di Enzo Buscemi
Notte d’estate dei primi Anni 70. In Sicilia.
Il mare lambiva, dolcemente, la litoranea. Tortuosa, delimitata da massi e da pochi arbusti. Sullo sfondo le innumerevoli luci della raffineria di petrolio.
Miriadi di fari, fissati sugli altissimi tralicci dell’impianto, sullo sfondo di un cielo pieno di stelle ma insolitamente scuro, echeggiavano, sfacciatamente, i grattacieli di Manhattan.
Il motore, nato a Maranello, del mio grosso spider, ruggiva armonioso e sicuro.
Con me due amici, Orazio e Gianni. Forse intimoriti dalla velocità, da quando avevamo lasciato Lo Zolfanello, il night nel parco del Grand Hotel Terme, non avevano proferito una sola parola.
Eravamo stati a ballare in quel locale con il resto della comitiva. Poi la scontata voglia di cambiare destinazione. Altri amici erano già andati via da almeno un’ora. E alle due del mattino avevo deciso di seguirli. Meta, un night sul Capo di Milazzo. Invitai Gianni e Orazio e partimmo. C’erano da percorrere una ventina di chilometri, sull’antica fettuccia, in mezzo a inebrianti colture di gelsomino.
Traversammo Milazzo, completamente deserta e ora, costeggiando il mare, eravamo quasi a destinazione. Uscendo da una curva che preludeva al piazzale con la rampa che scendeva alla nostra meta, nell’oscurità, bucata solo dai fari della mia automobile una persona ci veniva incontro.
In mezzo alla carreggiata.
Rallentai decisamente, e suonai il clacson. La figura non si scansò, e mi costrinse a una brusca frenata.
Davanti al muso dello spider mi trovai una donna. Lunga gonna nera, camicia candida, capelli alla Juliette Greco ultima maniera, occhi grandi, scurissimi, incorniciati da un trucco pesante. Tra le braccia stringeva un grande fascio di rami di oleandro, ricchi di fiori.
“Ma che diavolo fai” urlammo all’unisono come se ci fossimo messi d’accordo, io e i miei amici.
La sconosciuta non cambiò espressione. Si spostò da un lato, e riprese a camminare.
Ripartendo, le indirizzammo dei commenti non proprio eleganti.
Eravamo già sullo spiazzo all’imbocco della rampa che scendeva al night. La imboccammo e fummo all’ingresso della “Rotonda sul mare”.
L’avevano chiamato così, forse in omaggio all’omonima canzone di Fred Bongusto, tormentone già di molte estati, o forse perché la pista era proprio rotonda. Costruita sugli scogli e letteralmente bagnata dal mare. Ma si chiamava così, e per me la denominazione era irrilevante.
C’era parecchia gente, ma dei nostri amici neppure l’ombra. Peccato. Avevo capito male? Erano forse andati in un altro locale, sull’altro versante del Capo. Bella fregatura, bisognava rifare i cinque chilometri appena percorsi, sino a Milazzo. Poi prendere la strada sul lato opposto del promontorio, e arrampicarsi sino all’estremità che finiva in mare.
“Va bene, a quest’ora faremo presto” e ripartimmo a tutto gas. Nemmeno un chilometro dopo, riecco la misteriosa donna di prima. Mi preoccupai. A quell’ora, da sola nel deserto. E Milazzo era lontana.
“Adesso le chiedo se vuole un passaggio. Dovrete stringervi un poco”, dissi ai miei amici. Arrivai lentamente accanto alla sconosciuta: “Possiamo accompagnarla? La città è lontana. Stia tranquilla nessuno le farà del male”.
La donna si tirò indietro e farfugliò. Forse in francese, ‘Ne pas, ne pas’ o qualcosa di simile. Si schermì, di scatto, e il viso atteggiò un’espressione durissima.
Aveva perso i tratti dolci del primo impatto e assunto una grinta spaventosa. Gianni, come usava solitamente, per via del coraggio latitante, implorava di lasciarla perdere e andare via. Mi convinse. E ripartimmo, commentando che, come da manuale, spesso la cortesia non paga.
Come previsto: litoranea, Milazzo, lungomare, e a destra, su per la salita verso il ‘Capo Vecchio’.
Una curva dopo l’altra, passammo sotto il castello settecentesco, poi altre curve. Buio pesto finché, sullo sfondo, apparvero le luci della piazza del Capo. L’ultima curva la presi molto allegramente, ma all’uscita un riflesso incondizionato mi fece bloccare l’automobile.
A pochi metri da noi, illuminata dai quattro fari c’era una donna.
Gonna nera lunga, camicetta candida, occhi fortemente bistrati, capelli alla Juliette Greco, un enorme mazzo di rami d’oleandro tra le braccia.
“È impossibile. È la stessa di prima” balbettò Gianni notoriamente facile alle emozioni.
“Ma dai è impossibile” intervenne Orazio, sicuramente più realista.
“Sarebbe assurdo. Come avrebbe fatto ad arrivare prima di noi. Tra il nuovo e il vecchio Capo c’è una parete di roccia e non esistono scorciatoie” concordai.
Conoscevamo benissimo quella zona. La battevamo da anni. E per passare dall’altra parte del promontorio, a picco sul mare, allora esisteva soltanto l’itinerario appena percorso. La bretella di collegamento sarebbe nata in seguito.
“Vado a chiederle come cavolo abbia fatto”, e aprii lo sportello accingendomi a scendere.
“Ti prego fermati. È un fantasma. Andiamo via” supplicò Gianni.
“Ma che fantasma. Debbo capire che cosa è successo. Sta’ tranquillo Gianni. Non credo che ci ucciderà”. Scesi dalla vettura e mi avvicinai alla sconosciuta che era rimasta immobile.
“La prego, signora, come ha fatto ad arrivare sin qui, prima di noi. Non avrà volato sopra la montagna. Sia gentile, mi spieghi”.
Dietro le mie spalle Gianni urlava “Via, via è un fantasma!”
Orazio era ammutolito.
Io, per la verità, stavo sudando freddo. Ero certo che la sconosciuta, in quel posto, proprio non poteva esserci.
“Per favore” ripetei. “Chi è lei. Mi spieghi come ha fatto”.
Successe qualcosa di inspiegabile.
La notte era placida, senza un alito di vento. Di colpo cambiò tutto. Intorno alla donna si creò una sorta di turbine che sollevò la polvere dall’asfalto. I fiori e le foglie che, dai rami dell’oleandro, sono notoriamente difficili da staccare volarono via e presero a girare in un mulinello vorticoso intorno alla sconosciuta.
Il viso della donna si riatteggiò all’espressione agghiacciante che avevo visto al primo incontro. Gli occhi sembravano perdersi in fondo alle orbite, e lampeggiavano nel bagliore dei fari. Di nuovo udii lo stesso incomprensibile farfugliare.
Ero paralizzato. Non riuscivo a parlare. Sentivo soltanto Gianni che urlava terrorizzato, e adesso anche Orazio lo imitava. Senza rendermene conto arretrai fino al muso della macchina. Allungai una mano sul cofano. Il contatto con il metallo caldo mi rassicurò. Trovai la forza per mettermi al volante e ripartii con grande stridio di gomme, sfiorando la donna, immobile, ancora avvolta nel surreale mulinello di foglie e di fiori.
Tra le braccia stringeva il fascio di rami d’oleandro. Ormai stecchi, assolutamente spogli. Sul viso, quell’espressione terribile che non dimenticherò mai.
Solo in seguito, quando piombammo nell’estremo piazzale del promontorio, mi resi conto che avevo guidato urlando. Né più e né meno dei miei amici. Spensi il motore e respirai a fondo tentando di frenare un tremito che mi scuoteva.
La nostra notte si concluse a quel punto. Restammo seduti in macchina. Fermi, a fumare, in silenzio. Non so per quanto tempo. Poi, lentamente rientrammo.
Parcheggiai sotto casa e non tirai su la capote. Il tremito non mi aveva abbandonato. Non ci salutammo, e ognuno se ne andò per conto suo.
Del fantasma parlammo soltanto parecchi giorni dopo. Non arrivai a una spiegazione plausibile. Nemmeno tanti anni dopo, quando quell’inquietante episodio riaffiorò nella mia memoria.
Un giorno, per caso, Eleonora, la mia splendida, curiosissima nipotina, quando andai a prenderla all’uscita da scuola, mi chiese come ogni volta, di raccontarle una storia. Chissà perché mi tornò in mente quella del fantasma. Eleonora ne rimase affascinata. Implacabile, da quel giorno, me la fece raccontare chissà quante volte. Tante che finì per impararla a memoria. E, ad ogni replica, guai a cambiare un particolare. Le feci promettere che ne avrebbe scritto un racconto. Non mi ha ancora accontentato. Ma sono certo che lo farebbe benissimo.
Purtroppo “Non ha mai tempo”.
Per Eleonora, 2015
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