di Raffaele Laurenzi
Arrivavano in redazione valanghe di lettere dei lettori. Rispondevamo a tutte. Quelle di interesse generale venivano pubblicate. Così voleva Gianni Mazzocchi, editore e direttore di Quattroruote, che all’epoca, in mancanza di forum e di chat, da quelle lettere capiva gli umori, gli orientamenti e i capricci del pubblico.
Capitò in redazione una lettera molto circostanziata, scritta sicuramente da qualcuno che se ne intendeva, in cui si sosteneva l’inefficacia delle trombe elettriche: oltre una certa velocità non si udivano neppure a pochi metri di distanza. Ergo, erano inutili. Mazzocchi girò la lettera a Mastrostefano, allora mio caposervizio, con un biglietto infilato sotto la clip: “Approfondiamo. Mi raccomando riservatezza”. Doveva essere il 1978, anno più anno meno.
Facemmo una riunione con i nostri collaudatori Giulio Pusinanti e Gianni Gatti e in poco tempo buttammo giù uno schema di prova. Pressappoco il seguente: autostrada, due auto, una delle quali equipaggiata anche con trombe elettriche, le più comuni in commercio. Davanti avrebbe viaggiato la “lepre”, con a bordo autista e “cavia”: un dipendente Domus con il compito di captare le strombazzate e le “clacsonate” provenienti dalla vettura che seguiva. Stabilimmo che nell’auto-lepre si sarebbero alternate quattro “cavie”, due uomini e due donne, tutti preventivamente sottoposti a esame audiometrico per certificare che la soglia uditiva fosse nella norma, compresa cioè tra 0 e 25 dB.
Si trattava insomma di un test laborioso, perché lo si doveva ripetere molte volte: alle varie distanze, alle varie velocità e con quattro “cavie”, adoperando sia le trombe elettriche, sia il clacson di serie. Perciò era necessario un percorso facile da ripetere, un’autostrada che ci avesse permesso di uscire e rientrare ai caselli, all’epoca tutti con casellante, senza percorrere lunghi raccordi. Giulio suggerì un tratto dell’autostrada Milano-Torino che ci offriva anche, fuori dei caselli, una comoda area di sosta per lo scambio delle “cavie”.
Io avrei viaggiato assieme al Giulio sull’auto inseguitrice. Ero armato di telemetro, una specie di cannone che avrei puntato sull’auto “lepre” per misurarne la distanza, che doveva sempre corrispondere a quella prestabilita.
Andavamo avanti e indietro passando gli stessi caselli: Gatti davanti con la “cavia” di turno; dietro, Giulio ed io, col telemetro puntato.
Verso la fine di una intensa mattinata di prove, ci avviammo finalmente al casello, destinazione ristorante.
Ma al ristorante non ci arrivammo, non subito almeno. Al casello fummo circondati dai carabinieri, mitra in pugno: “Scendere prego. Mani appoggiate alla macchina”. Capitava a volte, in effetti, di non rispettare il Codice della Strada. Ma ora si stava esagerando: neanche fossimo terroristi!
Invece proprio per terroristi ci avevano presi. I nostri passaggi ripetuti avevano insospettito il casellante, che aveva gettato lo sguardo nell’abitacolo e si era impaurito vedendomi imbracciare un attrezzo che somigliava terribilmente a un Beretta M12.
“Che cos’è questo?” mi chiese il capo pattuglia che mi aveva disarmato. “È un telemetro, mica spara” spiegai. “Siamo di Quattroruote, stiamo facendo delle prove…”
Alla parola Quattroruote si abbassarono i mitra e si sciolse la tensione, che era palpabile. Erano gli anni del terrorismo rosso, i brigatisti avevano colpito in via Fani, l’Italia era presidiata dalle forze dell’ordine. E noi giravamo armati, nientemeno, di un “telemitragliatore”! Se avessi brandeggiato quell’attrezzo fuori del finestrino, magari ci avrebbero pure sparato…
I carabinieri ci restituirono i documenti: “Andate pure, e scusate: coi tempi che corrono…”
P.S. Volete sapere come si concluse la prova? Il clacson di serie si dimostrò più efficace delle trombe elettriche.
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