di Maria Cristina Impagnatiello
Osservo paesaggi scorrere dal finestrino del treno, macchie informi che si fondono l’una nell’altra, come in un quadro impressionista. Solo la luna, in alto, sulla destra, sembra immobile nel suo pallore malato. E come lei il mio riflesso, trasparente nel vetro usurato, rimane fisso ad osservarmi con i suoi occhi distanti, vuoti, senz’anima. Allungo una mano a sfiorarne i lineamenti, ma è solo un contatto freddo, scostato.
Era il mio riflesso quello sul fiume che scorreva lento e incostante, e che con i sassi cercavo di cancellare, deformare; sento dei passi in lontananza calpestare la terra ancora umida di pioggia, ma so che non si fermeranno. Nessuno si fermerà più per me, se non quando sarò anch’io parte di questa terra, e l’acqua del cielo mi bagnerà, e i fiori pianteranno radici tra le mie ossa sbiadite, sdrucite. È il tuo respiro che mi manca. Ma sono sola in riva al fiume e sul sedile di questo treno. Ho il vuoto intorno e dentro, a separarli solo un involucro fatto di carne e nervi, l’ultimo ostacolo al nulla.
Le immagini gradualmente si fanno più nitide, il treno rallenta, giunge in una stazione. È la mia fermata. Mi illudo di scorgerti tra la gente ferma ad aspettare; mani tese a raccogliere valigie cariche di vita; io che non ho bagagli, non ho nemmeno nessuno ad accoglierli, solo il grigio sporco dell’asfalto e gli occhi biliari di un piccione di passaggio.
Mi lascio trascinare dalle mie gambe, loro sanno dove andare, dove condurmi.
Le strade scivolano come in una vecchia pellicola usurata, indecise se lasciare un ricordo di sé o se dissolversi silenziosamente bruciate dal fuoco, accartocciate. Sono fiamme quelle che si accendono al mio passaggio, e che invadono case e vie e negozi. È la mia anima incendiata, irrompe circonda e distrugge.
Comincia a piovere. Mi stringo nel mio lungo cappotto consumato; la pioggia mi trafigge, penetra e diffonde il suo gelo in una spirale di ghiaccio, incostante. Sono fredda carne che scorre nelle strade illuminate da un incendio mai domato. Raccolgo fiori spenti, agonizzanti, attaccati al bordo di un marciapiede, carichi di acqua prima che vengano bruciati. Li porto via con me.
Ho solo il ricordo del tuo fiato caldo sul mio collo, delle tue parole che odoravano di legna bagnata, del tuo corpo pesante, avvolgente, e del respiro tagliato, spezzato; la notte sparì all’improvviso e con essa la luna.
Cammino, arrivo, mi fermo. La pioggia è finita, solo le foglie degli alberi distillano le ultime gocce edulcorate.
Il rintocco di una campana. Una ad una le tombe vengono illuminate dai raggi del sole, ansiosi di emergere dalle pesanti nuvole. Poi scende l’ombra, il vento si fa più insistente e rumoroso, ed è come se mi trovassi seduta di fronte alla mia tomba, un unico fiore di plastica agonizzante nel vaso di ferro battuto.
Nessuno si ricorderà di me. Donne che piangono lacrime di stelle.
Sono di fronte alla mia tomba.
Eppure, non sono più io. Il mio involucro è scomparso. Solo vuoto nel vuoto, è tutto ciò che resta. È calore ciò che sento? È la luce che si diffonde? O forse solo il ricordo di essa. Adagio i miei fiori ancora umidi a coprire il mio nome.
Aspetto che il vento mi trascini e si porti via il mio vuoto.
Aspetto qualcosa che non so definire ma che sta per accadere.
Aspetto, qualcosa succederà.
Editing by Maria Montefrancesco
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