“Sì, io confesso.” disse il commissario Luigi Martino, bevendo il suo Montgomery, “Confesso di essere un poliziotto che legge i libri gialli.
Non credo di essere il solo, ma la maggior parte dei miei colleghi se si parla di letteratura gialla comincia a fare le smorfie e a dire che i delitti e le indagini descritti in questa letteratura non hanno alcun rapporto con le indagini e delitti veri. Non dico che questo non sia vero per quasi tutti gli scrittori di gialli… magari escludendo Ed Mc Bain…”
“Che in realtà si chiamava alla nascita Salvatore Albert Lombino…” precisò il giudice Carlo Marullo che evidentemente anche lui i gialli li leggeva, sorseggiando il suo Negroni, mentre in sottofondo Chet Baker sussurrava con la sua tromba Tenderly.
“…che con i suoi poliziotti dell’ottantasettesimo distretto ci ha dato delle storie abbastanza credibili… oppure, chissà… magari, a volte, ha preso delle storie vere e le ha fatto diventare le indagini dei suoi personaggi… ecco, escluso… Lombino alias Evan Hunter alias Ed Mc Bain… e naturalmente Simenon con il mio amato Jules Maigret… che descrive tutto talmente bene che a volte leggendo senti l’odore del carbone che brucia nella stufa della stanza al Quai des Orfèvres oppure l’odore del cibo nei bistrot… ecco, escluso questi… e sono sicuro di aver dimenticato… per ignoranza o per distrazione… qualcuno che scrive storie altrettanto plausibili… tutte le altre storie gialle… o le vicende o le indagini che seguono il delitto sono in realtà improbabili.
Ma che male c’è se non sono verosimili, se sono scritte bene o intriganti?”
“Non credo di aver letto molti gialli in vita mia.” così diede il suo contributo, finendo il suo secondo Margarita – come al solito era sempre avanti agli altri – l’avvocato Scipione Faranda detto Scipio, che dopo il caso della Danzatrice di Ragusa era diventato compagno di bar del commissario e del giudice, “Però da ragazzo leggevo quelli di Agatha Christie.”
“Anche io come tutti li leggevo da ragazzo, ma poi riletti a distanza di anni mi son parsi deludenti… in realtà non bisognerebbe mai tornare sui propri passi… due volte su tre quello che ci piaceva una volta non ci piace più… tanto vale conservare i ricordi…” continuò Martino, finendo il suo primo Montgomery e facendo un cenno al barman per un altro, senza naturalmente sognarsi di poter raggiungere l’avvocato Faranda, “rileggendoli li ho trovati troppo macchinosi… qualche idea buona c’è, come quella di far raccontare la storia dall’assassino, senza farcelo sapere in… come si chiamava quel libro… aiutatemi…”
Sia il giudice Marullo che l’avvocato Faranda quella storia l’avevano letta tanti anni prima, ma anche loro non si ricordavano il titolo del romanzo.
“Ma quelli che non sopporto, uno l’ho comprato, altri me li hanno sciaguratamente regalati e non ho resistito alla altrettanto sciagurata tentazione di leggerli… magari incazzandomi man mano che mi rendevo conto di stare perdendo il mio tempo… sono la maggior parte degli autori inglesi di oggi.” continuò il commissario Martino, dopo l’indagine andata male sul titolo del romanzo della Christie, “Libroni enormi per raccontare tutti i segreti di tutti i personaggi, che poi col delitto non c’entrano niente. Uno sciupio degli alberi delle foreste. A confronto la Christie era un esempio di concisione.
Di quelli di una volta l’autore inglese che mi piace di più è John Dickson Carr col suo strabordante e barocco dottor Gideon Fell…”
“Ma Dickson Carr era americano.” obiettò il giudice Marullo.
“Doveva essere americano per sbaglio, i suoi gialli sono un perfetto esempio di gialli all’inglese. Solo che, a differenza degli altri giallisti, le sue storie sono come le altre inverosimili, ma sono dichiaratamente e volutamente inverosimili. Direi anzi spudoratamente inverosimili!”
“Io non l’ho mai letto.” disse l’avvocato Faranda.
“Uno dei miei principi è non prestare mai i libri. A nessuno. Ma i miei principi non mi vietano di regalartene qualcuno. Anche se magari oggi sono difficili da trovare in libreria, ma penso di riuscire a scovare qualcosa.”
“Sì, di Dickson Carr ho letto diversi romanzi pure io,” fece memoria il giudice Marullo, “mi ricordo diverse variazione sul tema delitto in una stanza chiusa e mi ricordo anche che il modo in cui le vittime morivano era piuttosto elaborato… e poi nei suoi romanzi ci infilava sempre il sospetto che ci fosse qualcosa di soprannaturale negli omicidi… poi alla fine naturalmente tutto era spiegabile e il soprannaturale non c’entrava niente.”
“Non leggo più suoi romanzi da diversi anni… anche se ora parlandone mi è venuta voglia di rileggerli… naturalmente non lo farò perché…”
“Due volte su tre… anzi, direi, tre volte su quattro… quello che ci piaceva una volta non ci piace più.” Sorridendo e ordinando con un gesto un altro Negroni, il giudice Marullo, “Conservati i tuoi ricordi, Luigi.”
“Eppure, un delitto alla Dickson Carr mi è capitato, solo che il dottor Gideon Fell non era disponibile e ho dovuto risolverlo io. Ti ricordi tanti anni fa quando mi hanno assegnato per sei mesi in Toscana?”
“Scusa, Luigi, ma in che senso era un delitto alla… come si chiama… uh… Dickson Carr?” si informò, giustamente incuriosito, l’avvocato Faranda.
“Perché la vittima aveva perso la testa… e l’aveva persa nel senso letterale della parola. Era stata decapitata.”
“Sì, ricordo di aver letto qualcosa, ma è stato molti anni fa…”
“Certo di anni ne sono passati… ero giovane a quei tempi… giovane e passabilmente innocente,” detto con un comico sospiro, “erano i miei primi anni nella Polizia. Ero da poco stato nominato commissario. Avevo con me, già da quando ero vice commissario, il brigadiere Di Blasi quello delle citazioni shakespeariane, Carlo lo conosce bene e anche tu, Scipio, lo hai visto.
La telefonata arrivò in commissariato alle due e mezzo di notte, ci chiamava dalla sua casa sugli Appennini l’ingegnere Vittorio Cassano e ci comunicava che tornando a casa, poco prima, da una cena che si era prolungata aveva visto un cadavere vicino alla strada. Era tornato a casa per telefonare… a quei tempi non c’erano i cellulari… e ci avrebbe atteso poi vicino al cadavere per mostrarci il posto esatto.
Naturalmente feci richiamare l’ingegnere per conferma, anche se non credevo potesse essere uno scherzo, avvisai il medico legale e la scientifica e partii con Di Blasi e altri due agenti pratici della zona che ci precedevano con un’altra macchina.
A proposito del giallo inglese, i monti in cui ci addentrammo erano molto da romanzo del già nominato Dickson Carr… strada sterrata, bosco con grandi alberi, pochissime abitazioni e perfino una fitta nebbia.”
“Un momento,” interruppe l’avvocato Faranda, “la storia mi sembra interessante, quindi propongo un altro giro e propongo pure di lasciare gli sgabelli e di spostarci a un tavolo.”
La proposta fu, naturalmente, approvata.
“Dopo più di mezz’ora che eravamo per strada, da una decina di minuti era cominciata una discreta pioggia, ci apparve nella nebbia una figura che ci faceva segni. Era l’ingegnere Cassano. Alla luce delle nostre torce ci guidò fino al cadavere che distava solo un paio di metri dalla piccola strada sterrata. Il cadavere indossava un impermeabile chiaro e doveva essere stato il colore dell’impermeabile a permettere all’ingegnere Cassano di scorgerlo, illuminandolo con i fari della sua macchina, nonostante la nebbia e l’oscurità.
Il cadavere era visibilmente, almeno a giudicare dalle forme e dai vestiti quello di un uomo ed era pure visibilmente privo della testa. Cominciammo a spostarci a raggio intorno al punto in cui c’era il cadavere, illuminando dove mettevamo i nostri piedi per non rischiare di compromettere la scena del delitto. Trovammo la testa, questa indiscutibilmente di un uomo, a circa 5 metri dal cadavere nella direzione opposta alla strada.
Subito dopo arrivarono la scientifica e il medico legale. Accompagnai il dottore… il dottore… come si chiamava? ah, ecco! Il dottore Prestipino al punto dove si trovava il cadavere e andai a parlare con quelli della scientifica.
Muoversi al buio in mezzo a quella nebbia per cercare indizi era impossibile e nello stesso tempo non conveniva chiamare i mezzi con le lampade per illuminare la scena, sarebbero dovuti venire da Firenze e ormai erano le quattro e conveniva aspettare la luce del giorno che non avrebbe tardato molto, eravamo alla fine di maggio. Il problema era la pioggia che rischiava di cancellare gli indizi.
Il dottore Prestipino si fermo vicino al cadavere una ventina di minuti armeggiando con i suoi termometri, si spostò dove c’era la testa e la esaminò senza sollevarla, ma solo spostandola e rimettendola a posto e poi mi raggiunse.
È un uomo di circa quaranta anni, apparentemente non presenta altre ferite oltre la decapitazione… quindi deve essere stato decapitato da vivo… per quanto riguarda la possibile arma del delitto ne parliamo dopo l’autopsia…
Gli chiesi dell’ora della morte.
Anche qua per essere precisi dobbiamo aspettare l’autopsia ma io sulla base della mia esperienza… ne ho visti tanti… anche se uno senza testa ancora non mi era toccato… considerando la temperatura del corpo e la temperatura esterna… direi con tutta probabilità tra le nove e le undici di ieri sera.
Andai a parlare con l’ingegnere Cassano, mi confermò quelle poche cose che aveva detto al telefono sulla scoperta e aggiunse che quando era uscito di casa alle otto di sera per andare a cena con degli amici, la nebbia c’era già come quasi sempre in quella stagione, ma probabilmente il cadavere non era dove lo aveva trovato tornando, nonostante la nebbia lo avrebbe visto. Ma questo io già lo sapevo dopo aver parlato col dottore Prestipino.
A quell’ora il cadavere non era ancora cadavere e la sua testa stava dove tutte le teste dovrebbero stare.
Non aveva incontrato nessuno lungo quella strada né alla andata né al ritorno.
Mi chiese il permesso di tornare a casa e gentilmente mi invitò a passare il tempo che mancava all’alba a casa sua. Accettai. Con Di Blasi gli andammo dietro, dopo circa duecento metri c’era una strada ancora più piccola che si dipartiva da… bellino dipartiva… chissà come mi è venuto…”
“Mi diparti’ da Circe che sottrasse me più di un anno…” l’avvocato Scipione Faranda detto Scipio amava Dante anche se non lo citava così frequentemente come faceva il brigadiere Di Blasi con Shakespeare.
Sorrisero tutti e tre.
“Dicevo che la strada principale aveva una diramazione che portava alla casa alla casa dell’ingegnere Cassano e là finiva.
Ci impiegammo pochi minuti ad arrivare. La casa dell’ingegnere era così bella da giustificare la sua lontananza dalla civiltà. Perché, diciamocelo chiaramente, era situata… come diciamo noi in Sicilia… dove Dio si scordò le scarpe.
Alle prime luci dell’alba io e Di Blasi, dopo aver gradito due buone tazze di caffè ciascuno offerte dall’ingegnere Cassano, lo pregammo di tenersi a disposizione per eventuali e improbabili ulteriori domande, ringraziammo e tornammo sul luogo del delitto.
O, per meglio dire, sul possibile luogo del delitto. Niente vietava che il poveraccio fosse stato decapitato in un altro posto e poi il corpo fosse stato trasportato in quella strada dove passava poca gente. Ma io non ero di quell’idea. Se lo avessero voluto nascondere non lo avrebbero lasciato così vicino alla strada.
Quando arrivammo, la pioggia aveva smesso, la scientifica era già in piena attività. Fummo informati subito che l’identità della vittima non era conosciuta, le sue tasche erano vuote, l’assassino aveva voluto procurarci del lavoro extra. Arrivò una ambulanza e il corpo venne rimosso per essere portato all’obitorio e affidato alle cure del dottor Prestipino, che se ne era andato subito dopo aver parlato con me.
La nebbia cominciava ad alzarsi. Io e Di Blasi, dopo essere stati un paio di volte rimproverati sgarbatamente, appena muovevamo un passo, da quello stronzo del commissario Moretti che era a capo della scientifica, decidemmo di andarcene e di aspettare in ufficio i risultati del lavoro della squadra del commissario Moretti, che era sì uno stronzo, ma era uno stronzo bravo nel suo lavoro.
Durante il viaggio di ritorno Di Blasi stranamente mi risparmiò le sue citazioni shakespeariane, evidentemente le opere del suo amato genio non prevedevano decapitazioni.
Tornati in ufficio ci aspettavamo che arrivasse qualche denuncia di scomparsa che ci permettesse di identificare il morto, ma non arrivò niente. Probabilmente la vittima viveva da sola. Io avevo controllato le sue mani quella notte per vedere se aveva la fede e non avevo visto nessun anello.
Spedii un paio di agenti a interrogare tutti gli abitanti di quella strada che non erano molti, dopo aver consultato una mappa e aver visto che la strada finiva circa un paio di chilometri dopo la casa dell’ingegnere Cassano.
Sapevamo che la scientifica non aveva ancora concluso le sue indagini, ci voleva del tempo prima di poter esaminare uno spazio così vasto. Quello che anticipò i tempi fu il dottor Prestipino che mi telefonò dopo l’autopsia.
Per quanto riguarda l’ora del delitto resto della stessa idea di ieri, tra le nove e le undici. Il morto non aveva cenato. L’arma del delitto doveva essere molto tagliente e manovrata da una persona forte e decisa, non ci sono esitazioni nella linea del taglio. Nessuna traccia di altre ferite – anche il capo è integro, non lo hanno stordito prima di tagliargli la testa – esclusa una contusione alla spalla destra e al fianco destro, entrambe però post mortem, come se il corpo fosse stato sbattuto contro una superficie dura.
C’è una cosa curiosa: dall’esame dei versamenti di sangue, sempre post mortem, dovuti alla posizione in cui si trovava il cadavere è chiaro che il cadavere si trovava nella posizione in cui l’abbiamo trovato solo da un paio d’ore oppure da ancora di meno. Quindi tenendo conto di questo possiamo pensare che il cadavere sia stato spostato visto che la morte risaliva a parecchie ore prima. Subito dopo morte il cadavere è rimasto probabilmente per qualche ora adagiato sul fianco destro.
Gli esami tossicologici per vedere se gli è stato somministrato qualche sonnifero prima di decapitarlo saranno pronti tra due settimane. Le dico questo, commissario Martino, perché se non è stato addormentato prima il delitto, diventa opera di più persone, uno che lo decapitava e un altro, ma più probabilmente almeno altri due, che lo tenevano bene fermo, visto il taglio così netto.”
Il commissario Martino notò che durante questi particolari dell’autopsia, l’avvocato Faranda aveva allontanato da sè il piatto degli stuzzichini da cui prima si stava servendo.
“Le informazioni che mi aveva dato il medico legale sugli spostamenti del corpo rendevano plausibile l’ipotesi che l’assassinio era stato commesso in un altro luogo e poi il corpo era stato spostato dove lo avevamo trovato.
Certo, le macchie di sangue che si sarebbero dovute trovare nel bosco ci avrebbero potuto aiutare, ma, dal momento che aveva piovuto per ore, non ci contavo molto.
La sera tornarono gli agenti che avevo spedito ad interrogare gli abitanti della zona. La prima notizia era che la scientifica stava ancora lavorando sul posto e avrebbe continuato anche il giorno dopo. L’altra era che erano dieci le abitazioni che si servivano di quella strada, ma in quel periodo dell’anno solo quattro erano abitate, due prima della casa dell’ingegnere Cassano, una dopo.
Anche il giorno dopo nessuna denuncia di scomparsa e io decisi di fare apparire una foto del morto opportunamente ritoccata, per non impressionare nessuno, sui giornali dell’indomani.
Ma non fu necessario.
Ci arrivò nel tardo pomeriggio una telefonata della scientifica. Il giorno dopo ci avrebbero mandato un primo rapporto, ma intanto ci tenevano a farci sapere che in un dirupo vicino al luogo dove c’era il cadavere decapitato avevano trovato una Vespa di colore verde e che ci davano il numero di targa. Metterci in contatto con la motorizzazione a quell’ora non fu facile, ma alla fine la notizia arrivò. La Vespa era del signor Silvano Brusca di anni 42, residente in via…via… assolutamente non me lo ricordo…
Io e Di Blasi andammo a quell’indirizzo… quarto piano senza ascensore… suonammo inutilmente il campanello e cominciammo a interrogare i vicini. L’ultimo ad aver visto il signor Brusca lo aveva visto tre giorni prima. Mostrammo la foto del morto scioccando un paio di suoi vicini e ottenemmo la conferma che la testa l’aveva persa proprio il loro coinquilino.
A detta dei vicini il signor Brusca era un tipo che non dava confidenza a nessuno… al massimo un buongiorno o un buonasera e basta così. Nessuno sapeva che lavoro faceva, ma non doveva essere un lavoro dipendente, Lo avevano visto per le scale a tutte le ore del giorno. Abitava in quell’appartamento da cinque anni. Visite ricevute: rare e solo donne. Donne di un certo tipo… e si vedeva subito che erano puttane, signor commissario, e anche di quelle di poco prezzo…
Ho già detto prima che allora ero giovane e passabilmente innocente. Invece di chiamare un agente che fosse capace di aprire con una chiave falsa la porta dell’abitazione del signor Brusca… in ogni commissariato ce ne uno… ma tu, Carlo, sei un giudice, quindi fai finta di non aver sentito… io e Di Blasi, entrambi passabilmente innocenti, ce ne andammo ripromettendoci di tornare la mattina dopo con un regolare mandato di perquisizione.”
“Se lo dici tu ci credo, ma certo che è difficile immaginarsi te e soprattutto il brigadiere Di Blasi, passabilmente innocenti.” intervenne il giudice Marullo.
“Tornammo il giorno dopo con il regolare mandato e un fabbro per aprire la porta. Prima in commissariato avevamo scoperto che il signor Silvano Brusca dieci anni prima era stato condannato a 14 mesi con la condizionale per emissione di assegni a vuoto.
L’appartamento era disordinato e non molto pulito. Il signor Brusca evidentemente si faceva le pulizie da solo, i vicini non ci avevano parlato di nessuna cameriera, ma le faceva piuttosto male. I mobili erano spaiati e chiaramente venivano da negozi di mobili usati. Unica nota di lusso: un grande televisore di quelli grossi come si usava una volta. Sotto le camice trovammo un libretto di assegni e degli estratti conto che coprivano gli ultimi sei anni da cui risultava che il defunto poteva contare su circa cento milioni della vecchie lire.
Risultavano versamenti da dieci milioni in su, un tre o quattro versamenti all’anno senza intervalli regolari tra uno e l’altro, tutti in contanti e prelievi regolari di un milione all’inizio di ogni mese, che chiaramente servivano per le spese regolari.
Prelievi regolari, esclusi alcuni anomali, per cifre tra le cinquecento mila lire e i due milioni, che precedevano di un paio di settimane i versamenti.
A questo punto per riuscire a capire chi aveva ucciso il Brusca era importante sapere da dove arrivavano i suoi soldi. Escludendo che fosse un figlio illegittimo del principe di Galles… le date non corrispondevano…”
“Luigi, dovremmo ridere?” interrogò il giudice Marullo.
“Solo se ne avete uno smodato desiderio, se no potete farne a meno. Vabbè ti concedo che come battuta non era granché.
Comunque l’ipotesi più giusta per quei soldi era…”
E qua Martino fece una pausa che l’avvocato Faranda riempì subito.
“Naturalmente il ricatto!”
“Però nella casa non avevamo trovato né documenti, né fotografie che potevano essere compromettenti. Il telefono c’era ma non trovammo una rubrica telefonica. Evidentemente il morto doveva averla con se quando era stato ucciso e gli era stata sottratta insieme a tutto il resto. Continuammo a cercare, era già pomeriggio inoltrato quando Di Blasi smontò il coperchio del televisore e trovammo attaccata con lo scotch la chiave di una cassetta di sicurezza di una banca. La portai con me tornando in ufficio. L’indomani avrei cominciato la ricerca iniziando dalla banca in cui la vittima teneva i soldi.
In ufficio trovai un primo rapporto della scientifica. Come avevo previsto la pioggia aveva lavato le macchie di sangue. Avevano trovato qualche goccia solo dove giaceva il corpo e stranamente qualche altra goccia al centro della strada qualche metro più avanti. Ma il loro lavoro aveva raggiunto un risultato importante, esplorando dove il bosco era più fitto e i rami degli alberi formavano una galleria che in parte riparava il terreno dalla pioggia, avevano trovato delle tracce di un pneumatico. Avevano seguito le tracce che spesso si interrompevano ed erano arrivati infine ad un dirupo in fondo a cui giaceva la Vespa verde di Silvano Brusca.
La mattina dopo telefonai alla banca di cui era cliente il Brusca e feci subito centro. Aveva lì da dieci anni una cassetta di sicurezza. Chiamai il magistrato che si occupava del caso, riferii tutto quello che avevo scoperto fino a quel momento e poi mandai da lui Di Blasi, per ritirare un mandato per aprire la cassetta. Non ritenni necessario assistere all’apertura, dissi a Di Blasi di passare lui in banca una volta avuto il mandato e di portarmi tutto quello che c’era dentro la cassetta.
Di Blasi tornò con un paio di chili di documenti vari da esaminare.
Al ricordo di quello che era un primo pomeriggio e poi divenne sera e alla fine era quasi notte… ancora adesso… al solo pensarci… mi ritorno l’incubo di tutti quei numeri, io che per i numeri sono negato… mi serve assolutamente…”
Il commissario Martino ordinò un altro Montgomery e gli altri due decisero che non era caso di lasciarlo da solo.
“Erano bilanci e fatture di diverse ditte.
Provammo, vi giuro provammo. a capirci qualcosa, l’unica cosa evidente, a me e di Blasi, fu che di alcuni bilanci esistevano due copie con cifre differenti. Di Blasi si arrese per primo … dottore, questo non è lavoro per noi qua, non si capisce niente… e dico niente, dottore, ma l’espressione giusta sarebbe un’altra… immagino intendesse una benedetta minchia.
Io ero dello stesso parere da almeno un paio d’ore ma non volevo essere il primo a mollare.
L’indomani ci informammo su chi nella locale Polizia si occupava di reati finanziari e mollammo tutte le carte al commissario Cerrito e alla sua squadra.
Una settimana dopo Cerrito venne a trovarmi nel mio ufficio… Martino, ce ne hai dato di lavoro. In quelle carte c’è tanta di quella roba sporca da tenerci impegnati per sei mesi. Quello che non riesco a capire è come il tuo amico Brusca si sia procurato quel materiale, secondo me corrompeva qualcuno all’interno delle ditte. Mi ricordai dei prelievi anomali che precedevano i versamenti.
C’è di tutto, da bilanci truccati a false fatture per evadere l’Iva, secondo me le ditte implicate hanno truffato lo stato per almeno due miliardi… peccato per te che non sia previsto un premio, magari una percentuale… ma un premio per te ce l’ho io… una delle ditte coinvolte appartiene all’ingegnere Cassano.
Ora non avevo più solo una vittima ma anche un probabile assassino. Il problema era l’alibi dell’ingegnere Cassano.
Secondo il dottor Prestipino, il Brusca era morto tra le nove e le undici di sera e una dozzina di persone avevano visto in città l’ingegnere Cassano tra le venti e trenta e l’una della notte, secondo il suo alibi che avevamo verificato per prassi prima e ricontrollato adesso accuratamente.
Ottenemmo un mandato di perquisizione per la casa dell’ingegnere. La casa era grande, fu un lavoro lungo per la mia squadra di agenti. Non trovammo niente. Nessun indumento con macchie di sangue, nessuna scimitarra usata per decapitare. Portammo con noi i coltelli di cucina più grandi, per verificare la presenza di sangue, ma senza grandi speranze. Non trovammo neanche documenti compromettenti sulla truffa ai danni dello stato.
Eppure… eppure… io avevo seguito la perquisizione ed ero sicuro dello scrupolo dei miei uomini… ma andando via avevo la sensazione di aver visto qualcosa che… sul momento non… sì, avevo questa sensazione, qualcosa che avevo visto…
Ritornai l’indomani col solo Di Blasi, la casa era vuota, l’ingegnere Cassano era in carcere per truffa, e rivisitai tutte le stanze. Fu nell’ultima stanza che visitammo che finalmente capii quello che mi aveva colpito. Nella cantina c’era un banco di lavoro e materiali vari tra cui una matassa di solido filo di ferro.
Approfittammo del telefono dell’ingegnere Cassano per farci raggiungere da un agente della scientifica che aveva eseguito i rilievi nella parte del bosco dove era stato rinvenuto il cadavere.
Appena arrivato l’agente che aveva portato con sè una mappa dei rilievi effettuati, mi feci indicare il punto dove era stata trovata una delle due macchie di sangue, quella piccola in mezzo alla strada. Mi guardai intorno. Ai due lati c’erano due alberi, uno opposto all’altro.
Tutti e tre, io, Di Blasi e l’agente, cominciammo ad esaminare i due alberi. In tutti e due, all’altezza di un metro e 20 circa, c’era un solco stretto e profondo, lungo tutta la circonferenza. Il solco era più profondo dal lato opposto alla strada.”
Il commissario Martino si prese una pausa e guardò l’orologio.
“Non credevo che fosse così tardi. Credo che sia ora di andare a cena.” E cominciò a cercare i soldi per pagare.
“Come a cena? E il morto senza testa lo lasciamo là…?” l’avvocato Faranda era perplesso.
“Calma, sta facendo solo scena.” così saggiamente disse il giudice Marullo.
“Davvero, non ce la faccio più, sto morendo di fame. Devo andare. Ma… se… voi due insistete per pagare il bar e la cena… e riuscite… certo, sarà molto difficile… a convincermi di permettervi pagare, vincendo la mia riluttanza ad approfittare di voi… sarei proprio un ingrato a non finire il mio racconto.”
Si misero tutti e tre a ridere.
“Adesso il delitto ve lo racconto dal punto di vista dell’ingegnere Cassano.
Ho un impresa e vivo beato. Improvvisamente mi telefona un certo Brusca e mi dice che vuole vedermi e alla mia riluttanza risponde alludendo a certe situazioni nei miei affari che io dovrei essere il solo a conoscere. Accetto di vederlo. Arriva questo stronzo, vestito male pure, su una vecchia Vespa verde. Mi mostra delle fotocopie di documenti che non dovrebbe avere. Mi chiede tanti soldi per non rivelare che ho fregato i miei soci e pure lo Stato. Mi da tre giorni per procurarmi la grossa cifra in contanti.
Non voglio pagare. Potrei farlo, ma so che non finirebbe qua. So che se pago, me ne chiederà altri. Decido di ucciderlo. Il pomeriggio di tre giorni dopo mi telefona. Gli dico che ho pronto il denaro e gli do appuntamento a casa mia alle dieci di sera. Alle otto esco di casa, ho organizzato una cena con degli amici per procurarmi un alibi. Mi fermo a pochi chilometri da casa mia, il posto l’ho scelto alla luce del sole il giorno prima. Ho portato il rotolo di filo di ferro, una pinza per stringerlo e una torcia elettrica potente.
So benissimo che da quella strada non passa mai nessuno. In quel tratto ci si passa solo per andare a casa mia oppure dal giudice Velardi che abita alla fine della strada. Ma il giudice Velardi io so benissimo che va a letto molto presto e quindi di sera non riceve mai visite.
Tendo il filo tra due alberi e lo stringo con la pinza, all’altezza di circa un metro e venti. Ho calcolato accuratamente l’altezza.
Vado alla cena. Cerco di farla durare il più possibile. Mangio pure con buon appetito. Dopo l’una saluto e salgo in macchina per tornare a casa. Arrivo sul posto e vedo per terra prima la testa, poi il corpo del Brusca, poi la sua Vespa verde. Trascino il corpo in un lato della strada, sto attento a non macchiarmi, ma non c’è pericolo, il sangue si è ormai coagulato, poi porto la sua testa ancora più lontano, quindi prendo la sua Vespa, la porto ad un dirupo vicino e la faccio precipitare. Ritorno alla macchina, rimuovo il filo di ferro, lo carico in macchina e vado a casa a telefonare alla polizia, che deve arrivare al più presto in modo che sia facile per loro stabilire l’ora della morte.
Finito.
Di Blasi commentò con Il carosello del tempo porta con sè le sue vendette che non credo c’entrasse molto, ma si vede che non gli era venuto in mente niente di meglio”
I tre amici andarono a piedi al ristorante che era vicino. Dopo una buona cena e due bottiglie di Frappato. il giudice Marullo disse:
“Lo sapete che ora per legge dovremmo chiamare un taxi? Se ci fermano e ci fanno il palloncino… ci pensate… un giudice… un commissario di polizia… un illustre avvocato…”
“Illustre sarai tu!” si ribellò l’avvocato Faranda, “Io non lo sono. La prova del palloncino potrebbero farmela davvero mentre con voi due non si permetterebbe nessuno.”
“Non sono sicuro che i carabinieri non me la farebbero. Anzi credo che me la farebbero con piacere. Comunque no problem, il taxi lo pago io.” concluse il commissario Luigi Martino.
Si ringrazia per l’editing Benedetta Volontè
- Alfabeto minimo n.61 - 2 Gennaio 2017
- Alfabeto minimo n.60 - 21 Novembre 2016
- Alfabeto minimo n.59 - 31 Ottobre 2016
Bello…..comlimenti, sono una divoratrice di gialli e sul momento non ci avevo pensato. Certo, è logico che ha fatto così…E’ satto un coglione a non far sparire la matassa…..