Il bancario


di Enzo Buscemi


Lorenzo, era un burlone. Senza dubbio. Ma, piuttosto simpaticamente, pericoloso oltre che imprevedibile.

Difficilmente, lasciava intuire l’inizio di qualcuna delle sue ‘operazioni’. Insolite, quanto rischiose. Non certo per lui, ai danni delle vittime designate e, fiduciosamente, destinate al sacrificio.

Molto attraente, classico ‘tombeur de femmes’, non aveva scrupoli nella scelta delle conquiste né, tantomeno, delle relazioni amichevoli o di parentela, con le ‘fortunate’, come da lui definite.

Capace di inventarsi un passato, ad ogni nuova evenienza, riusciva a convincere anche gli scettici sulla veridicità dei suoi racconti.

Anche se lo frequentavo da anni, mi metteva ugualmente a disagio, con un’altra delle sue doti che giuro, fosse assolutamente involontaria.

Ad onta del suo aspetto e della inappuntabile eleganza, irraggiava qualcosa di inspiegabile. E, agli occhi di gran parte delle ‘fortunate’ che gli capitavano, appariva come personaggio da proteggere. Ad oltranza.

Molto spesso nelle uscite in quattro, la ‘fortunata’ di turno, al momento di pagare il conto del ristorante gli passava del denaro sotto il tavolo. E lui, solitamente generosissimo, lo accettava. Senza mai un accenno di rifiuto.

La maggior parte, delle, ‘donatrici’, faceva a gara per pagare per lui, che non aveva problemi di denaro, né chiedeva alcunché. Inspiegabile, perciò, questa, per me avvilente, peculiarità di volontario suffragio.

Ragionando per assurdo, se ne sarebbe potuta attribuire la responsabilità, a una nota, scolpita in caratteri cubitali, sulla tavola del suo destino.

Le invenzioni erano spesso clamorose.

A Milano, una sera, a Brera, alla Torre di Pisa uno dei nostri ristoranti preferiti, si superò. Eravamo a tavola, con Donatella e Roberta, alunne di una famosa scuola per indossatrici, di via San Paolo, mi pare.

Non avevamo ancora stabilito la rispettiva attribuzione. E, anche le due ragazze apparivano incerte sulla scelta. Dimostravano grande simpatia per noi due ma, senza alcuna spiccata preferenza.

 

in Corea, una granata

Io e Lorenzo, con mezze parole e occhiate, ancora più esplicative ci eravamo già comunicato il problema. E bisognava risolverlo.

Fu lui ad entrare in scena.

Partì da lontano. Dalla crudeltà delle guerre. Le più note. Non certo quelle ‘sporche’, delle quali avrebbe scritto anni dopo, il grande Ettore Mo, e dimenticate dalle società più ‘civili’.

Capii subito a che cosa stesse mirando e, per non fare la figura del pirla, mi preparai ad assecondarlo.

Il mio amico, per la verità, in cultura generale e, in storia, soprattutto contemporanea, non era ferratissimo. Le sue nozioni, solo scolastiche, erano cristallizzate ai tempi del liceo.

Per via di un’offerta di lavoro, abbastanza redditizia, aveva fatto la sua scelta, e non si era affannato a documentarsi su certi contorni non essenziali per la sua vita.

Gli aggiornamenti sull’accaduto, dopo l’abbandono degli studi e poi, degli ultimi decenni, lo avevano appena sfiorato.

Se coinvolto in discussioni dove la specifica conoscenza era indispensabile, era bravissimo a glissare. Deviava il corso dell’argomento e, con arte indiscussa, se il contesto degli interlocutori era di livello non eccelso o simile al suo, usciva sempre vincitore.

Spesso, mi accompagnava a qualche manifestazione inerente alla mia attività, o ad alcune serate della buona società meneghina, alle quali ero spesso invitato.

Se gli argomenti si facevano complicati e, per salvarlo, non riuscivo a volgerli al frivolo, era lui, con grande maestria a svicolare. E andava a conversare con le numerose signore che lo accettavano, sempre con entusiasmo.

Quella sera nel locale di Brera si superò. Cominciò a dire di una guerra e, dalla premessa, entrò trionfalmente in argomento:

“A Ho Chi Minh, rischiai la vita”, esordì con voce perfettamente rotta dall’emozione. L’esplosione di una granata, mi aveva scagliato per aria, e una scheggia mi aveva colpito alla spalla destra”.

Mi vennero i brividi. Si era di colpo, arruolato nei marines inviati alla Guerra di Corea nei primi Anni 50 e senza ovviamente tener conto, neppure per un momento, della corrispondenza delle date.

All’inizio di quel conflitto, e del successivo intervento degli Stati Uniti, lui sarebbe stato poco più che diciottenne.

Viveva in Sicilia, in un paesino nascosto tra le colline.

Chi mai avrebbe potuto spedirlo negli Usa, arruolarlo nell’USMC, e inviarlo in Corea? Ma lui, senza incertezze, continuò nel racconto. Certo che, della ultradecennale rivalità tra le due Coree (sud e nord), le nostre belle amiche sapessero ancor meno di lui. Nessun problema. Marciava sul ‘velluto’.

E virò, decisamente, sul tragico.

 

ricordi confusi

“Dei ragazzi coreani, lo seppi in seguito, mi avevano raccolto, sanguinante, con la clavicola a pezzi. Mi portarono in un ospedale”, continuava recitando. “Ricordo molto poco. Mi svegliai in una camerata con due file di lettini. Intorno, soltanto personale locale. Non riuscivo a farmi capire. Solo più tardi, un medico che parlava inglese, mi raccontò della mia avventura. Mi avevano operato e fissato l’arto con delle protesi metalliche. ‘Potevo stare tranquillo. Non avrei perso l’uso del braccio’ mi rassicurarono”.

Continuava a narrare con maestria, da prim’attore. Gli occhi pieni di lacrime, la voce spezzata da singhiozzi repressi.

Mi trattenevo a stento dal ridere. Che figlio di puttana. Stava superando se stesso.

Donatella lo seguiva con le gote rigate di lacrime. Roberta, visibilmente commossa, appariva meno coinvolta.

“Ti prego calmati. Ti fa male ricordare quei momenti. Sono terribili anche per noi”.

Lo fermai e, con un’occhiata ‘molto esplicativa’, gli ‘segnalai’ chi delle due lo avesse appena scelto. Potevamo rientrare nella realtà.

Si fermò. Mimò, con lentezza, un largo movimento del braccio. Quasi vergognoso, come a tergere le lacrime non represse. Abbassò la testa e capii che, anche lui, stava reprimendo un accesso di risa che avrebbe rovinato la scena.

“Riprenditi. Stai bene, sono passati molti anni. Rimanda indietro quei giorni di sofferenza”. Intervenni. Anch’io con piglio teatrale. Che coppia di guitti!

“Chissà che dolore e che cicatrice” si preoccupò Donatella e gli prese, con affetto, una mano tra le sue.

Lui scosse il capo, come per far scivolare qualcosa dai capelli:

“Ho dimenticato tutto. Il braccio funziona bene, tranne qualche doloretto se lo affatico. La cicatrice è rimasta. Ma ridotta al minimo. Lo debbo all’intervento, postumo, di un chirurgo all’ospedale dei marines. Mi ci avevano trasferito dopo qualche giorno. Mi ha rioperato riducendo, ancora, il danno. Una riparazione raffinata. È stato bravissimo, era un ragazzo di Boston. Ci scriviamo ancora”.

Condì la menzogna con la solita maestria. Molto presto Donatella avrebbe potuto constatarne l’esistenza, pensai.

Ma, lui era tranquillo. Aveva una brutta cicatrice proprio sulla spalla destra. Ricordo di una cisti, eliminata molti anni prima. E, quel medico di provincia, non era stato un mago della ‘cucitura’. Meglio così. Arricchimento, ante litteram, della scena del crimine.

Quella sera andò benissimo. Donatella volle compensare la dolorosa rievocazione saldando il conto per tutti. Contrariamente ai miei principi, accettai. Ma, solo perché il babbo dell’ingenua ‘fortunata’ era un ricchissimo industriale. In Brianza, fabbricava milioni di tappi.

 

la donna d’altri

Lorenzo, prima dello ‘sbarco’ a Milano (dietro mia convocazione), negli anni precedenti, reduce da esperienze di impieghi provvisori, e deludenti tentativi di libera professione nel ramo assicurativo, aveva trovato un personaggio prezioso. Un avvocato, che frequentava la sua stessa cerchia di giocatori di poker.

Si riunivano nell’elegante circolo di una vicina cittadina di mare. Nottate, più che serate e, quasi mai, la fortuna passava dalle parti di Lorenzo.

Quel denaro così faticosamente guadagnato promettendo rendite miracolose a chi accettava le sue polizze, passava velocemente in tasche altrui.

L’avvocato, mosso a compassione dalla cattiva sorte del mio amico o, intrigato dalla sua travolgente simpatia, lo raccomandò al deputato di uno dei cinque partiti della maggioranza governativa del momento.

L’onorevole, piuttosto in gamba era, a sua volta, pupillo di un ministro. Uno dei massimi del vertice. Ma, soprattutto, universalmente, stimato per le indiscusse doti di cultura e onestà.

Lorenzo fu assunto da un grande istituto bancario regionale.

Lo trasferivano, continuamente, da una città all’altra. Per via del comportamento, soprattutto per l’epoca, non proprio ortodosso, per un bancario. Causa del suo carattere insofferente della disciplina e, per le frequenti, quanto ingiustificate assenze per avventure estemporanee da scanzonato playboy.

Ormai, era in zona da ‘osservato speciale’. I direttori delle agenzie, più che trasferirlo, lo avrebbero semplicemente licenziato. Ma l’ombra del ministro lo impediva.

Andava avanti, così, da quasi tre anni. Ultimamente aveva ottenuto il trasferimento alla direzione regionale della banca, nella città in cui aveva già vissuto.

Sembrava fosse un periodo di quasi rassicurante tranquillità. Poi, la prevalenza della sua vocazione, lo mise nuovamente nei pasticci.

A una festa aveva conosciuto la moglie del suo nuovo direttore. Lorenzo non si era posto il problema. In termini manzoniani, la ‘sciagurata’, come Virginia, la monaca di Monza, accettò le lusinghe del subalterno del marito. E cominciarono a incontrarsi.

Urge una premessa, il marito/direttore, ammirava Lorenzo. Gli chiedeva consigli per l’abbigliamento e, ahimè, anche sul come gestire certa strana ‘crisi’ che, ultimamente, affliggeva sua moglie.

“Adduce i motivi più strani per rifiutare i rapporti sessuali”. Gli confidò. Ma non era tutto.

Al corrente della privilegiata protezione del ministro, si raccomandava, continuamente, perché Lorenzo intercedesse per la sua promozione a vicedirettore generale della banca, con trasferimento a Palermo. Un avanzamento decisivo che attendeva da anni. Lo scopo della sua vita.

Lorenzo, onestamente, non millantava alcun potere. Aveva accennato della cosa all’onorevole mediatore del ministro.

La risposta era stata evasiva, e lui non voleva insistere sapendo di non essere in condizioni di grazia per chiedere favori.

 

‘lasci fare a me’

Ma il direttore lo tartassava. Di continuo, lo invitava a casa sua e Lorenzo, specie dopo l’inizio della relazione con sua moglie preferiva farsela alla larga. Le insistenze erano sempre più ossessive e non sapeva come sottrarsi alla persecuzione.

Stremato, alla fine, decise.

Il direttore sarebbe diventato vicedirettore generale della grande banca. Sarebbe stato lui a promuoverlo.

Ovviamente non mise in conto le conseguenze. Cominciò, invece, a immaginare quale sarebbe stata la grande scena. La riflessione non durò più di un paio di giorni.

Stava desistendo. Ma il direttore tornò a essere pressante. E, a un certo punto, cambiò atteggiamento: “Ti ho sempre favorito e soprattutto, coperto nelle tue continue irregolarità. Mi sembra giusto che ricambi. In caso contrario mi costringerai a farti dei richiami ufficiali. Al terzo, rischieresti il licenziamento. E con quelle referenze addio a un nuovo impiego”.

Fu questo particolare a spingere Lorenzo all’azione.

Anche il ‘gran giorno’, andò in ufficio regolarmente.

Il suo posto, da burocrate, a contatto con la clientela per le pratiche più varie, era dietro il lunghissimo bancone, a ferro di cavallo, nel salone d’ingresso.

Vi si allineavano una trentina di funzionari, compresi i cassieri. Alle loro spalle, nell’immensa sala, una selva di scrivanie. In alto, correva una specie di ballatoio circolare, con altre scrivanie per relativi funzionari per la gestione dei fondi esteri.

Lo spazio era enorme. Sul fondo del salone al piano  terra, si aprivano le porte verso la direzione, il caveau, ed altri uffici.

Verso le 10, la prassi, generale, concedeva una scappata al bar lì vicino. Ci si alternava senza obbligo di segnalare l’uscita, né il rientro.

Quella mattina, fatale, Lorenzo uscì da solo. In una tasca aveva infilato un berretto. Tipo quello dei giocatori di baseball. Lo aveva visto sullo Sport Illustrato.

Unica differenza, sulla parte anteriore, sopra la visiera c’era una scritta: ‘Binaca’, la marca di un dentifricio.

Non andò al bar. Girò all’angolo dell’isolato, e si diresse verso un ufficio postale, a poche centinaia di metri.

Si calcò il berretto sin sulle orecchie ed entrò. C’erano persone in fila davanti ad alcuni sportelli. Nessuno a quello dei telegrammi.

Dalla vaschetta, sulla mensola che correva davanti a tutti gli sportelli, scelse l’apposito modulo e si allontanò verso un tavolo a disposizione dei clienti. Con calma e con una scrittura artificiosamente contorta, scrisse l’indirizzo della banca e, “All’attenzione del Direttore……………” il testo, brevissimo, che si rivolgeva all’ansioso in attesa di avanzamento.

Firmato dal direttore generale, gli comunicava l’inserimento tra i “suoi vice”. Con effetto immediato. Sarebbero seguite le formalità del caso. Concludevano le congratulazioni e gli auguri di buon lavoro, autenticati dalla firma del ‘leader massimo’.

L’impiegata, piuttosto distratta dal dialogo con una collega circa l’indirizzo di una parrucchiera molto brava “usa una nuova tintura senza ammoniaca”, contò velocemente le parole e: “settecento lire” comunicò “Per caso ha spiccioli?”

“Certo” assentì Lorenzo “Ho tutto”, e dispose in fila una moneta da 500 lire e due da 100. L’impiegata rialzò appena la testa per consegnargli la ricevuta, e riprese la conversazione con la collega.

Lorenzo uscì dall’ufficio, e si diresse velocemente verso la banca ma, girando, dalla parte opposta del palazzo. Subito dopo l’angolo si tolse il berretto, lo lacerò e lo buttò in una scatola di cartone che sovrastava un mucchio di spazzatura.

Arrivò in ufficio. Nessuno gli fece caso, riprese il suo posto e tornò a fingere di lavorare.

 

cameriere, champagne

Erano da poco passate le 16. Gli sportelli erano chiusi. In banca si tiravano le somme dell’attività quotidiana.

Chi più, chi meno, ognuno si dava da fare per chiudere i conti o le pratiche, per limitare la permanenza in ufficio oltre l’orario.

Lorenzo era stato abbastanza rapido. D’altro canto, aveva lavorato bene. Perché, in effetti, quando ne aveva voglia, era bravo e veloce.

Sentì il trillo, insistente, di un campanello. Lo riconobbe. Era quello dell’ingresso di servizio “Vuoi vedere che è il fattorino del telegrafo?” pensò.

Un commesso andò alla porta. Era proprio un fattorino. Consegnò qualcosa, e andò via. L’impiegato tornò velocemente nel salone e puntò alle porte degli uffici direzionali.

Lorenzo rimase in attesa. Si pentì di avere spedito quel telegramma. Ma, ormai era fatta. Passarono pochi minuti.

Il direttore uscì dal suo ufficio e si diresse di corsa proprio verso di lui, che avrebbe voluto sprofondare.

“È fatta, è fatta” esclamava entusiasta il tapino, sventolando un foglietto giallo. ‘Il telegramma’, rabbrividì Lorenzo e si sforzò di assumere un’espressione allegra.

“Sono stato promosso” si esaltò il direttore e, rivolto alla turba degli impiegati incuriositi: “Non andate via, dovete brindare con me. Signora” chiese a una delle segretarie “Telefoni al bar. Che portino una decina di bottiglie di champagne e bicchieri, per tutti. Amici dobbiamo festeggiare. Sono uno dei vicedirettori generali. Grazie Lorenzo credo che il tuo aiuto sia stato prezioso” disse abbassando il tono della voce e lo abbracciò.

Lorenzo cominciò a sudare freddo. Non aveva previsto, così plateale, l’effetto della sua imprudenza, né riusciva a prevederne l’esito.

Il direttore  cominciò il giro delle postazioni. Gli impiegati gli andavano incontro a congratularsi. Lui, con le lacrime agli occhi, ringraziava e distribuiva strette di mano e pacche sulle spalle.

Arrivarono tre ragazzi dal bar con un carrello. Il commesso gli sgombrò il suo tavolo e ne avvicinò un altro.

Apparecchiarono con una tovaglia candida per disporvi una selva di calici.

Affluirono anche gli impiegati del ballatoio. Si formò un gruppo. Gli inservienti del bar, indirizzati dai commessi, portarono una bottiglia di champagne al direttore, e la liberarono della gabbietta. Il festeggiato armeggiò ad estrarre il tappo che resisteva e, non certo da sommelier, lo fece saltare con un bel botto. Seguirono i battimani e lo stappo delle altre bottiglie.

Il vino scese nei calici. Brindisi collettivo e ancora applausi.

Lorenzo profittò della confusione per operare la classica uscita all’inglese. Scomparve, in ‘retromarcia’, senza dare nell’occhio.

Per strada l’ansia lo assalì. Che cosa sarebbe accaduto l’indomani. Come avrebbe reagito il direttore scoprendo la verità?

Accese l’ennesima sigaretta e, come al solito, la buttò via a metà. “Domani si vedrà”, si rassicurò. E si diresse al suo ristorante preferito.

Se ‘la notte porta consiglio’, l’esemplare ‘in bianco’ che tormentò Lorenzo, non faceva parte di quel lotto.

Aveva vagliato una miriade di soluzioni per il problema che avrebbe trovato in ufficio. “Tanto, non saprà mai che sono io l’autore del telegramma. Non l’ho certo firmato” si confortò.

L’indomani, passò dal solito bar, per un caffè doppio, e poi entrò in ufficio.

L’atmosfera era quella di ogni giorno. Calma con chiacchiericci degli impiegati, spesso a coppie, passeggiando a braccetto, secondo l’antico costume isolano. Normalissima routine. Fino all’ingresso del pubblico.

 

un consiglio da amico

Il suo telefono squillò “Vieni da me”. Era il direttore.

Lorenzo respirò a fondo e andò dal capo.

Espressione funerea. Non lo aveva mai visto così’. “È successo un dramma” esordì.

“Sua moglie sta male?” si informò Lorenzo con aria da circostanza.

“Peggio” rispose il direttore “Ho appena parlato con Galvani (il direttore generale) lui non ha mai spedito quel telegramma. È un falso. Non sono stato promosso” e cominciò a singhiozzare “Capisci che vergogna: lo champagne, le congratulazioni. Non ho il coraggio di farmi vedere dai colleghi. Che cosa mi consigli?”

Lorenzo si dimostrò disperato. Più o meno come lui: “Non ho idea. Meglio dire la verità. Si può accusare qualcuno a cui è stato rifiutato un finanziamento o sequestrati dei beni per un’ipoteca non saldata. Non saprei. Lei non ha idea di qualcuno che le voglia male?”

Il poveretto, affranto, con le spalle curve, sembrava accartocciarsi su se stesso.

“Farò un’indagine alle poste mi sapranno dire da dove è stato spedito il telegramma, chissà. Se ci fosse un impiegato, buon fisionomista, potrebbe descriverci chi lo ha consegnato”.

Lorenzo rabbrividì. “Credo poco, alla collaborazione delle poste. Ci passa tanta di quella gente! Impossibile ricordarsene”.

“Io ci proverò lo stesso. Il direttore d’un ufficio qui vicino è nostro cliente gli ho fatto concedere un mutuo. Ci vado subito”. E si avviò alla porta. “Vieni con me?”

“Non posso ho appuntamento con un cliente, sarà già arrivato”, si schermì Lorenzo. E tornò al suo posto. Davanti al bancone c’era un signore in attesa. Non lo aveva mai visto. Ma il direttore avrebbe pensato che fosse quello dell’appuntamento.

Per il momento, era salvo.

Il direttore rientrò dopo la pausa pranzo. Sembrava avesse attraversato il Sahara a piedi. Espressione stravolta, gli occhi infossati e spenti. Lorenzo si guardò bene dall’avvicinarsi. Fu lui ad arrivare.

“Sono stato all’ufficio postale. Il telegramma è stato spedito proprio da lì, non da Palermo. Col mio amico abbiamo controllato il registro delle consegne. Una montagna, quelli partiti ieri. Sembrava fatto apposta. Non abbiamo finito. Ne sono rimasti ancora molti da controllare, ma sono chiusi in uno schedario. E, porca puttana”, si accalorò “l’impiegata è andata via prima. Forse nemmeno domani, ci sarà. È lei che custodisce tutte le copie passate alla composizione. E, c’è un problema. Nel mucchio, sono compresi moltissimi vaglia telegrafici. Sono in ballo centinaia di migliaia di lire. Perciò tutto sotto la chiave dell’addetta che non c’è. E, non è tutto, per leggere i testi è necessaria l’autorizzazione della direzione centrale. Il direttore dell’ufficio postale non potrà, ancora, chiudere un occhio. Che pasticcio, capisci Lorenzo. Passeranno parecchi giorni e quell’impiegata non sarà più in grado di fare l’identikit dell’autore. Ma io non mollo”. E andò via con un gesto di stizza.

Lorenzo non pregava da anni.

Pensò che forse avrebbe dovuto riprovarci. “La vedo proprio brutta” pensò “se quella donna ricorda qualcosa di me sono fregato. Ma che si ricorda? Avevo un berretto in testa, e lei programmava la tinta dal parrucchiere. Non mi ha nemmeno guardato. Me ne sarei accorto”.

La notizia della falsa promozione fece il giro del personale. E non solo. Se ne parlò in altre banche.

In pausa pranzo, gli impiegati frequentavano più o meno gli stessi locali e, durante il pasto, era normale che si scambiassero notizie sulle rispettive aziende.

Della disavventura del ‘mancato vicedirettore generale’, risero tutti i bancari della città. L’attesa per l’eventuale scoperta del burlone era diventata spasmodica. “Se è stato un suo impiegato lo caccerà a calci e non gli firmerà le referenze”. Ipotizzavano pregustando, sadicamente, la rovina dell’incauto millantatore.

Lorenzo era agitatissimo. Ma si imponeva la calma. Era passata una settimana e, se l’impiegata non si era fatta viva a identificarlo, era segno che non ricordava nulla. Era salvo.

Quella mattina il direttore entrò in sede e si diresse subito da lui “Forse ci siamo” gli disse, entusiasta “quella signora era in mutua. Dovrebbe essere rientrata oggi. Il mio amico la metterà, subito, alla ricerca del documento poiché l’autorizzazione dalla Direzione generale è già arrivata”.

E, trionfante, puntò al suo ufficio.

Lorenzo, che aveva cantato vittoria innanzi tempo, ricominciò con l’ansia.

 

il confronto

La giornata sembrava promettere bene. Sole, temperatura mite, pochi clienti. Poi il direttore uscì, quasi di corsa, dal corridoio degli uffici e imboccò la porta a vetri dell’ingresso.

‘Gli sarà venuta voglia di un caffè’, pensò Lorenzo. Ma l’assenza si prolungava.

Arrivarono in quattro: il direttore, un signore, elegante, sulla sessantina, un vigilante in divisa nera e una donna.

‘Cazzo è lei’ venne da esclamare a Lorenzo. Ma lo fece, in silenzio, nel suo cervello che cominciò a ribollire.

Il gruppetto, direttore della banca in testa, si diresse all’inizio del grande ferro di cavallo degli sportelli.

Si fermava davanti ad ogni impiegato. Il direttore, evidentemente gli diceva qualcosa, e quello si metteva in piedi. Poi riprendeva il suo posto e i quattro passavano al collega successivo.

Lorenzo sudava freddo. Si alzò, con le spalle curve. Lusingato di rendersi invisibile, si avviò alla toilette. Entrò in uno dei box, chiuse la porta e rimase in attesa.

‘Ma che cavolo sto aspettando, che cosa penso di risolvere?’ si chiese. Questa volta ad alta voce ‘È meglio che torni in sala, al mio posto. Quella donna non può ricordarsi di me’.

Si tranquillizzò.

Uscì con calma dalla toilette e, tranquillamente, tornò al suo tavolo. Il gruppetto degli investigatori era ancora a quattro sportelli da lui.

Lo aspettavano due clienti. Ne fu felice e cominciò ad accudire il primo. L’operazione richiesta era piuttosto complessa. Lorenzo lavorava con calma, discorrendo con il cliente. Si conoscevano già.

Il gruppetto era a due sportelli di distanza, e l’operazione agli sgoccioli.

Si concluse. Lorenzo e il cliente si salutarono molto cordialmente, e subentrò quello in attesa. Anche lui vecchia conoscenza. Gestiva una famosa fiaschetteria. Espose il problema ed esibì dei documenti. Lorenzo aveva difficoltà a concentrarsi. Il gruppo inquirente era ormai a pochi passi.

Furono da lui. “Uno dei miei uomini più fidati” lo presentò il direttore. Non fece in tempo a finire la frase.

“Eccolo, è lui, ha ancora la stessa cravatta. Mi è rimasta impressa perché l’ultima striscia in basso ha una macchia sulla punta. Questa”.

L’impiegata delle poste allungò l’indice della sua mano destra fino a sfiorare la cravatta di Lorenzo. Una bella regimental. Ma l’ultima striscia sfoggiava la, nera, macchiolina accusatrice.

“Signora, ne è sicura?” le chiesero, contemporaneamente il suo direttore e quello della banca.

“Ne sono certissima. Ricordo perfettamente. Questo signore è arrivato con uno strano berretto. Lo aveva calcato fin sulle orecchie. ‘Peccato’ ho pensato ‘così bello e si mette in testa quel coso brutto’. Poi, ho visto la macchia sulla cravatta. Era lui. Lo ricordo anche perché mi sembrava strano che quel telegramma fosse indirizzato al direttore della banca, qui all’angolo, ma con la gerenza della direzione centrale che è a Palermo. Era lui, non ho dubbi”.

“Lorenzo, come hai potuto. Ti ho trattato da fratello. Eri una serpe. Va via, subito. Non rimetterai più piede in una banca”. Urlava il direttore. Schiumante di rabbia, paonazzo e tremante gli indicò perentoriamente la porta e, accusò un malore. Si appoggiò al bancone, gli portarono una sedia e un bicchier d’acqua.

Lorenzo non osò nemmeno una parola. Fece il giro del bancone e uscì.

Si diresse velocemente verso casa. Doveva fare qualcosa per calmarsi. Niente di meglio che la compagnia di una ragazza.

 

l’oroscopo

Gli venne in mente Silvia. Lo chiamava spesso, ma lui, ‘impegnatissimo’,  rimandava l’incontro. Silvia era piuttosto agiata, non lavorava e deliziosamente disponibile. Perfetto.

Appena in casa si liberò con violenza della cravatta. La maledetta regimental che lo aveva fregato. La buttò nel cestino dei rifiuti sotto il lavello del bagno.

Era andata malissimo. Doveva distrarsi. Cercò il numero di Silvia sulla ‘fatidica’ agendina, che portava sempre con sé.

“Pronto, spero di non sbagliare, la signorina Silvia?”

“Sì, Lorenzo. Mi prendi in giro?”

“No bella ragazza, ho appena  ritrovato il tuo numero. Lo cercavo da tempo. Volevo essere certo che fosse il tuo. Sono felice. Come stai? Volevo programmare una piccola fuga al mare, ti andrebbe qualche giorno al ‘Baia’, a Taormina?”

“Certo, che meraviglia… Ma sei sicuro dell’invito? Sono mesi che mi eviti”.

“Ti ho appena detto del numero e poi, ho attraversato un brutto periodo. Ho perso una parente a cui tenevo molto. In più, ho problemi col lavoro. Credo che mi licenzieranno”.

“Terribile, poi mi dirai. Un dramma povero caro, mi spiace. Quando vuoi che ci vediamo?”

Con voce ben impostata, seria, d’occasione: “Oggi stesso. Chiamami quando sarai pronta. Non vedo l’ora d’incontrarti”.

E Lorenzo riattaccò. Un paio d’ore dopo passò a prenderla. Gli venne incontro bella e raggiante. Puntarono al ‘Baia’.

Nato sotto il segno del cancro, Lorenzo non leggeva mai gli oroscopi. Nemmeno quelli del settimanale a cui era abbonato.

La settimana corrente aveva predetto:

“Periodo pericoloso per i nati sotto il segno del Cancro. Causa l’incrocio con Saturno, un’intemperanza appena compiuta si risolverà in peggio. La morte di un personaggio importante, la aggraverà”.

Il telegiornale della sera aprì con la morte improvvisa di un ministro plenipotenziario, per infarto.

Al Baia, Lorenzo lo stava guardando. Era in camera e aspettava che Silvia fosse pronta per scendere a cenare.

La scomparsa del suo mentore lo sconvolse. Dalla reception, fece inviare un accorato telegramma di condoglianze alla famiglia e si sforzò di non pensare al suo futuro.

Rientrò in città due giorni dopo.

Non si disperò. Si cambiò per cenare nel suo ristorante preferito. Sapeva che ci avrebbe incontrato almeno un paio di amici per commentare l’accaduto.

“Al resto penserò più tardi. Qualche bicchiere di vino mi chiarirà le idee”, pensò. E chiuse la porta.

La raccomandata arrivò tre giorni dopo. Lui non era tornato in ufficio. Non se l’era sentita di affrontare il ‘promosso’.

Troppo tardi, si era reso conto della gravità dello ‘scherzo’. Aveva agito male contro un ingenuo e, ne aspettava le conseguenze. Le peggiori, senza dubbio.

Il testo, brevissimo, della ‘Direzione del personale’, non lasciava adito a dubbi: “…con effetto immediato il dipendente di terzo livello, Lorenzo……. è licenziato per insanabile infrazione disciplinare con conseguenti, gravi, riflessi sull’immagine dell’azienda”.

Lorenzo me lo comunicò subito. Appena gli passarono l’interurbana.

Gli lanciai, subito, un salvagente. Una sorta di ‘atto di richiamo’. Simile alla risorsa affettiva degli emigranti. Appena trovato lavoro, lo formalizzavano convocando i familiari rimasti al paesello, perché li raggiungessero nella terra promessa.

Per Lorenzo la ‘Statua della libertà’ fu sostituita dalla ‘Madunnina’.

Con la sua 500 targata Messina, arrivò a Milano, in una nebbiosa mattina di dicembre. Aveva viaggiato tutta la notte, ma non volle rimanere a riposare nella pensione che mi ospitava.

Al bar, dove lo portai a far colazione, col caffè, prese un Genepì “per rianimarmi”, mi tranquillizzò. E volle accompagnarmi. Dovevo incontrare il responsabile di un’agenzia pubblicitaria per un eventuale incarico da copywriter.

Da piazzale Lodi prendemmo un tram. Cominciai a contare le fermate. Mi avevano spiegato di scendere alla quarantesima. La vettura era piuttosto affollata.

Eravamo appesi al passamano. Lorenzo, forse per effetto del Genepì, era molto allegro. A un certo punto: “Non resisto” mi disse.

“Devi far pipì?” mi preoccupai.

“No, guarda chi ho davanti. Debbo farlo. Mi provoca”.

Mi bastò un attimo per valutare il rischio di una catastrofe.

Davanti a noi, un passeggero, anche lui in piedi, esibiva sul collo un’alta sfumatura dei capelli, esaltata da un alone di talco. Segno del recentissimo passaggio dal barbiere.

“Non fare l’imbecille. Qui ci fanno a pezzi. Sta’ buono” intimai a Lorenzo.

Temevo si verificasse la becera tradizione in uso tra i ragazzacci dell’isola.

Guai a farsi cogliere reduci da un taglio di capelli con la sfumatura accentuata dalla nuvola di talco, ovvia firma del figaro, a opera conclusa. Era inevitabile un bonario, si fa per dire, quanto sonoro, schiaffone sulla ‘sfumatura’.

“Non resisto”, replicò Lorenzo.

“Buono, siamo a destinazione, scenderemo alla prossima fermata”, e abbassai il capo per osservare se apparisse la sede dell’azienda.

Lo schianto fu violento. Non avevo dubbi sull’accaduto, e cominciai a ridere.

Rialzai il capo. Il passeggero colpito dalla ‘generosa’ manata di Lorenzo si era girato verso di me. Paonazzo, con un’espressione di incredula meraviglia, non riusciva a parlare e io, a frenarmi dal ridere.

Lorenzo, si rivolse alla vittima:

“E dopo quel che ha fatto ha anche il coraggio di ridere” e, serissimo, si girò dalla mia parte, con una evidente denuncia.

Ci salvò la fermata. Saltammo giù dal tram e ci allontanammo velocemente sul marciapiedi, mentre la vettura ripartiva.

Per fortuna ci era andata bene. Lo scherzo era continuato con la mia ‘incriminazione’.

Inutile rimproverarlo. Lorenzo era fatto così.

Continuammo a ridere. I meneghini di passaggio ci guardavano. Piuttosto intimoriti, mi parve. Ridemmo. Con più gusto.

 

Immagine in copertina tratta da Pixabay

Gamy Moore
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