Il giovane e brillante professore di diritto del lavoro uscì dal talk show a testa alta. Gliele aveva proprio cantate, a quei parassiti che sostenevano l’eresia “Quarant’anni di lavoro bastano”… E quello sfacciato di operaio? Aveva avuto il coraggio di dire che lui a quattordici anni lavorava già in fabbrica. E allora, sei un ignorante e te ne vanti pure? E chi se ne frega se quello sfigato pagava le tasse già da bambino, e pure la sanità, anche per chi andava al liceo e faceva le vacanze studio in Finlandia. Lui, il giovane brillante, si era formato fino a trent’anni, era perfino andato a studiare all’estero con l’Erasmus, e adesso era orgoglioso di contribuire a mandare avanti la nazione fino a settant’anni. E facevano pure gli spiritosi, a dire a lui, uno dei brillanti “T-Q”, la generazione dei trenta/quarantenni al top, che settanta meno trenta faceva comunque quaranta. Come se non sapesse far di conto, lui che aveva preso il massimo dei voti con la Fornero. Per fortuna erano arrivati i professori a mettere in riga questa nazione di debosciati.
Il giovane brillante andò a dormire spossato, discutere con gli ignoranti lo aveva distrutto. Al mattino però la sua signora moglie, la perfettina che si alzava dal letto come se fosse appena uscita dal parrucchiere, aveva già la luna storta. La donna delle pulizie era caduta dalle scale e si era rotta il femore, e con la scusa dell’osteoporosi non si sarebbe più alzata da una comoda poltrona. A rotelle. La signora, furiosa, era incollata al telefono, alla ricerca di una nuova domestica a due euro l’ora, e toccò a lui vestire i due pargoli biondi, un maschietto e una femminuccia, e accompagnarli alla fermata dello scuolabus. Che trovò, appunto, fermo. Con i bambini dentro che facevano il diavolo a quattro e l’autista abbioccato sul volante. Diamine, non si era mai accorto che fosse così vecchio… Come si faceva a dare in mano la sicurezza delle nuove generazioni a un vegliardo che sputacchiava la dentiera sul parabrezza? Caricò i pargoli in macchina per portarli a scuola e litigare con la preside. Con quello che pagava di retta all’esclusiva scuola privata in cui i genitori di un certo livello mandavano i figlioli, esigeva un servizio di qualità.
Quella mattina il traffico era più caotico del solito, anzi, era praticamente fermo: i lavori stradali bloccavano due corsie e il senso di marcia era smistato da un centenario che guardava stupefatto il rosso e il verde dei due lati della paletta e ci si sventagliava, mentre le auto strombazzavano e cercavano di passare tutte insieme. Ma adesso cosa faceva il Comune, arruolava direttamente gli umarells che guardano i lavori? E l’operaio al martello pneumatico, visibilmente incapace di controllare lo strumento, che invece di scavare una canalina diritta faceva ghirigori a zig zag su tutto il manto stradale? Per fortuna, quando gli caddero gli enormi occhiali da vista, si fermò, ma continuò a tremare. “Non ci faccia caso,” disse il vecchio con la paletta, “ha il Parkinson”.
Masticando amaro, il giovane brillante lasciò il SUV in divieto di sosta, tanto il vigile urbano, che sembrava un residuato dell’oltretomba, mostrava grosse difficoltà a leggere le targhe e contemporaneamente a scrivere sul blocchetto delle multe senza perdere la penna. Entrò con furia dentro al portone della scuola privata cattolica “Santa Maria Vergine Prega Per Noi Peccatori” e si diresse verso l’ufficio della preside, ma una mano adunca, dalle dita deformate dall’artrite, gli artigliò il braccio. Era la bidella che gli intimava l’alt. Non aveva mai accompagnato i figli a scuola e non immaginava che un istituto così esclusivo mantenesse un personale tanto decrepito. Forse era la nonna dei custodi. In ogni modo, la vecchia strega lo informò che quel giorno la preside era in dialisi. Sì, la faceva tre volte alla settimana, sa, i reni non li ha più, alla sua età…
Sempre più perplesso, il giovane brillante accompagnò i figli in classe, dove una maestra che era già vecchia ai tempi di Giulio Cesare non cercava nemmeno di mantenere la disciplina tra i bambini scatenati. Insegnare qualcosa era fuori discussione, sarebbe stato già un successo impedire loro di gettarsi fuori dalla finestra a vicenda. Cercò di manifestare le sue rimostranze, ma la donna sembrava vivere in un mondo tutto suo, immersa nelle parole incrociate. “Sa” gli disse, “il dottore mi ha detto di fare i cruciverba, per l’Alzheimer… Ma come mai non è venuto mio figlio a prendermi? Lei chi è? Un suo amico?”
L’esimio professore si precipitò fuori dall’istituto minacciando fuoco e fiamme, e inciampò nella bidella che puliva ossessivamente lo stesso quadrato di corridoio con uno straccio sporco. “Senta”, sbottò il giovane brillante, “ma lei cosa ci fa qui?”. La donna lo guardò stupefatta e gli rispose “Che cavolo vuole che ci faccia qui, le marchette? Faccio il mio lavoro, giovanotto!”. “Ma perché non è in pensione?” scappò detto al rampante quarantenne. “Caro ragazzo, mi piacerebbe, ma ho solo settant’anni di età e cinquanta di contributi, è ancora presto”.
Il brillante professore non ci vide più dalla furia e l’impeto con cui uscì dall’istituto lo portò dritto sotto alle ruote di un autobus guidato da un autista che sembrava un reduce della Guerra di Crimea. Riprese coscienza su un lettino del pronto soccorso, accanto a una vecchia miope e sdentata che gli sfrucugliava il braccio cercando una vena per la flebo. “Ma cosa fa, signora? Mi lasci stare, e chiami un’infermiera, per carità!” strillò il giovane brillante. “Sono io l’infermiera, carino, porta pazienza che mi sono appena messa gli occhiali buoni”. Dopo una lenta agonia, la vegliarda lo abbandonò con un ago nel braccio da cui stillava un liquido sospetto. Sentiva un male cane a una gamba, di certo se l’era rotta, ma per quanto strepitasse rimaneva lì da solo, accanto a un tale che pareva un cadavere. E quel liquido della flebo bruciava, cazzo, se bruciava!
Dopo un po’ il dolore diventò insostenibile e le sue grida disperate attirarono l’attenzione di un infermiere un filino più sveglio, che si affrettò a scambiare la bottiglia della flebo col suo vicino. “Scusi sa, ma all’obitorio sono un po’ distratti. La formalina andava nel cadavere. Il collega ha sessantacinque anni, è diabetico e quasi cieco, e abbiamo una sola infermiera per i due reparti. L’ha vista, no? Nel 1968 era una gran bella ragazza…”. Il giovane brillante svenne, per il dolore e lo spavento. Riprese coscienza quando si sentì tirare con forza una gamba, quella sana per fortuna. No, per fortuna ‘sto cavolo, gli stavano ingessando proprio quella!
Il volume delle sue proteste raggiunse finalmente il medico di guardia, una valchiria che avrebbe potuto essere Eva Braun resuscitata dal bunker del Fuhrer. La dottoressa lo squadrò dalla testa ai piedi con un’occhiata che lo gelò, e tirò fuori ago e filo. “Fermo giovanotto, ha una brutta cicatrice sulla guancia, le do qualche punto”. “No per favore signora… scusi, dottoressa… la gamba… la gamba rotta non è quella…” farfugliava il giovane brillante. “Qual è la gamba rotta lo decido io, tesoro, e non farmi incazzare perché ti rompo anche un braccino. E stai fermo se no ti cucio la bocca”.
Così dicendo la valchiria inforcò un paio di occhiali bifocali e per mezz’ora cercò di cacciare il filo nella cruna dell’ago con le dita devastate dall’artrite reumatoide, poi gliela diede su e gli ingiunse di infilare quel cazzo di ago, lui che era giovane e ci vedeva. E con quelle stesse dita gonfie e semiparalizzate gli ricucì un taglio sulla guancia con un punto che sarebbe stato carino su un ricamo tirolese, ma non su una faccia. E poiché la dottoressa era una della vecchia scuola, finita l’opera gli porse pure uno specchietto per rimirarsi.
Il giovane brillante urlò terrorizzato, la cucitura alla Frankenstein deturpava il faccino da putto di cui andava tanto fiero. La dottoressa si mise a ridere sguaiatamente. “Cosa ti aspetti, tesoro? Sono anni che in questo paese di merda si alza l’età della pensione perché “la vita si è allungata”. Ormai l’asticella è oltre al cimitero. E noi vecchi cosa dovremmo fare? Chi può, rimane attaccato al suo posto come una cozza. Chi non può, va a morire sotto a un ponte. Voi non avete capito bene, non è la vita che si è allungata, è la vecchiaia. Però, caro professore, non la sua. No, la sua no. Direi proprio di no.” E sorrise mentre gli ricacciava in vena la flebo di formalina. Per non sciuparla, basta con gli sprechi.
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