Al nonno è sempre piaciuto camminare in montagna, e fin da quando ero molto piccola mi ha portato con lui a esplorare i sentieri dei nostri Appennini. La domenica si partiva con il pranzo nella bisaccia, e via nella Foresta della Lama. È stato là che abbiamo trovato i cuccioli. Sentivamo piangere in fondo a un crepaccio e io, che ero minuscola e svelta come un ragno, mi sono calata giù appesa ai cespugli e ho trovato due cagnolini appena nati, che singhiozzavano vicino alla mamma. Morta. Cercavano disperatamente di succhiare il latte dal suo corpo ormai freddo, e chiedevano aiuto. Consapevole che niente e nessuno avrebbe potuto impedirmi di prendermi cura di loro, li infilai dentro la giacca a vento e risalii con i due piccoli stretti al bavero del maglione. Quando il nonno li ha visti è impallidito, ma mi ha mandato avanti verso il rifugio a cercare del latte, intanto che lui dava sepoltura alla povera mamma. Però mi ha ingiunto di non far vedere i cuccioli. Il perché non lo sapevo, ma gli ordini del nonno non si discutevano. Il motivo l’ho capito a casa, quando abbiamo portato i piccoli dal veterinario, che li ha guardati con freddezza e ha detto che non li potevo tenere, dovevamo sopprimerli. “Perché? Che malattia hanno?” gli ho chiesto. “Sono lupi. E i lupi non si addomesticano”. E lì è stato con me che non si è potuto discutere. Per salvarli ero scesa giù per un crepaccio, poi li avevo allattati col biberon ogni due ore, dormendo con loro nella stalla, e adesso mi si diceva che dovevano morire perché avevano l’etichetta sbagliata? Ah no, questo poi no.
Il nostro cane era morto da poco. Era vecchissimo e io ero cresciuta con lui, che mi aveva trattato come quella che ero, il cucciolo di casa, e mi aveva scortato nelle mie esplorazioni anche quando era quasi del tutto cieco e zoppo. Morì di notte, mentre vegliava il mio sonno, come sempre da quando ero nata. Quando mi svegliai e lo trovai morto, le mia urla tirarono giù il quartiere. Per questo il nonno mi portava così spesso a camminare con lui in montagna, per distrarmi e farmi vedere il bosco. Animali nella stalla non ce n’erano più, e il nonno registrò in Comune i due cuccioli come cani da caccia. Li chiamammo Dante e Beatrice, e con tutti diceva che erano pastori tedeschi. A me invece spiegò bene la differenza tra lupo e cane, specialmente nel comportamento, e all’inizio non si sentiva tranquillo quando mi vedeva giocare con due macchine da guerra, sia pure piccine, ma dotate di denti e artigli ben più affilati di quelli del vecchio e fioco cane di campagna con cui ero cresciuta. Io invece avevo paura per le impronte. Il nonno mi aveva spiegato che erano diverse da quelle dei cani, e io vivevo nel terrore che qualcuno nel quartiere seguisse le nostre passeggiate e si mettesse a gridare “Al lupo al lupo”. Come se i nostri vicini, operai e casalinghe, fossero esperti studiosi di animali… Comunque non portammo più i lupacchiotti dal veterinario e ricominciammo a crescere insieme, io cucciola orfana dei genitori, e loro di una sfortunata mamma uccisa da un bracconiere.
Insomma, ci completavamo veramente bene a vicenda. Il nonno era l’indiscusso capobranco e quando mi insegnava a leggere e a scrivere, stavano attenti anche loro. Niente mi ha mai tolto dalla testa che leggessero Topolino con me, dietro le mie spalle. Quando cominciai la scuola i piccoli erano già grandicelli, e seguivano il nonno che mi accompagnava e mi veniva a prendere. L’anno successivo furono loro a scortarmi lungo la strada: il nonno mi affidò ai due fratelli che si disponevano in formazione, uno a destra e uno a sinistra, da casa fino a scuola e ritorno, ringhiando a tutti quelli che si avvicinavano. Non ero una bambina socievole e non mi interessava la compagnia degli altri piccoli umani, e la presenza di quei due grossi cani grigi non incoraggiava i miei coetanei a invitarmi a giocare con loro. Non me ne facevo un problema, avevo tanto da fare ad aiutare il nonno in campagna, e nel tempo libero a noi piaceva leggere. Anche a loro, ne ero sicura.
Per tutti i cinque anni delle elementari, Dante e Beatrice ogni mattina mi accompagnavano a scuola, poi mi aspettavano nascosti non ho mai capito dove, e tornavano a casa con me. Quando arrivavano le vacanze avevamo tanti giochi da fare, tanti libri da leggere, e tanto lavoro per aiutare il nonno, e i mesi volavano. Intanto noi cuccioli diventavamo grandi. Alle elementari ormai tutti si erano abituati a vedermi scortata da due cani enormi, che non mi lasciavano mai, e non ci facevano più caso, ma alle medie, almeno all’inizio, la nostra formazione fece scalpore. Io crescevo, e cominciavo ad attirare sguardi che prima non coglievo. Ero una ragazzina magra ma sana, sportiva e scattante, sempre abbronzata per la vita all’aria aperta, e i capelli lunghi e biondi risvegliavano anche interessi un po’ imbarazzanti. Dante e Beatrice li captavano ancora prima di me, e tutti distoglievano gli occhi alla vista delle loro candide zanne scoperte e al suono del loro sommesso, basso ringhio minaccioso.
Per andare a scuola c’erano due strade, una lunga, che io non avevo mai voglia di percorrere, e una corta, che tagliava per i cortili dei condomini, ma aveva il difetto di passare sotto la casa di un maniaco che si divertiva a molestare le bambine. Ci rimasi veramente male quando vidi uscire dai suoi pantaloni unti quella cosa rossa e viscida, con un unico occhio in cima, che lui manipolava nella mano sozza mentre faceva versi schifosi con la bocca, e mi affrettai a tornare indietro per la strada lunga. Non smisi di pensarci tutto il giorno. Non potevo dirlo al nonno, che mi aveva sempre proibito il passaggio per i condomini – e adesso capivo il perché – ma non intendevo farla passare liscia a quel maiale, e nemmeno sciropparmi tutti i giorni un chilometro in più di strada a piedi. Così parlai con i miei amici lupi, che capirono subito cosa dovevamo fare.
Noi avevamo gesti e segni concordati, e uno in particolare ci piaceva tanto: voleva dire “Puoi mangiarlo”. Lo usavamo quando andavamo a caccia di topi nelle fognature; io li stanavo e glieli indicavo con un fischio che solo noi conoscevamo, e loro li spezzavano a metà con le fauci potenti. Non si erano mai visti così pochi ratti nel quartiere, ma i vicini non sapevano chi avrebbero dovuto ringraziare, ed era bene che continuassero a non saperlo. La mattina dopo ripassammo per i condomini e il maniaco era lì, a sfregare su e giù quella viscida salsiccia rossa e a fare smorfie con la lingua. Io mi fermai davanti a lui, lo guardai negli occhi e feci il fischio. Beatrice fu la più svelta, staccò la salsiccia con un morso, ne mangiò la metà e lasciò il resto al fratello. Mentre il maniaco urlava proprio come un maiale sgozzato, noi ci dileguammo velocissimi all’ombra dei condomini e in un attimo eravamo a scuola, io dietro al banco e loro due al sicuro, nascosti nelle cantine.
Al ritorno facemmo la strada lunga, anche perché i condomini erano pieni di poliziotti. Il maiale era morto dissanguato, ma non c’erano testimoni e tutti pensarono alla vendetta di un padre stanco di vedere la figlia importunata da quel sozzone. Il nonno capì ma non disse niente, se non uno “Stai attenta” con la voce da “Non te lo ripeterò una seconda volta”. E per un mese tenne i cani chiusi in casa. Non sono stata lì a chiedergli il perché, e anche Dante e Beatrice non si lamentarono. Avevano capito che la nostra azione era stata un po’ più azzardata che andare a caccia di ratti nelle fogne.
Passò il tempo, e io andai al liceo. La scuola era lontana, in un altro quartiere, dovevo prendere l’autobus e i miei amici non potevano salire, così mi abituai ad andare da sola. Però al pomeriggio ci consolavamo con la corsa. Non ero veloce come loro, ma era bellissimo inforcare la bicicletta, raggiungere la campagna e correre tutti e tre insieme finché a me mancava il fiato e ci rotolavamo nell’erba, giocando come da cuccioli. Fu in quell’occasione che toccò loro difendermi, un’altra volta. Un gruppo di ragazzi del quartiere mi teneva d’occhio, e aveva pensato di farmi un agguato quando passavo nel punto più stretto del sentiero che costeggiava il fiume, sotto al vecchio ponte bombardato, verso il cimitero. Quando arrivai correndo, li trovai lì in cinque, a sbarrarmi la strada. I cani erano dietro di me, ma quei giovani di belle speranze non li avevano considerati. E avevano fatto male: due di loro furono azzannati immediatamente alla gola, mentre io sgozzavo quello che mi teneva per un braccio, con il coltello che nonno mi aveva insegnato a usare, e a portare sempre con me. A quel punto non potevamo farci scappare gli altri due, testimoni troppo scomodi e pericolosi. Quando corre, un lupo fa anche i cinquanta all’ora, e li prendemmo prima che arrivassero alla strada.
E adesso? Avevo quindici anni, e non potevo andare a casa dal nonno a dirgli “Aiuto, ho cinque cadaveri da nascondere”. Con pazienza, segai le loro teste con il coltello e le buttai nel fiume, poi aspettai il buio per tornare a casa, per non essere vista così coperta di sangue. Il delitto fece scalpore, in una piccola città non succede spesso di trovare cinque ragazzi decapitati vicino al cimitero, ma proprio il luogo del ritrovamento fece pensare a un macabro rituale satanico, e noi tre la scampammo ancora. Quella volta non si insospettì nemmeno il nonno, anzi, ebbe cura di farmi uscire sempre scortata dai cani, perché come tutti aveva paura del maniaco.
Da allora è passato molto tempo. Purtroppo i lupi non vivono così a lungo come noi, e dopo quindici anni di vita insieme, mi lasciarono. Anche il nonno se ne andò, poco dopo, e io rimasi completamente sola. Non avevo nessun rapporto con i membri della mia specie e sentivo che la città non era il mio posto. Ero maggiorenne, e ho venduto la casa e la terra del nonno. Con quei soldi ho fatto la Scuola Forestale, poi sono riuscita a trovare lavoro come custode in un parco, su quell’Appennino che ho sempre tanto amato fin da piccola. Vivo da sola, in un casotto di caccia, e faccio amicizia coi lupi. Forse l’odore di Dante e Beatrice mi è rimasto nel sangue, forse ho imparato a parlare come loro, ma mi accolgono volentieri, non hanno paura di me, e quando è inverno e fa freddo, si avvicinano alla mia casa.
Un giorno stavo facendo il mio giro di controllo e ho sentito piangere in fondo a un crepaccio. Mi sono calata giù, accanto al torrente che col suo passaggio ha scavato la roccia, e ho trovato due cuccioli di lupo vicino alla madre morta. Anch’io, come il nonno, ho seppellito la povera creatura, ma ho anche giurato di tagliare le palle al bracconiere che l’ha uccisa, e di mangiarmele allo spiedo. I piccoli sono cresciuti sani e forti, li ho chiamati Orfeo ed Euridice, e vivono in casa con me, alla faccia di chi è convinto che l’addestramento del lupo è impossibile. Sono tutte balle, io sono stata addestrata da piccola e ho imparato a fare il lupo a cinque anni. Loro hanno le zanne e gli artigli, ma io ho un coltello e una balestra. E noi lupi siamo vendicativi, e con la memoria lunga. Lo troveremo, quel bracconiere, e lo faremo a pezzi, ma ho messo in chiaro una cosa coi ragazzi. Le palle sono per me.
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