Quel giorno che ho sentito bussare al coperchio della bara ero morta da poco e non ho risposto subito: la sicurezza è di grande importanza per noi defunti. Dentro la bara non si corrono rischi, nessuno ti viene a cercare, invece là fuori ci sono sei miliardi di persone e altrettanti pericoli. Io lo sapevo bene, perché erano stati gli umani a condurmi al suicidio: non tutti i sei miliardi, naturalmente, solo un manipolo di kolleghi e kapetti, ma adesso mi trovo a “riposare” in terra non consacrata, fuori dal recinto del cimitero. I preti dicono che la vita è un dono, che ti devi tenere anche se diventa una condanna. Per fortuna non sono mai stata cattolica e mi piace il nido che mi è stato assegnato, oltre le mura della recinzione più antica, vicino al grosso tronco di un vecchio ippocastano, nella biforcazione di una radice nodosa e piena di muffa. La lapide, come quella dei miei vicini, si è ricoperta in breve tempo di uno strato di muschio così fitto che l’iscrizione è quasi illeggibile. Ci sto proprio bene qui, dormo quasi tutto il tempo e quando sono sveglia assaporo il sibilo del vento tra gli alberi e l’odore dolce della terra bagnata, e faccio un po’ di conversazione coi miei vicini, morti suicidi anche loro.
Vi sento già dire “Una congrega di suicidi, chissà che allegria…” e invece vi sbagliate. Forse perché siamo usciti dalla vita volontariamente, ma le nostre conversazioni sono piene di humor. Ci piace scherzare e sparare cazzate, anzi, uno degli ultimi acquisti, un esodato vittima dell’ultima riforma delle pensioni, è bravissimo a imitare i comici romagnoli come Cevoli e Giacobazzi e fa schiantare dal ridere la signorina Lisa e gli altri vicini che si sono suicidati nel secolo scorso e non hanno fatto in tempo a conoscerli. In cambio i defunti più vecchi raccontano leggende dei loro tempi, specialmente storie di fantasmi, che piacciono a tutti. Non abbiamo un gran rapporto coi defunti trapassati “in grazia di Dio”, che hanno lasciato il mondo dei vivi assai malvolentieri e ci considerano degli irriconoscenti, ma fa lo stesso. Li consideriamo dei poveri di spirito, sempre dietro a lamentarsi. Noi siamo ospitali e li abbiamo invitati tante volte alle partite a carte e ai reading letterari, ma ci siamo stancati di collezionare rifiuti e adesso non li chiamiamo nemmeno per la nostra festa di Halloween, che, vi giuro, è un evento imperdibile.
Della compagnia fanno parte anche lo zio Silas e la signora Lupescu (*). Non so spiegarvi esattamente chi sono, o che cosa sono, loro si mostrano abbastanza reticenti in materia, ma vi posso dire a cosa somigliano. Lo zio Silas sembra un gatto, o meglio, è talmente grosso che sembra un gattile. Sogghigna come il Gatto del Cheshire, di cui sostiene di essere un lontano parente, e si manifesta solo di notte perché – dice – la luce del giorno gli dà fastidio. Invece la signora Lupescu sembra un incrocio tra svariate razze canine, un fondo di pastore tedesco con un pizzico di dobermann e una spruzzata di rottweiler, incrociati con un vero lupo della steppa siberiana. La luce non le è dannosa ma il giorno le piace poco e se lo dorme quasi tutto, e nelle notti di luna piena non la vediamo mai. Quando torna dalle sue scorribande, si chiude in una vecchia cripta con lo zio Silas che l’aiuta a ripulirsi del sangue di cui, regolarmente, torna imbrattata come un porcellino, e ridono come matti sulle sue avventure. A noi poveri trapassati non raccontano mai niente, chissà perché.
Noi defunti abbiamo abitudini molto regolari. Di giorno dormiamo e quando cala il buio ci svegliamo, con lo spirito usciamo dalla tomba e ci ritroviamo per passare la notte insieme. Il buio ci piace, è protettivo, materno, mentre la luce diurna è cruda e cattiva. Non ci succede quasi mai di essere svegliati nel cuore del giorno, si deve trattare proprio di un’emergenza, e se capita abbiamo mal di testa fino alla notte successiva. Per questo, quando ho sentito bussare al coperchio della mia bara, ho esitato tanto a rispondere; non mi fido delle incursioni diurne, il giorno è il regno dei vivi e io di loro ne ho avuto abbastanza. Però i colpi erano insistenti e perentori, non si rassegnavano, e mi è toccato almeno chiedere chi è. Si trattava della signora Lupescu, agitatissima, accompagnata dallo zio Silas che per ripararsi dalla luce aveva scavato sotto terra ed era arrivato proprio sul mio coperchio. Era lui che lo stava quasi sfondando a pugni… Mi è toccato andar fuori a sentire cosa diavolo era successo, anche se ci sono poche cose che odio quanto l’uscire in pieno giorno dalla mia bara fresca e confortevole.
La signora Lupescu aveva in bocca qualcosa che sembrava un topo. Lo ha appoggiato ai miei piedi e mi ha fatto gli occhioni da canile. So che vi sembra difficile pensare che un incrocio tra le più feroci razze canine e un lupo della steppa siberiana possa far tenerezza, ma lei ci riesce, quando vuole: mi fa la faccia da orfana e io ci casco sempre. Ho preso in mano quella specie di roditore e ho visto che si trattava di un micetto, un cucciolo così malandato che sembrava vivo a malapena. Da sotto terra, lo zio Silas era andato in iperventilazione e mi pregava in tutte le lingue che conosce – e sono tante – di prendermi cura della creaturina. Era una femmina, un etto di pelo e pulci, con gli occhi talmente infiammati da sembrare due piaghe, e nemmeno più la voce per piangere. Purtroppo non era il primo cucciolo abbandonato al cimitero, però stavolta la signora Lupescu era riuscita a prendere il numero di targa dell’auto da cui la povera creaturina era stata scaraventata fuori. Ho detto agli amici che alla vendetta avremmo pensato dopo, con calma, ora bisognava salvare la piccina. Dall’altezza del sole ho capito che era mattina e forse facevo ancora in tempo a beccare Mario, il mio amico veterinario. Ogni giorno, prima di andare ad aprire lo studio, il mio ex compagno di liceo passava dal cimitero per pisciare sulla tomba dell’odiato padre, che a suo dire gli aveva rovinato la vita. Così, ogni volta che abbandonavano un cucciolo, io e la signora Lupescu aspettavamo Mario sulla tomba di famiglia e lui non mi deludeva mai: li visitava, se li portava in ambulatorio, li curava e trovava loro una famiglia.
Quella mattina però ho beccato il mio amico di umore, se possibile, ancora più nero. Quando ha visto la povera micetta si è messo a imprecare contro il mondo, maledicendo la crisi economica che portava tanta gente non solo a non curare più i proprio animali, ma ad abbandonarli direttamente sulla porta dell’ambulatorio, che era pieno di profughi e non c’era più posto neppure per un gattino così piccolo. Tutto quello che poteva fare per noi era portare cibo e medicine e insegnarci a curare la piccola orfana. Io in vita adoravo gli animali ed ero piuttosto brava come infermiera veterinaria, così in un paio di mesi di cure intensive, alimentazione adatta e tante coccole, con l’aiuto di Silas e della signora Lupescu siamo riusciti a rimettere in sesto la piccolina, che abbiamo chiamato Cleopatra perché era stata trovata lungo il viale delle tombe in stile egizio. Oh dio, Cleopatra era un po’ pretenzioso per un micino che pesava pochi etti, si decise di chiamarla Cleo finché non fosse diventata un gatto adulto.
In poco tempo la piccola Cleo è diventata la gioia e l’orgoglio del Reparto Suicidi. La sera saltavamo fuori dalle tombe tutti allegri come fringuelli, la coprivamo di baci e coccole, la facevamo giocare e curavamo la sua alimentazione. Le avevamo insegnato a stare nascosta il più possibile durante il giorno, perché anche il cimitero è mal frequentato, ci sono custodi e parenti in visita, tutta brutta gente, e la piccina passava il tempo dormendo in una cripta o cacciando le lucertole nascosta tra le siepi di confine. Lo zio Silas e la signora Lupescu avevano preso molto sul serio la sua educazione: Silas, memore della sua decantata parentela con l’antenato del Cheshire, cercava di insegnarle a fare il gatto, mentre la signora le insegnava gli elenchi. Questa degli elenchi è una mania tutta sua, ha una mente che è una specie di Enciclopedia delle Cose Inutili; racchiude informazioni di vitale importanza come le tecniche per fare sesso nello spazio, i cataloghi del Museo del Calzino e di quello delle Mestruazioni, chi ha inventato l’alitometro portatile che misura il livello di fetore del fiato e altre nozioni indispensabili come le regole fondamentali per diventare un travestito. Io e Silas non eravamo convinti che la nostra piccola Cleo migliorasse la sua cultura felina imparando quando i lapponi organizzano la tradizionale gara a chi ammazza più zanzare nel minor tempo possibile tra i boschi della tundra, oppure i nomi di tutte le città dell’Oklahoma in cui si celebra la Sagra della Pannocchia Gigante, ma ve la raccomando, una discussione con la signora Lupescu.
Per fortuna ogni tanto lo zio Silas alleggeriva l’atmosfera leggendo lunghi brani di romanzi russi, i suoi preferiti. Una sera stavamo sonnecchiando tutti insieme su Anna Karenina, quando Lisa, una delle suicide più giovani, ha notato un’automobile che parcheggiava sul prato dietro al cimitero. Non è una novità, le coppiette si appartano spesso nella nostra area tranquilla e mezza in rovina, ma la macchina aveva qualcosa di speciale. Lo stesso numero di targa di quella che aveva abbandonato la nostra Cleo. Tra la sorpresa generale, la signora Lupescu ha digitato un codice su un cellulare – noi nemmeno sapevamo che ne aveva uno – e in un attimo si sono materializzati un cane a tre teste e quattro figuri a dir poco originali. La nostra amica ce li ha presentati come vecchie conoscenze, ovvero i Quattro Cavalieri dell’Apocalisse e il loro cane Cerbero. I Cavalieri hanno salutato con estrema cortesia e hanno perfino baciato la mano alle signore. Morte era un individuo altissimo e, naturalmente, vestito di nero, con un elegante cappello a cilindro e un completo di velluto in stile new wave anni Ottanta. Guerra aveva capelli rossi, ricci e ispidi e vestiva in tuta mimetica, mentre Carestia era abbigliato in perfetto stile grunge anni Novanta. Pestilenza era un tantino eccessivo, dal nostro punto di vista, indossava laceri abiti da monatto manzoniano ed era ricoperto di croste, piaghe e bubboni. Morte si accorse del nostro sconcerto e ci spiegò che il ragazzo era un fanatico della sua professione e si portava il lavoro a casa, continuando a sperimentare su se stesso le nuove malattie che poi avrebbe sparso sulla Terra. Cerbero era il cucciolo più adorabile che si fosse mai visto e tutti i trapassati volevano grattargli la pancia e lanciargli un osso.
Le presentazioni si sono interrotte quando abbiamo visto la coppietta scendere dall’auto incriminata. Con mia grande sorpresa, li ho riconosciuti: erano miei ex colleghi, due di quelli che si erano attivamente impegnati a rendermi la vita impossibile, prima nel Palazzaccio in cui lavoravo, e poi nella vita in generale, quando la depressione mi aveva roso dal di dentro. Che erano amanti lo si sapeva anche quando ero viva, ma se mi fossi accorta prima che si imboscavano accanto alla mia tomba li avrei presi a calci. Lui, uno sgradevole capetto con un eczema sulla testa e il fisico da lanciatore di stuzzicadenti, si dirigeva verso il mio albero con una coperta in mano, e lei, una segretaria con la faccia da cavallo e il corpo da cammello, lo seguiva adorante. A me sono saliti subito alla testa i bollenti spiriti: non solo profanavano il mio sepolcro con le loro immonde attività erotiche, ma abbandonavano anche gli animali, crimine che per noi del cimitero è assolutamente e totalmente senza perdono. Entrambi erano sposati, anche se non tra di loro, e probabilmente uno dei due aveva ceduto ai capricci del figlioletto che voleva un gattino, ma non appena il pargolo, stronzo come i suoi genitori, si era stancato del giocattolo, avevano abbandonato la piccola Cleo come uno straccio vecchio. Morte e lo zio Silas si sono guardati negli occhi e hanno fatto un cenno a Cerbero, che si è allontanato in un lampo ed è tornato con due sacchi molto, ma molto grandi. Quando li hanno visti, Pestilenza e Carestia si sono illuminati di gioia e col silenzio tombale di cui le creature infernali sono capaci, si sono disposti ai due lati del terreno sul quale gli immondi individui stavano schifosamente copulando, lui col culo flaccido all’aria, lei con le ginocchia ossute che si dimenavano. Guerra invece si mostrava sdegnato perché avrebbe voluto terminarli col suo nuovo giocattolo, una pistola Makarov Odessa 9mm che gli avevano appena regalato i suoi amici della mafia russa, ma la proposta era stata bocciata.
Al segnale di Morte, Carestia e Pestilenza hanno aperto i due sacchi, dai quali è uscito un esercito di formiche carnivore giganti. Dopo un attimo di riflessione, lo sciame si è diretto verso i due scopatori. Timidamente, con cautela, le avanguardie si sono arrampicate sulla pianta del piede di lui, si sono aperte un varco lungo un polpaccio spelacchiato e si sono arrestate nell’incavo delle ginocchia. Una volta appurata la commestibilità, hanno dato il segnale all’esercito e in pochi minuti l’intera armata si è gettata all’arrembaggio, ricoprendoli come melassa in una formazione a tenaglia. All’inizio i due amanti hanno cercato di scacciare le formiche a manate, ma in brevissimo tempo ne sono stati completamente travolti. È stato bellissimo, ci sembrava di essere al cinema, qualcuno voleva i pop corn e la Coca Cola. I due stronzi hanno cominciato a dimenarsi in una macabra tarantella, nel tentativo di scrollarsi di dosso l’esercito delle formiche, ma le piccole e voraci creature in pochi minuti erano penetrate in ogni orifizio, comprese gole, occhi, orecchie e narici. La morte non è stata né rapida né indolore: le formiche hanno strappato la carne e il grasso lentamente, in modo metodico, scoprendo le ossa e gli organi interni finché è rimasto solo lo scheletro pulito e lucidato, ma solo dopo ore di contorsioni delle vittime sul terreno. La signora Lupescu ha anche filmato la scena col suo cellulare, così ogni tanto, nelle lunghe serate d’inverno, ce la guardiamo e ridiamo ancora come matti. Per finire in bellezza e non lasciare tracce, i Quattro Cavalieri, con la Morte al volante, hanno portato via l’automobile dei due fedifraghi, mentre Cerbero ha detto che gli era venuto appetito, così faceva due passi e poi andava a casa da solo.
Dei due amanti non si è saputo più nulla, gira la voce che siano scappati insieme. Soltanto un tizio che faceva jogging all’alba ha trovato delle ossa dietro a un cipresso e ha giurato di aver visto tre cagnacci inferociti precipitarsi in mezzo ai cespugli e poi trotterellare lungo il sentiero, verso la città. Gli unici che sapevano davvero come era andata non possono più raccontarlo a nessuno.
(*) un umile omaggio al sommo Neil Gaiman e al suo bellissimo “The Graveyard Book”
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