Il sentiero

sentieroAvevo sette anni, era una sera di giugno e percorrevo da sola il sentiero sterrato che, attraverso un campo di erba medica, univa il fondo della nostra strada con lo sbocco della via di fronte. Noi bambini lo usavamo come scorciatoia per andare a scuola o semplicemente per giocare in mezzo all’erba. Il proprietario del terreno non voleva che passassimo di lì e cercava sempre di impedircelo, ci urlava dietro e ci spruzzava con la canna, poi cominciò anche ad aizzarci contro i cani, ma nemmeno quelli ci fermavano: era solo una sfida in più per esercitare la nostra astuzia e divertirci a superare gli ostacoli, in equilibrio tra un albero caduto e una carcassa arrugginita di automobile.

Si avvicinava il tramonto, io camminavo in direzione del sole e ricordo che lo studiavo chiedendomi perché, quando era così basso, riuscivo a fissarlo senza che mi ferisse gli occhi. A un tratto colsi un movimento, mi fermai, girai lo sguardo e per un attimo fui come accecata. Quando la vista mi si schiarì, vidi una donna. Una donna come non ne avevo mai viste, nemmeno in sogno. Giovane, alta, con i lineamenti delicati e la pelle chiara. I capelli erano biondi come il grano, folti e lisci, lunghi fino alla vita, senza un taglio particolare, e attirarono la mia attenzione. Eravamo nei primi anni Sessanta e andavano di moda i capelli corti e cotonati: non avevo mai visto una donna adulta con i capelli sciolti. Anche gli abiti erano strani, indossava una lunga tunica bianca ricamata in argento, ma la sua caratteristica più stupefacente erano gli occhi, color del ghiaccio, di un azzurro molto pallido dai riflessi dorati, come quelli di un lupo.

wolf eyes

 

Mi fermai a guardarla perché mi incuriosiva e la trovavo molto bella. Anche lei mi guardava. Non discretamente, come fanno gli adulti quando sono interessati a qualcosa, ma apertamente, come si guardano i bambini fra loro. Aveva un’espressione stupita, come se fosse sorpresa di incontrarmi sul sentiero che attraversava il campo di erba medica quanto lo ero io di avere incontrato lei. Restammo lì, perplesse, poi mi voltò le spalle e si diresse verso il confine del campo, una macchia di sterpi e alberi coperti di edera, nella quale noi bambini avevamo la proibizione più assoluta di mettere piede. Le mamme dicevano che in quella specie di boschetto si annidavano le streghe, e i babbi aggiungevano che se anche qualcuno fosse sfuggito alle loro grinfie, avrebbe poi dovuto fare i conti con la cinghia dei pantaloni.

 

top of the hillLa donna si diresse proprio verso la macchia. Non mi chiesi che cosa facesse o dove andasse, sapevo solo che mi stava sfuggendo e invece volevo seguirla. Entrai con lei nella sterpaglia, in mezzo agli alberi, senza riflettere sui pericoli e sulle punizioni. Ed ecco che all’improvviso ci trovammo in cima a una collina, su una sporgenza di roccia bianca. A valle si stendeva una foresta di abeti. In lontananza l’orizzonte era chiuso da alte montagne, ma sotto di noi pareva che il vento increspasse un oceano verde.

Mi resi conto di adorare quella donna di cui percepivo le emozioni, calde e accoglienti. Per me era affascinante e irresistibile, mi piaceva e volevo stare con lei. La supplicai di non rimandarmi a casa dai miei genitori e incredibilmente lei disse di sì. Camminammo a lungo verso la foresta fino al suo villaggio, dove mi affidò a una famiglia. Erano in sei, i genitori, che chiamavano Ma e Pa, e quattro figli maschi. Avevano moltissimi animali, un cane grosso che stava fuori, uno piccolo che stava in casa, e poi mucche, conigli, anatre, qualche criceto e un pappagallino. Uno dei ragazzi aveva una biscia e un altro dei camaleonti. E poi c’era un folto e rumoroso gruppo di gatti da cortile, sui quali mi buttai, affamata di coccole. Adoravo i gatti, ma i miei, purtroppo, non li amavano, e non me ne facevano tenere nemmeno uno.

casaLa casa era meravigliosa. Era vecchia e costruita con assi di legno, forse un po’ male in arnese per il gusto degli adulti, ma un paradiso per un bambino. Era grande e spaziosa, con i pavimenti che scricchiolavano e una balaustra delle scale sulla quale si poteva scivolare proprio come nei film. Ma il posto migliore era la camera che mi fu assegnata. I maschi dividevano le stanze a due a due, e siccome non ne restava una per me, mi sistemarono in soffitta. Nella maggior parte del locale non si riusciva a stare in piedi diritti, c’era una sola finestrella nel frontone in fondo e per aprirla bisognava spingerla in fuori e bloccarla con un fermo, ma a me sembrava la stanza più bella del mondo. Lì c’erano tutte le cose che una bambina poteva sognare: carta da disegno, matite colorate, libri e fumetti. Pa aveva fabbricato una libreria e ricavato una scrivania da una vecchia porta, e c’era perfino una sedia a dondolo in vimini su cui rannicchiarsi a leggere con i gatti sulle ginocchia.

Quando mi chiamarono per cena, a tavola trovai pollo arrosto con patate al forno, e un’allegria contagiosa. Dopo aver spazzato tutto il cibo come lupetti, Ma ci servì una torta di mele ricoperta di gelato e poi ci fece rigovernare la cucina, tra gli scherzi e le risate. Finito il nostro lavoro, giocai a nascondino con i miei nuovi fratelli finché il sonno mi colse in piedi e Ma dovette portarmi a dormire in braccio. Feci solo in tempo a sentire il suo bacio della buonanotte e la promessa di farmi mungere le mucche, la mattina dopo. Mi addormentai felice perché la Signora Magica mi aveva donato la Famiglia dei miei sogni.

 

crime sceneI poliziotti circondarono la macchia di sterpi col nastro giallo e allontanarono con decisione i curiosi. “Andate via”, dicevano. “Non è un bello spettacolo da vedere”. Gli uomini della scientifica stavano chiudendo in un sacco di plastica il povero corpicino seviziato e il commissario cercò tra la gente qualcuno che lo portasse dai genitori della bambina. La madre era in stato catatonico e al di là di ogni possibilità di dialogo, ma il padre era in piedi davanti a casa.

“Purtroppo è meglio che non la vediate più. Per il riconoscimento ufficiale non è necessario che torniate domani all’obitorio, chiuderemo noi con tutte le formalità. Solo una cosa: perché non ci avete mai chiamato per le minacce di quel vicino? Sì, quello coi cani.”.

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