo con la sua grande arte, pittura, scultura, musica, poesia, architettura, e non era tollerabile che tutto il potere e la ricchezza fossero finite in mano a un vecchiaccio tenuto insieme a viagra e lifting, con la testa incatramata da un orrido parrucchino, incellofanato in un doppio petto sostenuto da un’armatura, col suo metro e venti sospeso sulle scarpe col rialzo, e quel sogghigno da “sono vent’anni che vi prendo per il culo e voi ancora beccate”. Lei, i lupi e i ragazzi della Resistenza sapevano che il loro paese non aveva un movimento politico alternativo, anzi: la cosiddetta “opposizione” si divideva tra un comico qualunquista, fascistoide e misogino, un aspirante rottamatore del vecchio, glorioso partito della Sinistra che ora si ispirava alle teorie economiche liberiste, e qualche vanitoso che ambiva al proprio momento di gloria, ma in quel momento erano sorretti solo dall’odio. Tutto quello che volevano era sterminare il nano pedofilo, mafioso e piduista, la sua famiglia e la corte di lacchè, e per il resto si ripetevano quello che le radio clandestine sentivano dire dai compagni greci:“Qualcosa capiterà, vedrai”.
E Natale arrivò. I famigli e i cortigiani occuparono il castello dieci giorni prima, ed erano tutti così privi di timori e di sospetti che farli fuori fu una passeggiata. Ben più temibile era la scorta che avrebbe accompagnato il vecchiaccio con le sue famiglie, di primo e di secondo letto. Per il Natale, festa cristiana, le amanti non erano ammesse. Li videro arrivare dal Poggio della Lastra, una fila di SUV blindati, dai vetri oscurati, con le jeep della scorta tutte attorno, armate fino ai denti. Proprio in quella scorta si erano infiltrati i Fratelli Bastardi, uno per automezzo, e sempre nel sedile posteriore. Una macchina alla volta, il Fratello Bastardo prendeva la scusa di dover pisciare, faceva fermare la jeep, e quando risaliva piantava una freccia avvelenata nel collo degli altri quattro, con una cerbottana mascherata da sigaro. Zut zut zut zut… Velocissime e letali, il liquido agiva in pochi secondi, dopo di che il Fratello nascondeva i cadaveri nel portabagagli e si metteva alla guida, seguendo la carovana.
Gli altri Fratelli che erano già al castello abbassarono il ponte levatoio per far entrare il corteo e si affrettarono ad aprire gli sportelli dei SUV. Le guardie furono ammazzate subito, il più in fretta possibile, e l’orrido pagliaccio con le due mogli e i cinque figli si ritrovò chiuso nel suo maniero, circondato da uomini e donne a viso scoperto, armati fino ai denti, e da sette metalupi. Fu Araucana ad avere l’onore del primo approccio: gli sputò in faccia la saliva nera della pianta aromatica che le piaceva masticare, una specie di edera, velenosa per tutti ma non per lei, che era sopravvissuta a un orfanotrofio di suore. Il vecchiaccio si contorse nella neve, accecato, mentre la sua famiglia urlava e minacciava. Per tutta risposta i Fratelli Bastardi li fecero spogliare nudi, li rinchiusero ciascuno in una bara che al posto del coperchio aveva una solida inferriata, serrarono i chiavistelli e li lasciarono lì dentro a urlare per tutta la notte. E celebrarono la prima, vera festa di gala dopo tanti anni di vita spartana nei boschi. Per Araucana fu la prima di tutta una vita, considerando che le notti al freddo nelle grotte di montagna erano state uno spasso in confronto ai diciotto anni trascorsi nell’orfanotrofio delle suore.
All’alba, i Fratelli Bastardi e i metalupi aprirono le gabbie e spinsero a calci il vecchiaccio malefico, le due mogli e i cinque figli fuori dal castello, nudi e scalzi nella neve. Dissero loro che avrebbero fatto un gioco: chi arrivava primo al vecchio monastero in cima al Picco della Strega aveva vinto. La famiglia del magnate pianse, strepitò, offrì denaro e cariche, ma i morsi dei metalupi li convinsero a marciare in fretta verso l’unico sentiero, quello che tornava alla cosiddetta “civiltà”. Finalmente un po’ di democrazia, si dissero i ragazzi: per una volta, erano i ricchi in minoranza. Avevano deciso di lasciarli vagare per la foresta fino al tramonto, tenendoli d’occhio da lontano, poi li avrebbero abbattuti per far mangiare i lupi. Due mogli, cinque figli, sette lupi, era equo. E il vecchio? No, lui no, era indigeribile. Per lui Araucana aveva in mente qualcosa di più creativo.
Quando la notte arrivò, i metalupi attaccarono tutti insieme, e ognuno azzannò l’umano che la Madre gli aveva assegnato. Li avevano tirati a sorte, perché tutti volevano mangiare le figlie giovani e ancora saporite, mentre nessuno voleva le mogli e la figlia più vecchia, che avevano più silicone che carne. Alla fine si misero d’accordo per un semplice sgozzamento senza bevuta di sangue; chissà quella gente con cosa si teneva su, magari con la formalina… A fare a pezzi i cadaveri col machete e a gettarli nel crepaccio ci avrebbero pensato i Fratelli Bastardi. Araucana invece, con i ragazzi che si erano infiltrati nella scorta, avrebbe partecipato alla battuta di caccia al vecchiaccio. Impiegò quasi venti minuti a montare il fucile alla luce della luna e altri dieci per allineare il mirino a infrarossi. Era un modello M40A3, basato sul vecchio Remington 700. Era andata a caccia tante volte coi Fratelli Bastardi, ma non aveva mai sparato con un’arma così sofisticata; non a caso, era quella del Caposcorta del riccastro. Infilò le sei cartucce nel caricatore e partì sotto la luna per provare il funzionamento. Il suo fratello metalupo, quello albino, che non la lasciava mai un secondo, l’accompagnava tra la neve, approfittando della passeggiata per disperdere il puzzo dell’umana che aveva appena sgozzato. “Ti piace, Spettro?” gli chiese. Il metalupo albino non rispose, era troppo impegnato a fiutare chissà cosa. L’aria era frizzante e camminarono per un chilometro nella neve, attraverso la foresta, finché Araucana non appoggiò l’arma su una spalla, osservò il paesaggio sotto la luce della luna, regolò il fucile in posizione di tiro e cercò un bersaglio per le prove. Fece fuoco tre volte su un paletto; i primi due proiettili finirono chissà dove, ma il terzo lo decapitò. Nel cuore non aveva niente, solo un colore rosso scuro. La squadra erano di nuovo loro due: un’orfana abbandonata sotto a un cavalcavia e una belva dal pelo candido e gli occhi rossi, grande come un pony. Che cosa si può chiedere di più dalla vita? In fondo, basta poco per essere felici.
(*) liberamente ispirato alla saga “The Game of Thrones”
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