Mi sono barricato in casa. Unziip, unziip!
Volevo divellere i listoni del parquet e inchiodarli alle imposte, come se per le strade di Roma stessero cigolando i panzer dei nazisti (ipotesi sgradevole ma neanche troppo malvagia, considerando che dopo, forse, ci avrebbero liberato di nuovo gli americani). Unziip!
Avevo deciso di sbarrare la portafinestra sul balcone rovesciando il tavolo da pranzo di marmo. Volevo trascinare davanti alla porta d’ingresso il cassettone genovese con ribalta, che noi famiglia Tempesta chiamiamo da sempre “il pancione”, perché ha i cassetti in fuori coi tasselli in noce sconnessi e una zampa matta, assomiglia alla pancia di un commendatore uscito satollo da una trattoria, malfermo sulle gambe e coi bottoni del gilet che stanno per esplodere: Unziip!
Desideravo che la mia malinconia assumesse una posa plastica, da ostrica chiusa; la mia follia si assumesse finalmente le proprie responsabilità; la mia perla (ammesso che io ne contenga una) saltasse fuori dal ventre, cervello o conchiglia che dir si voglia. Unziip!
Ero stato al supermarket Conad e avevo fatto provviste per tre mesi. Profetizzavo un olocausto atomico? Unziip? Il presidente iraniano, Ahmadinejad, prima di partecipare ai lavori della Fao, aveva dichiarato: “Israele sarà cancellato dalle carte geografiche”. Ma io vivo a Roma e non sono ebreo. Lo sono solo letterariamente, ecco. “Orrori di Auschwitz” è stato il libro che mi sollecitò a leggere tutti gli altri. Lo scelsi dalla biblioteca di mio padre perché il titolo mi aveva fatto supporre cose da sporcaccioni: sataniche donnine nude dedite a piaceri orribili. Invece scoprii foto di bimbi scheletrici, nudi e riversi sopra letti a castello in camerate immonde, esili sagome di donne e uomini allucinati dietro il filo spinato, in pigiami a righe, gli occhi dei passeri prima di essere uccisi. Conoscevo quegli sguardi perché uccidevo i passerotti quando si posavano sui fili dei pali della luce nel giardino della nostra casa di campagna in Sardegna. Io mi appostavo dietro la palma del patio con una carabina Diana, e quando un passero si riposava sui cavi elettrici: unziip!
Cadevano con un toc sordo. L’erba li accoglieva in un palmo di terra con un fruscio materno. Li ripescavo con due dita, ne carezzavo le piume e il becco, li accatastavo su un muretto. Di fronte a quei bimbi morti in fila indiana provavo un senso di colpa trionfante ed ebbro. Ne avrò uccisi centinaia. Uno lo crocifissi da morto: inchiodai le ali alla palma del patio con due puntine da disegno. Ho commissionato ai passerotti centinaia di miei piccoli suicidi. Avevano ancora i corpicini caldi e gli occhi sbarrati dei bimbi ebrei. Da quando, a dodici anni, guardai gli orrori di Auschwitz, smisi di uccidere uccellini al posto mio e iniziai a leggere sotto la palma, prima solo l’estate, poi anche d’inverno. E un giorno scrissi anch’io. Unziip, unziip, unziip. Era bastato rievocare i loro ultimi cinguettii per trasformare una colpa in un mestiere.
Mi sono barricato in casa come se Roma fosse stata invasa dagli uccelli di Hitchcock. Ma non è questo il punto, come diceva mio padre. Trecento passerotti fulminati avevano attraversato il sardo mare, con le loro ali da bambini ebrei, e si erano posati sul mio davanzale di via Salaria per chiedermi il conto? Non è questo il punto. No, mio padre non si faceva mai inchiodare dalla logica risolutiva di un argomento, il suo era un monologo infinito a tema unico, la guarigione di se stesso, che non curava niente. “Il punto è un altro” diceva, e si ricominciava a indagare da capo. Così, per il solo piacere di angosciarsi, di farsi cullare da un’invincibile depressione o per un cortocircuito fatale, come quei genitori che si dimenticano i loro piccoli nelle auto sotto il sole rovente. Bambini che muoiono per un’imprecisione della memoria, una distrazione speculare al preciso piombino di un bambino crudele. Mi sono barricato in casa perché mi sento isolato come un oceano senza coste intorno. E non lavoro da un anno. Lo sai che, avanti di questo passo, «Finirai come un barbone alla Stazione Termini?». Sì, mamma, lo so. Parli coi morti, adesso? Questo lo vedremo, il punto è un altro: unziip.
Unziip. È stata questa la parola che mi ha fatto traboccare la coscienza. Perché non significava nulla come lacrime su una risata. E poi mi sono riempito la bocca di parole bislacche: di porfirios, rumamba, cicondìì, sgnaffete e sform! Improvvisamente, per fare pipì dovevo proclamare qualcosa in tedesco, non tedesco vero, tedesco mentale maccheronico, una roba tipo baldeneggher, allora sì che mi veniva il getto, altrimenti niente. Ma non potevo sussurrarlo, dovevo esclamarlo a voce alta e con tono imperativo: «Baldeneggher, shaffautz!», per esempio, solo così potevo fare pipì o nisba, condannato a contorcermi per ore. E un giorno mio figlio grande, Emanuele, passando davanti al bagno ha sentito bene e mi ha chiesto allarmato dietro la porta: «Che hai detto, papà? Balzeneggher?»
L’ho corretto: «No, Emanuele: Hans Baldeneggher, era il centravanti del Bayern Monaco nel 1969». Falso, era il mio omino della pipì, ma vaglielo a spiegare a un quindicenne che ha già un padre autore fallito e senza un euro, il fatto di esserti svegliato una mattina con un unziip sulle labbra.
Mio padre, al contrario, me lo confessò. «Sai, povero figlio mio, mi vengono parole sfilacciate, concetti senza senso, astruserie», disse. «Adesso, per esempio, mi è venuto Glogh». Mi guardò boccheggiante: «Glogh».
«Sembri una carpa in un acquario, anzi, un’otaria» dissi io.
«Questo succede a chi passa le giornate a letto!» gridò mia madre dall’altra stanza. Lui battè un piede: «E dàgli! Lo volete capire o no che non è colpa mia se sto a letto? Ve lo volete ficcare in testa che sono un depresso? Anzi, magari fossi ancora depresso! Perché il punto è un altro, povero figlio mio» sussurrò. «Credo di star diventando psicotico…».
«No, gli psicotici non lo credono di essere psicotici, lo sono e basta, tu stai diventando un’otaria a forza di rigirarti nelle lenzuola. E d’ora in poi ti soprannominerò Oty.»
«Tuo padre non è un’otaria, Giulio!» gridò la mamma.
Papà boccheggiò tranquillizzante e si mise a nuotare nelle lenzuola, a rallentatore, interpretando l’attrazione dell’acquario di famiglia. Io dissi: “Bravo, Oty, eccoti il mangime”, e lo sbaciucchiai due o tre volte sulle guance e sul naso. E mia madre dalla sua stanza concluse: «È la psicoanalisi che ha rovinato questa famiglia.». Perché mia madre bramava i mariti delle sue amiche, quelli tutti di un pezzo, i mariti che costruiscono cose utili, tipo palazzi e cavalcavia, non vanno a raccontare “i fattacci loro agli psicanalisti” e quando tornano a casa “sbattono le mogli sui tappeti” invece di far loro una “capa tanta” con “inconsci e super ii”.
Ecco, mi sono perso un’altra volta. Kaltusser evaring sgnàuz! Riesci a seguirmi, fratello? Scrollo la testa anch’io per quel “fratello”, non credere, sono postumi della mia generazione, tutta la robaccia americana con cui ci hanno rimpinzati nei cinema parrocchiali. Voglio rassicurarti (nella mia lingua-ombra direi alfhauser unziip glish) voglio rassicurarti, insisto, detesto gli autobiografismi, la ricordìte, i comeravamo e tutta la diariorrea in genere, sono parole con la testa rivolta all’indietro, memorie di mammà, narcisismi spocchiosi tranne che ci si chiami Garibaldi, Barack Obama o Sofia Loren, ma del tutto insignificanti se si è uno zero come noi, soprattutto adesso che in Italia abbiamo disperato bisogno di farci futuro, immersi come siamo in questa broda televisiva, rintontiti da sordide gesta di cronaca nera, mamme assassine e campi Rom in fiamme; per cui un uomo vero, sodo, un romanziere di quelli da matrimoni giusti come bramava mia madre, un ingegnere di pagine, dovrebbe edificare solidi ponti fra il lettore e il mondo, sbattergli sul tappeto una storia come si deve, altro che unziip e unziip, e possibilmente luminosa, perché di angoscia sono colmi i granai ma in quanto a spensieratezza siamo in carestia. Ti accorgi, invece, di cosa mi sta accadendo? Dico unziip, poi scrivo angawi, uno straccio di pensiero in italiano e subito mi scappano da scrivere pagine e pagine di bufferholder straticavitz ungheretter muntz. Ci sarà un motivo per tutto questo?
Riuscirà il mio piccolo unziip a scintillare anche dentro di te?
In ogni caso, ieri ho telefonato ai miei figli che vivono con la madre e ho annunziato ufficialmente che stavo partendo “per un lungo viaggio di lavoro”.
«Quale lavoro?» hanno chiesto Luciano ed Emanuele.
«Un reportage», mi sono inventato. Non sanno la parola. Ho spiegato: «Un’inchiesta, un servizio giornalistico, una cronaca a puntate, uno sceneggiato vero, insomma una storia lunga tratta dalla realtà, non il solito vado, intervisto e torno.»
«Sì ma dove vai, precisamente?» ha chiesto il piccolo.
«Forlì, Cuba, Bruxelles» ho risposto tanto per fare il vago.
«Ma quando torni?» si è preoccupato il grande.
«Un mese, massimo due, forse tre.»
«Allora dovrai lasciarci i soldi», questo l’hanno chiesto all’unisono. Sanno che siamo in crisi, per cui ho specificato che avrei messo in una busta “gli ultimi”, l’avrei lasciata nella loro buca delle lettere e avrebbero dovuto farseli bastare.
«Tanto quando torni ti pagano» ha osservato il minore.
«Ti pagano molto, pa’?» ha fantasticato il maggiore.
«Non moltissimo» e mi è sfuggito un singhiozzo.
Mi ascoltavano dal telefono in vivavoce: «Hai fatto un rutto?»
«No, lo sapete che papà non le fa queste cose.»
«Hai fatto un rutto! Hai fatto un rutto!» e Luci e Manu hanno intonato grugniti entusiastici di risposta. Allora ho dichiarato il falso:
«Va bene, un rutto, mi è scappato, ma adesso smettetela!». Cosa potevo fare? Ammettere che singhiozzavo? Contagiarli con parole dolenti? Confessare che sono un italiano spaesato? Vertiginosamente spaesato? Che non capisco più dove finisca la mia malinconia e dove incominci quella del mio Paese? Chi sta insozzando chi? Raccontare che i ricordi mi camminano dentro avanti e indietro, come esseri umani, e mi minacciano da passeri uccisi? Ma l’autobiografismo no, per favore no, scrittor Giulio Tempesta classe 1953. Autobiografismo Unziip!
Come faccio a dirvi che ho pianto, figlietti miei? Che questa crisi economica mi fa una fifa fottuta? Che piango alla vista di una bambina resuscitata dalle macerie del terremoto cinese, ma piango pure se rileggo la favola della “Mammadraga”, piango se due automobilisti furenti litigano per la strada, se ti ricordi di “Sussi e Biribissi”, se ripenso a Marina che si bucava di nascosto da me con una piccola siringa d’oro? E ora che gli racconto alla Casa Editrice? È l’ultimo contratto che mi resta, quelli si aspettano un thriller e mi presento con “Un anno da salice piangente”? «Non si vergogna, signor Giulio Tempesta?». Già, non ti vergogni di spiegare ai tuoi figli che sei un italiano funambolo che sopravvive in bilico sul capello che fa da ponte tra un unziip e uno straticavitz, mentre il Paese si interroga se sia saggio o folle fare il Ponte di Messina? «Ma che dici, papà? Che cos’è uno straticavitz?» avreste giustamente protestato. E io avrei risposto (ma non posso, non posso permettermelo): «Perché fate quelle facce attonite, topini miei, che cosa sono diventati la fedeltà, il dovere, lo stile, la coerenza ai propri ideali? Preferireste li avessi chiamati brickenbauer? E l’antirazzismo? L’onestà? Voi come la chiamereste la sacralità della vita? Non vi sta bene Unziip? Ribattezzatelo. Un qualunque valore, purché qualcosa che non sia usa e getta, okay? Ribatezzatelo. Ci sarà pure un verso che vi farà tremare i polsi! “È venuta un’estranea a spartire la mia stanza nella casa lunatica, una ragazza folle come gli uccelli…” Ma in questo cazzo di quartiere non c’è una monocamera con un nuovo Dylan Thomas dentro?
D’accordo, la pianto, bruciamo i campi ai nomadi col napalm, falciamo pure sulle strisce -ebbri di alcool e coca- i passanti, facciamoci governare da questi bottegai del consenso, ubbidiamo a ogni principio del piacere, strozziamo una vecchia per scipparle la pensione e spariamocela in branco da MacDonald’s e poi mandiamo tutti i poeti sulla sedia elettrica, ammesso che ne sia rimasto uno, ma ci basterà, dite? Rimuoveremo tutta l’arte, la gentilezza, il bello dalla coscienza di questo Paese? E se invece così non fosse? Se un grumo di vergogna, uno solo, un grammo di pudore, uno scampolo d’umanità un giorno saltasse fuori dalle tenebre del Dna -non pretendo con un verso immortale, un Mozart, o una perturbante consolazione d’amore- io mi accontenterei di un banalissimo straticavitz, e allora? Che cosa ne sarebbe di noi, quel giorno? Basta un unziip fuori posto, credetemi, una boccaccia, un cenno da carpa, una smorfia, un cancro o un amore finito, qualunque cosa ci ricordi, col ceffone di una bizzarria, con un guizzo folle, col ditone puntato di Dio, che un tempo eravamo uomini…». No, no, io sono l’ultima risata di un pazzo, mi chiedereste se ho bevuto e cosa, per attaccarvi al collo della stessa bottiglia. Farei altro danno, scandalo, tramanderei un’ignominia nel sangue, un germe assurdo, per cui è preferibile barricarsi in casa e lasciarvi davanti alla tele di vostra madre. E se mi limitassi a un: «Ehi, lo sapete che la sola Via Lattea è costellata da centinaia di miliardi di stelle? Vi piacerebbe trovare un nuovo amico su una stella? Magari una ragazzetta bionda vestita con carta di presepio? Be’, affrettatevi allora, perché la più vicina, a parte il Sole, si chiama Alfa Centauri e si trova a 40.850 miliardi di chilometri da noi. Avete capito bene la cifra? Immaginatevela in euro di cose da comprare, adesso fate la conversione in moneta sonante dell’Universo: 40.850 miliardi di chilometri d’amore per sfuggire dalla nostra cosmica solitudine. No? Non siete soli? Unziip. Ne riparleremo quando boccheggerete in un call-center. O a fare gli inchini in giacca bianca nel ristorante di un ricco coreano. Mi avete sentito, ragazzi? Ali in spalla, op-op, muoviamoci! Si parte per Alfa Centauri! Ehi? Ma di che stanno cianciando alla tele? Io, sulla circostanza che siamo un puntino di una miliardesima galassia, ci aprirei e chiuderei tutte le edizioni dei telegiornali dal mattino alla sera.» Dev’essere proprio per questo che non mi hanno mai nominato direttore.
Nessuno può ascoltarti, nessuno può leggerti, piangi e taci, italiano spaesato. Qui tutti volano basso e in formazione già da piccoli. Ne faresti solo degli schizzati, e comunque non ti hanno sentito perché tengono il volume pigiato a tavoletta come quello del motorino. Ti sei dimenticato che anche tu avevi la marmitta sfondata sull’Aspes Cross Special? Che strombazzavi con quel rumore lacerante? Ricordi che cosa disse il tuo primo psicanalista sentendoti arrivare? «Se sei rimasto ancora alla fase anale devi farlo sapere a tutta Roma?».
No, no, il prossimo che mi dica “Vatti a fare una passeggiata col cane a Villa Borghese” gli sparo, io mi chiudo in casa e non apro a nessuno. Magari non divellerò i listoni del parquet, non agirò i miei unziip, non mi sbraccerò dalla finestra gridando “Britzenburder!”, mi manterrò a un millimetro dalla pazzia conclamata, non inchioderò le imposte, terrò “il pancione” di noce divelto al suo posto e non rovescerò il tavolo di marmo davanti alla portafinestra del terrazzo. Va bene? Non bestemmierò, ve lo prometto, e se saranno così stralunati da offrirmi ancora di scrivere un programma alla Radio o alla Tv, tratterrò la lingua in gola e non farò linguacce ai produttori dell’universo. Mi sottometterò, dopo. Allo stato, purtroppo, non è bastato un anno di disoccupazione e disamore. L’isolamento è ancora troppo poco, prima devo seppellirmi vivo, senz’enfasi.
Lasciate che gli unziip seppelliscano i loro unziip.
Questo dovevo dirvi, forse. Vostro padre era un albero di natale illuminato, ma un sabotatore anonimo, un Bin Laden mentale, ha spento gli ornamenti, prima le palline rosse, quindi le gialle, poi le blu, infine il gran puntale d’argento: la stella cometa. «Chi ci ha rubato il Natale?». Sempre io, temo, ragazzi. Mi spiace, non ho più doni. Dovrete accendervela da soli la Terra. Almeno fin quando non acciufferò un terrorista di luci credibile.
Riuscirò a scoprire la vittima e il danno preciso, a snidare il colpevole e il movente di questa magnifica insignificanza della mia vita? Potrò essere redento senza fede? Saprò cauterizzare con la punta di un dito l’antica piaga, miracolare il punto esatto dell’orizzonte in cui sorge il sole nero, la ferita sfavillante, il buio muto che nessuno strillo di telegiornale potrà mai raccontarci e illuminare? Ti interesserà, amico che leggi? Guarirai anche tu dal tuo guasto acerbo? Per te sarò la notte dei cristalli e il giorno della memoria. Comprendi? Costringerò il non detto, l’Innominabile Assente, a tuffarsi nel flusso e a riaffiorare dal gorgo, come trecento passerotti su un muro di campagna o un bimbo stregato dagli occhi di un coetaneo ebreo, nelle pagine di un libro che generò centinaia di altri libri. Pregherò la sua piccola mano sacra e tutte le nostre mani perdute, le invocherò di cercarmi nel buio, a tentoni, anche le strangolatrici: «Che tutte le mani nemiche mi ghermiscano pure!» sì, mi arrendo. Tu che pensi di fare? Resistere sarebbe pericoloso e inutile. Quelle sono le mani tese della scarnificata gente che ospitiamo dentro. Continuare a espellerli non ci salverà. Sono i nostri clandestini che gridano “Pane!” e “Vita!”. Migliaia di mani dolci e di artigli che fluttuano nel buio, le sante e le marce, le profumate e le laide, le vive e le morte, con tutta la paura sopra, il panico del mondo addosso, perché non sai, non sappiamo, e non dobbiamo saperlo, se sarà la mano del nostro assassino a trovarci, la carezza della nostra vittima, o la stessa cosa.
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