Dell’angelo che con un tocco di zampetta ha cambiato la mia vita vi ho già detto, ma forse non sapete che con lei la nostra casa diventò un rifugio per angeli in difficoltà, piccoli profughi in fuga dall’abbandono. Una vicina aveva portato a casa un gatto, ma la cura del felino non era molto compatibile con i suoi problemi con l’alcool, forse non lo vedeva, forse ne vedeva due, fatto sta che il micetto era abbandonato a sé stesso e fin da piccolo si dovette adattare alle regole della vita di strada. Il cucciolo aveva messo su grinta e temperamento, e con caparbia decisione ci aveva eletto suoi umani di riferimento. Chi è di religione gattolica sa bene che non siamo noi a scegliere il gatto, ma è Sua Maestà il Felino che elegge alcuni umani a suoi collaboratori, e noi eravamo stati nominati. Il gattino si evocava magicamente in ogni luogo e in ogni momento della giornata: si apriva la finestra al mattino e lui era lì fuori, si tornava dal lavoro per pranzo e lui protestava per il ritardo, si autoinvitava a cena, insomma non c’era porta, finestra, anta o sportello da cui non saltasse fuori questo piccolo, magico ninja, che chiamammo Merlino.
Merlino non voleva solo cibo, a casa sua qualcosa gli davano, ma cercava una famiglia, e dal suo punto di vista l’aveva trovata. Purtroppo non era lo stesso punto di vista del nostro amato Angelo, la nostra splendida Beatrice, l’Amor ch’al cor gentil gatto s’apprende. Lei era gelosissima e considerava la presenza del piccolo profugo come un’offesa personale, per cui dovevamo stare attenti a provvedere a lui senza metterli in contrasto, ma a Merlino non poteva importare di meno. Avevamo i nostri appuntamenti, faceva colazione con noi prima delle sue scorribande al mercato, ci aspettava per pranzo, faceva una pennichella sulla nostra finestra, ci accompagnava nella passeggiata serale con Beatrice. Portammo degli amici a vedere il canale coperto e Merlino ci fece da guida, ci scortava a prendere la macchina e una sera ci accompagnò perfino in pizzeria, in Piazza delle Erbe, e ci aspettò. Avrà pensato che era un quartiere troppo pericoloso per lasciare in giro da soli due miopi sprovveduti come noi…
Merlino aveva la sua credibilità di strada da difendere, era un duro e non si faceva spupazzare come un peluche, ma ogni tanto le prendeva di brutto nelle risse coi gatti del mercato e veniva da noi a curarsi le ferite. Ricordo un memorabile ultimo dell’anno in cui si presentò alle sette di sera con una zampetta piegata e la faccina da “io non ho colpa ma guardate che cosa mi hanno fatto”. L’ho caricato in macchina e mi sono precipitata dal veterinario, che stava chiudendo per andare al cenone, come tutti. Pur essendo un mio vecchio amico dei tempi del liceo non mi ha risparmiato varie maledizioni romagnole, anche perché Merlino non era il gatto più amato dai veterinari, li puntava e li minacciava esattamente come faceva con i suoi rivali in combattimento, soffiando e mugolando con le orecchie basse e il pelo dritto sulla schiena, tanto che loro si rifiutavano di toccarlo se non c’ero io a tenerlo fermo. Cercavo di convincerli che si trattava solo di un bravo ragazzo un po’ nervoso, un boccalone che non passava ai fatti, ma loro non ci credevano, chissà perché.
Una sera d’estate portò un amico a cena. A prima vista mi era sembrato un micione obeso, poi mi accorsi che si trattava di una gatta incinta. “Ahi ahi Merlino, gli dissi, hai messo nei guai una ragazza e adesso ce la scarichi?”. Lui mi fece l’occhiolino, ed io che cosa potevo fare? Doppia razione, ovviamente. La ragazza madre faceva una pena infinita: si capiva che non era una gatta di strada, ma una creatura abbandonata, magari apparteneva a una persona anziana che era morta e i parenti si erano affrettati a prendersi la casa e buttare fuori il gatto, ma Beatrice a quel punto era sull’orlo della crisi di nervi, non aveva mai digerito Merlino e un nuovo arrivo era troppo per lei… Lucrezia (Lucy per gli amici) partorì i suoi piccoli nelle cantine di un vecchio palazzo semidistrutto, e quando furono un po’ cresciuti ce li portava per i pasti. Inutile dire che erano dei bonsai del nostro Merlino… Riuscimmo facilmente a trovare casa ai piccini, ma per la mamma era più dura, nessuno vuole i gatti adulti. Il veto di Beatrice sull’aumento della popolazione felina era insormontabile, così mi appoggiai a un rifugio di gatti abbandonati per curarla, rimetterla in sesto, sterilizzarla e cercarle casa. L’associazione mi mise a disposizione una piccola “dependance” in cui andai tutti i giorni, più volte al giorno, per due mesi, a nutrirla, assisterla, curarla e farla ritornare in forma, però la famiglia adottiva non saltava fuori, nonostante battessi tutta la città. Venne il momento in cui o me la riportavo a casa o la lasciavo al rifugio.
Il giorno in cui portai Lucy al gattile fu devastante per me. Era un ulteriore abbandono, dopo essere stata sbattuta in strada io l’avevo curata e assistita e adesso la mollavo in un rifugio che, per quanto curato e ben tenuto, dal punto di vista felino è una prigione. Anche se i gatti erano liberi di muoversi in mezzo ettaro di campo verde e alberato e avevano ripari, cibo in quantità e cure mediche, la convivenza con un centinaio di loro simili è una condizione inaccettabile per loro, che per natura hanno bisogno dei propri spazi. Lucy mi guardava con due occhioni rassegnati che mi perforavano il cuore ed io mi sentivo veramente un’infame, non ero stata neppure in grado di dare una casa a una creaturina che non chiedeva niente, solo un angolo in cui stare in pace. La mattina dopo accadde il miracolo, una famiglia mi disse di sì. Il sabato pomeriggio, in pompa magna, la portai dai suoi nuovi genitori, con i quali ha vissuto amata e felice fino alla vecchiaia, ed io ho prestato dieci anni di attività volontaria in quel rifugio, in nome di quello che non ho potuto fare per quella povera creatura sfortunata.
E Merlino? Torniamo a lui. La vicina che lo aveva adottato finì di avvelenarsi con l’alcool e quando morì i parenti portarono via tutto e lasciarono lì il gatto, facendo finta di dimenticarsi che ne aveva uno. A quel punto lui mise in atto una serie di azioni persuasive, tanto per farci intendere una volta per tutte che da tempo aveva deciso che casa nostra era casa sua, e che la piantassimo di fare tante storie. La notte si piazzava in mezzo alla tromba delle scale e urlava come una scimmia, svegliando tutto il condominio. Gli avevamo preparato la casetta sul davanzale, bella imbottita per l’inverno, ma tutti i giorni recitava la sua sceneggiata, si spalmava sul vetro della finestra a zampine spalancate e urlava al mondo il suo sdegno, in particolare se in casa avevamo gente. Una volta tornò a casa con la febbre e una grave infiammazione agli occhi, dovevo curarlo e tenerlo al caldo, così preparammo una stanza solo per lui. Il feroce gatto di strada si lasciava fare perfino gli aerosol pur di dimostrarci che era un bravo ragazzo, degno della nostra fiducia e dell’inserimento nello stato di famiglia. Dopo due mesi di cure, sareste riusciti a rimetterlo fuori al freddo? Io credo di no. Così cominciammo l’inserimento con Beatrice, mettendoli a contatto un po’ alla volta e sperando che non si facessero a pezzi a vicenda. Merlino dal canto suo fu bravissimo, sapeva perfettamente che la condizione per vivere con noi era portare il massimo rispetto alla nostra Amatissima, e lei come sempre si comportò da signora, fece finta di non vederlo. Se qualcuno le avesse chiesto notizie dell’altro gatto che viveva con noi, avrebbe risposto “Gatto? Quale gatto?”.
Il nostro Merlino non abbandonò le sue abitudini neanche quando diventò un membro effettivo e permanente della famiglia: al mattino, dopo la colazione, c’era il giretto e la rissa con Filippo, il gatto del mercato, poi ci aspettava per pranzo, faceva il sonnellino e usciva per nuove avventure. La sera io facevo il giro del quartiere chiamandolo a gran voce e lui si evocava magicamente, come sempre, e veniva in casa a dormire con noi. Una sera non tornò. Durante la notte venne a morire davanti al portone del palazzo, le automobili non perdonano la libertà del gatto. Avevamo pregustato con tanta gioia il prossimo inverno insieme, tutti al caldo, ma lui non ci arrivò, una macchina assassina ce lo portò via in ottobre. Però posso dire che è sempre con me? Ci sono momenti in cui lo sento sulla mia spalla, lo vedo mentre guarda il mondo con i suoi occhietti ironici e un po’ strabici, e mi dice “Amica mia, stai tranquilla, ci sono io qui con te, non hai niente da temere. Stai serena, scialla!”
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