di Enzo Buscemi
Quanto di seguito è tratto da un blocchetto pieno di appunti che, stranamente, non ricordo di aver mai compilato. Eppure, è stato scritto da me e racconta, in maniera oltremodo minuziosa, una vicenda che mi affascina, anche se non sono mai riuscito ad accettarla come realmente vissuta. Tanti sono i fatti sicuramente inspiegabili che vi si descrivono.
Una sorta di mistero del quale non potrei né accettare né negare la paternità. Mi auguro che un giorno o l’altro riuscirò a trovarne traccia nella mia memoria.
Partirei con le stesse parole del manoscritto che, per motivi ovvi, sono stato costretto a condensare, sfrondandolo dei tratti non essenziali per l’economia della storia.
Teneva il foglio tra l’indice e il pollice. Ma più che stringerlo lo accarezzava, come se in qualche modo temesse di fargli male. E guardava con amore il bianco della carta e l’inchiostro dei caratteri che ne turbavano il candore. Non leggeva quanto qualcuno vi aveva scritto. Non la interessava quella sorta di adulterazione del suo tesoro che, alla fine, era comunque da accettare perché faceva parte della vita di un comune foglio di carta.
E infatti, la carta, da sempre era stata passione dominante della sua vita.
Faceva in modo di raccattare tutta quella che, nell’ufficio nel quale lavorava da quasi trent’anni, sarebbe stata destinata al macero.
Puntigliosamente girava tra i tavoli, vuotava i cestini, ammonticchiava in polverose cataste i giornali, le riviste, e tutti i coloratissimi inserti di ogni quotidiano. Più che la stampa, però, la intrigavano i fogli già usati per scrivere.
E la sua raccolta senza posa arrivava a una sorta di catalogazione numerata. Negli scatoloni che le servivano per riporla, metteva un foglio dopo l’altro in bell’ordine. Contandoli, annotava sull’ultimo, riposto alla fine di ogni giorno, il numero progressivo del reperto.
Età sui cinquanta. Ma per la verità, le sue primavere erano piuttosto difficili da valutare. Né alta né bassa, abbastanza in carne ma senza, visivamente, dimostrarlo di primo acchito.
Guardava il prossimo al di sopra delle sue lenti sostenute da una montatura di foggia non molto recente. Capelli normalmente di colore indefinibile, ma spesso di un acceso rosso ‘Tiziano’ non riuscivano, come il resto del suo corpo a lasciare traccia nella memoria di chi la osservasse, seppure con l’intenzione di ricordarne la fisionomia.
Incedeva quasi saltellando. E spesso, parlava con sé stessa. Sempre a voce alta. Nel suo lavoro, sembrava attivissima e veloce. In realtà impiegava molto più tempo di quanto avrebbe dovuto, ma riusciva a dare la sensazione di fare ogni cosa con grande sollecitudine. Facile alle ire, sia pure veniali, che però culminavano in crude ripicche ai danni dei colleghi d’ufficio. E sudava, sicuramente sudava molto, anche se dai suoi abiti non traspariva alcuna umidità. La sua reazione al calore, ma comunque all’attività fisica, si rivelava invece dall’odore, acre, pungente, che avvolgeva, fino alla sofferenza, chi le stesse intorno.
E ugualmente, certo ignara del suo afrore, si ostinava a serrare le imposte e ad evitare il refrigerio del condizionatore, adducendo un onnipresente quanto ipotetico raffreddore. Ma il presunto problema non era stagionale. Continuava, forse con più inquietante presenza, anche nei mesi invernali.
Nell’ufficio, le ipotesi sulle cause di questa fastidiosa condizione erano disparate. Chi attribuiva la disgustosa emanazione all’elevarsi della temperatura con l’arrivo dell’estate, era implacabilmente smentito dalla magnitudo della manifestazione, presente già dall’arrivo dei freddi autunnali.
Così, nella maggior parte, era nata una sorta di fatale rassegnazione, e ognuno cercava di procurarsi un adattamento olfattivo, indispensabile a sopravvivere senza vomitare.
Qualcuno presente in quell’ufficio da decenni, aveva raggiunto lo scopo. Altri, meno votati al martirio, inventavano i pretesti più impensati per far ruotare le grandi bussole di vetro agli infissi, alla ricerca di aria pulita anche quando fioccava la neve. Ma la riuscita della manovra era spesso frustrata dagli interventi della nostra protagonista che investiva i malcapitati con una serie infinita di mugugni e proteste, in parte giustificati dalla presunta ignoranza della sua peculiarità, tutt’altro che fragrante.
Ma torniamo alla carta. Nessuno, per quanto investito del compito dal resto della ciurma, era mai riuscito a penetrare nel segreto del dopo ufficio, della donna. Non sapevano altro della sua abitazione se non quello che lei stessa raccontava. E confidava, poco, molto poco. O quasi nulla.
Si era appreso dopo discorsi artatamente intriganti, e partendo dalla certezza che la donna si muovesse con i mezzi pubblici, di una sua avversione per le automobili. Da questo, tirando in ballo gli alti costi degli appartamenti e la difficoltà a trovare un parcheggio, qualcuno più malizioso aveva, invece, appurato che la nostra protagonista disponeva addirittura di un ampio garage. Ma non vi ospitava alcun veicolo.
Altre indagini fecero scoprire o, meglio ancora, intuire (perché basate su faticose ricuciture di mezze frasi dette e non dette, dall’indagata), che il garage fosse un grande ricettacolo di carta. Ma era possibile che la donna ‘percosìddire’, si portasse il lavoro a casa?
Appurarlo, diventò punto d’orgoglio per una giovane impiegata che, avendo pochi impegni domestici e un compiacente fidanzato munito di scooter assunse, detto, fatto, la veste di investigatrice e cominciò un accurato pedinamento.
Dimenticavo che, fino a questo punto, il rapporto dal quale ho tratto questa memoria, non faceva cenno alla località teatro della vicenda. Negli appunti della improvvisata emula di Dick Tracy, solo dopo la dichiarazione ufficiale d’indagine si accennò che la città era Torino, e che l’azienda, della quale la donna della carta era dipendente, faceva capo a un importante ente finanziario, parastatale, che di carta ne consumava molta e ne sprecava ancora di più.
E l’ordine di organizzarne la raccolta di riciclo, seppure programmato ufficialmente a Roma da una decina d’anni, non era mai uscito dall’ufficio competente. Così, le imprese di pulimento degli enormi stabilimenti della capitale gestivano la raccolta della carta a loro piacimento.
Perdonate la digressione, e riprendiamo il manoscritto.
L’investigatrice e il suo ragazzo continuarono, quasi a tempo pieno, a seguire la Nostra.
La seguivano nei suoi ritorni a casa, con le grandi borse piene della carta che aveva selezionato, da quella raccolta in ufficio. Borse e borse, un giorno dopo l’altro, inghiottite dal cancelletto nero che apriva il viale d’ingresso della villetta della donna.
La casa sorgeva su uno spiazzo che avrebbe potuto essere un giardino. E invece, era desolatamente spoglio.
Senza un filo d’erba.
“Incredibile” aveva pensato la ragazza mentre le veniva la pelle d’oca. Niente di terrestre. Un suolo lunare, come drasticamente diserbato da una mostruosa campana che ne avesse aspirato ogni molecola di ossigeno.
Dal vialetto, delineato da manciate di pietrisco, si arrivava a tre scalini che facevano da base a un portoncino incolore, dove la bugnatura era solo disegnata con nastri di carta. Quelli usati dai verniciatori per proteggere certi particolari del fondo, dagli spruzzi del colore.
La donna, ad ogni suo rientro, ripeteva le identiche operazioni. Davanti al cancello deponeva le borse sul marciapiedi, poi si avvicinava alla cassetta della posta sistemata in cima a un paletto, e piegava il capo da un lato per guardarci dentro. Ma, da quando la giovane detective la pedinava, non vi aveva trovato nemmeno una cartolina. Per questo, non dovendo usare le mani per aprirla, avrebbe potuto comunque guardare dentro la cassetta, come in effetti faceva, senza deporre le borse. Ma il rito era evidentemente irrinunciabile.
Il percorso lungo lo squallido viale era sempre rapidissimo. Altra deposizione delle borse, poi una sorta di funzione di sbloccaggio delle quattro serrature di sicurezza, ognuna chiusa con circa quattro mandate.
Raccattate le borse, la donna scompariva dietro il portoncino che richiudeva immediatamente, senza lasciare intravedere alcunché dell’interno.
L’investigatrice per diversi giorni tenne testa alla curiosità. Poi cedette.
In assenza della donna, aiutata dal suo ragazzo, superò la bassa staccionata, e prese a girare intorno alla casa per scoprire un qualsiasi varco che le permettesse di entrarvi. Sembrava una cassaforte con quasi tutte le finestre sbarrate da serrande metalliche. Sul retro scoprirono l’ingresso di un garage. Una specie di box, in fondo a una rampa che per oltre un metro scendeva sotto il livello del terreno.
La porta, una vecchia basculante, sembrava anch’essa bloccata. Il ragazzo della detective provò, senza alcuna convinzione, a spingerne la parte superiore verso l’alto e restò sorpreso sentendo che cedeva. Spinse ancora, e la base della porta si staccò dal suolo. Il giovane esclamò di soddisfazione e tornò allo scooter. Sganciò la lunga catena antifurto dalla ruota e tornò trionfante dalla fidanzatina.
Insieme infilarono la grossa maglia che serviva a ricevere il lucchetto, nel gancio sulla base della porta che non era, chissà perché, fissato alla sua sede sul cemento. Si scambiarono uno sguardo d’intesa per sincronizzare gli sforzi, e tirarono.
La basculante si sollevò senza nemmeno cigolare, e scoprì il tesoro.
Il garage, piuttosto capace, era pieno di carta. Una enorme quantità stipata, pressata, legata con puntiglio meticoloso. Fino al soffitto.
Unica possibilità per attraversare la muraglia, incunearsi in una crepa angusta ricavata nel lato sinistro della diga.
I giovani si interrogarono con lo sguardo, e furono tacitamente d’accordo.
La ragazza partì di scatto verso la fenditura. Ma lui la scansò, ed entrò per primo, mettendo avanti il braccio e la spalla sinistri. Lo spazio era talmente ridotto che la camicia del giovane si tese sino a lacerarsi, rumorosamente. La ragazza soffocò un grido, ma non rinunciò, pur appiattendosi dolorosamente il seno, a infilarsi nel varco.
Faticarono parecchio per guadagnare una piccola porta metallica sullo sfondo.
“Oddio e se fosse chiusa?” ansimò la ragazza.
Non dovette aspettare molto un entusiasta “Cavolo, è aperta” del suo uomo, che aveva già la mano sulla maniglia.
La porta si aprì silenziosamente su una scala. Trovarono un interruttore che diede vita a una lampada, misera, ma ugualmente di gran conforto per i due clandestini.
L’uomo si liberò dalla stretta della carta, e aiutò la ragazza a imitarlo, salvandole la maglietta da uno strappo sicuro.
Salirono tenendosi per mano. Non fecero caso alle pile di vecchi giornali stipati su ogni scalino, e agli altri incollati su pareti e soffitto, che tappezzavano il solito varco, angusto, lungo la scala.
Emersero, faticosamente, in un ambiente che all’origine forse era stato spazioso. Ora il particolare arredamento ne occupava la maggior parte.
Trasecolarono. Tutto era di carta.
Una specie di sofà correva lungo il perimetro, sino a una cinquantina di centimetri dal suolo. Era fatto con vecchie riviste, ma certo scelte con cura, poiché dello stesso formato. L’accumulo sembrava pressato da una macchina, tanto era consistente.
I mobili, meglio chiamarli così, per intenderci, erano ovviamente di carta. Blocchi di fascicoli reggevano un piano di cartone a formare un tavolo molto grande.
In certi punti delle pareti, il sofà cartaceo faceva da primo supporto a qualcosa che somigliava a mensole. Tutte sostenute da scatole di cartone, certo piene di altra carta, per guadagnare maggiore consistenza.
Regnava, su tutto, un pesante odore di polvere misto a quello più acre degli inchiostri.
I giovani non riuscivano a dire una sola parola e il loro dialogo continuò a sguardi. In preda a un’ansia crescente, si diressero verso quella che scoprirono come camera da letto.
Incredibile. Il letto nasceva da una insolita testata. Chissà come, la padrona di casa era riuscita a farsi recapitare una piccola bobina di carta tipografica che lei, di certo srotolava, a seconda delle esigenze.
Come fosse l’origine di un ‘rullo lenzuolo’, praticamente senza fine, la larga striscia di carta si adagiava su un supporto consistente, fatto con le solite scatole piene di riviste e di quotidiani.
Il materasso faceva supporre una rumorosa morbidezza, grazie a una miriade di fogli appallottolati, che supplivano l’imbottitura.
Una pila di riviste, scelte in modo da creare un gioco ricorrente di colori, faceva da comodino a reggere una lampada nata dal contenitore cilindrico di qualche affiche, ma con un paralume giapponese di carta di riso.
Gli abiti e la biancheria trovavano ospitalità in una specie di comò ricavato da tanti scatoloni sovrapposti, in allineamento perfetto.
Intorno non c’era nulla che non fosse di carta, tranne la lampadina, s’intende, e il telefono, di vecchio modello, ricoperto da una fodera di cartoncino traforato per farlo somigliare, il più possibile, a un merletto.
Gli intrusi continuavano a guardarsi senza parlare. La ragazza diventò ardita e prese a girare per la camera infilando le mani nei cassetti di cartone, nella biancheria. Strana. Sembrava presa dagli scaffali di un grande magazzino degli Anni Cinquanta, e ne rievocava la tristezza.
Il resto dell’appartamento era in tema. Anche se concedeva qualcosa di diverso alle esigenze logistiche.
Così la stanza da bagno, a parte i rivestimenti in carta (presumibilmente sostituiti continuamente) degli apparecchi sanitari, era abbastanza normale, ma vi si respirava, a fatica, la stessa aria pesante del resto della casa.
Quasi inesistente la cucina. Il suo arredamento, ultraessenziale, faceva intuire che la padrona di casa non amasse certo preparare ricette elaborate. Il piano dei fornelli era, infatti, sepolto da una massa di quotidiani ingialliti.
Il ragazzo lesse la data di quello in superficie “23 dicembre 1993”, lo sollevò per controllare altre copie che stavano sotto: erano datate uno, due tre quattro giorni precedenti. Stavano lì da sei anni. Da allora nessuno aveva acceso alcuno di quei fornelli.
Il giro d’ispezione si concluse rapidamente, ma i due avevano in mente ben altro. Soprattutto la ragazza che si mise a studiare la grande finestra che stava davanti all’inconsueto letto.
Ne scostò le tende, ricavate, chiaramente, dalla stessa bobina che faceva da lenzuolo senza fine. Ed ebbe un’idea.
La finestra di quella camera, unica protetta da grosse sbarre di ferro, non era schermata da serrande. Così la giovane armeggiò a lungo sulle tende, o meglio ancora, sui loro supporti. Nient’altro che strisce di cartone fissate all’intonaco con chiodi a testa larga e grosse punte da disegno. Il ragazzo dapprima non si rese conto dello scopo dell’operazione. Poi intuì.
L’emula di Dick Tracy aveva risistemato i grandi fogli di carta che servivano da tende, in modo da allargare il varco di luce già esistente e facilitare la visione a chi si piazzasse a guardare, anche dall’esterno.
L’investigatrice provò a mettersi a ridosso delle imposte e, finalmente, concluse il periodo del silenzio con un grugnito di soddisfazione.
“Non so di che genere, ma ti prometto uno spettacolo di prim’ordine” disse al suo uomo, “e stasera torneremo là fuori. Adesso andiamo”.
Si avviò verso il soggiorno. Proteggendosi il seno con un braccio, s’imbucò nello stretto camminamento, e scese, strusciando nella carta, giù per le scale.
Tornarono allo scooter, trafelati come se avessero corso per un giorno intero.
La scoperta era stata sconvolgente, e ora i loro cervelli applicavano la teoria della valutazione per ipotesi.
Per la verità questo è un mio commento perché i due ragazzi, dei modi di agire del cervello, certo non sapevano molto. Ma è certo, come il ragionamento analizzi il momento che la vista gli offre.
E non finirebbe mai di farlo senza prendere alcuna decisione operativa, se non ricevesse altri segnali. Così darebbe fondo ai milioni di informazioni, chiamiamoli bit, per nostra comodità, chissà per quanto tempo, senza suggerirci alcuna mossa.
I ragazzi erano in tale situazione. Ed erano talmente sgomenti da non riuscire a montare sullo scooter e partire.
Davanti ai loro occhi, si era fissata la visione di quel mondo di carta. Qualcosa di staticamente assurdo che non sapevano spiegare. Poi si scossero da quella specie di coma vigile. E, inforcata la motoretta, partirono con grande sollievo. Non fecero caso al percorso. Uscirono dall’incubo solo quando furono sotto casa della ragazza.
“Andremo ad aspettarla. Fra un paio d’ore dovrebbe uscire dall’ufficio”, disse lei riprendendo padronanza. “Vieni solo un momento a casa mia. Ho assoluta necessità di fare una doccia”.
Puntuali, furono sotto l’ufficio ad aspettare la donna della carta. E lei non si fece attendere.
Apparve con le solite borse e si avviò alla fermata del bus. La videro montare, e con il fido scooter si misero all’inseguimento. Arrivarono alla solita fermata prima di lei, che si avviò verso la drogheria sull’angolo. “Dovrà fare la spesa” pensarono. E, in effetti, la donna, uscì reggendo ancora un’altra borsa.
Caracollando, come al suo solito, si diresse al deserto della sua villetta. Si fermò sul cancelletto, posò le borse, piegò la testa da un lato, per il rito della cassetta postale. Vuota come sempre. Riprese le borse, percorse lo squallido viale, depose il bagaglio, disserrò laboriosamente le serrature, riprese il suo carico e, chiudendo rumorosamente il portoncino, scomparve all’interno.
Videro filtrare la luce dalle fessure, tra una stecca e l’altra, delle saracinesche delle finestre. E attesero. Nemmeno tanto. Finché le strisce luminose, della serranda della cucina, sparirono.
La luce apparve invece dalla camera da letto, esaltata dal bianco della carta che l’arredava.
“Adesso ce la godiamo” sogghignò la ragazza. “Mettiamoci comodi, però, potrebbe andare per le lunghe”.
Dalla rampa del garage, presero due grandi scatoloni da trasloco, pieni di giornali, e li fecero scivolare, sollevandoli, appena, per non far rumore, fin sotto la finestra della camera.
Fu la ragazza ad arrampicarsi per prima. Soddisfatta della visione, fece un cenno al suo dottor Watson d’elezione, e insieme si accucciarono senza sapere che cosa stessero aspettando.
La donna della carta si muoveva velocemente, quasi scivolando, tra i suoi strani mobili. Dai movimenti delle labbra sembrava cantasse. Ma forse, supposero i ragazzi, parlava.
Aveva posato, sullo strano comodino, la borsa appena presa in drogheria. L’aprì e ne venne fuori una bottiglia che sembrava di champagne. O, poiché la confezione era simile, poteva essere solo spumante. Scomparve passando nella stanza accanto. Ne tornò con una grande coppa di carta. Forse, già, da gelato. Armeggiò alla bottiglia, tolse la stagnola dal collo e cominciò a slacciare la gabbietta. Fu il momento di far uscire il tappo. E la donna lo fece con grande perizia.
Come per un ‘operazione abituale’.
Dal fatto che il vino non traboccasse schiumando, dedussero che aveva evitato il botto alla stregua di un sommelier di stile.
Sempre muovendo le labbra, versò lo spumante, o qualunque cosa fosse, nella grande coppa. La sollevò girandosi verso il centro della camera, a brindare con un invisibile ospite, col quale forse già dialogava.
E bevve, avidamente, fino in fondo. Ripeté la funzione e ribevve con grande gusto. Poi si versò altro vino. Teneva la coppa nella mano sinistra, e con la destra cominciò a slacciare i bottoni dell’anonimo vestito che indossava.
Una specie di chemisier marrone, abbottonato fino alla vita, dove c’era una cintura dello stesso colore della quale la donna si liberò, usando sempre una sola mano. Ogni tanto si portava la coppa alle labbra, e beveva.
I ragazzi si guardavano in silenzio, indecisi se andarsene o restare. Optarono per la seconda ipotesi.
Muovendo le spalle con agilità e anche con grazia, ammettiamolo, insospettabili, la donna aiutò il vestito a scivolare scoprendo le spalle. Bevve un altro sorso e posò la coppa sotto l’abat-jour. Finalmente ebbe le braccia libere e le sfilò dalle maniche.
Lo chemisier le si afflosciò sulla vita, scoprendo (“Ma guarda!” esclamò la ragazza), sottoveste e reggiseno di seta scura, di taglio raffinato, e certamente costosi.
La donna continuava a muoversi come stesse ascoltando della musica. Ondeggiava i fianchi. Accarezzandolo, delicatamente, fece scivolare il vestito, giù, sul pavimento. E scoprì il resto del suo abbigliamento.
La sottoveste, cortissima, faceva da cornice alle cosce inguainate in belle calze, di un marrone molto scuro, sorrette da un sofisticato reggicalze in pizzo, dello stesso colore.
I ragazzi si guardarono stupiti. Non avrebbero mai immaginato che le sue gonne, lunghe e di anonima confezione, nascondessero gambe, piene al punto giusto e di buona linea. Ma le sorprese non erano finite.
La donna della carta, muovendosi come invasa da una sorta di foga sensuale si versò ancora del vino e lo tracannò con evidente voluttà e continuò a eliminare quel poco che le restava indosso. Si tolse la sottoveste e questa volta scoprì una leggera peluria sotto le ascelle.
L’attenzione dei ragazzi fu di nuovo carpita dal suo corpo vestito solo dal reggiseno, da un tanga sacrificatissimo, dalle calze e dal loro esile supporto. Davvero incredibile.
La donna, tra una coppa e l’altra sganciò il reggicalze lanciandolo sul carta-lenzuolo. Poi con un’arte che sembrava appresa da un burlesque d’alta scuola, eliminò il reggiseno, rivelando due seni pieni e appena tendenti verso il basso.
Fu la volta del tanga che raggiunse il reggicalze sul lenzuolo, arricchendo la macchia scura sul candore della carta.
Fu praticamente nuda, a parte le calze, che stavano su da sole e che, evidentemente aveva deciso di lasciare. Fitti i peli del pube, piuttosto sporgente, appendice, trapezoidale, di un addome gradevolmente pieno.
Erano esterrefatti. Come poteva quella donna quotidianamente scialba, rivelarsi così fisicamente dotata, e soprattutto con un indiscutibile appeal.
Incredibile. E lei faceva ondeggiare i fianchi senza esagerare una sola mossa. Si alimentava continuamente con il vino, fino a che, lasciata da parte la coppa, prese a carezzarsi dolcemente i seni. Poi mentre una mano restò a indugiare, lasciva, sui capezzoli, l’altra percorse lentamente il busto, si soffermò sull’ombelico che frugò come a cercarvi un ingresso segreto, poi scese tra i peli del pube e si infilò tra le cosce.
Il ragazzo sudava freddo e strinse forse con troppo ardore una gamba della sua ragazza alla quale fino a quel momento si era solo appoggiato, meritandosi immediatamente uno sguardo di rimprovero che gli fece staccare di colpo la mano.
Intanto la donna che evidentemente aveva raggiunto il suo punto più segreto, si avvicinò al letto. Prima di stendersi sul rullo lenzuolo prese dal comodino un mucchietto di fogli di carta. Poi si distese, mollemente e sprofondò nello strano materasso, a gambe larghe. Lentamente si coprì i seni con i fogli appena presi.
Con alcuni fece una specie di palla che si mise tra le cosce, davanti alla vagina. Quindi strinse un poco le gambe e cominciò a masturbarsi lentamente, mentre con l’altra mano si passava il resto dei fogli sui seni, sulle spalle, e sull’addome.
Man mano che l’eccitazione aumentava spostava qualcuno dei fogli vicino alla bocca e lo mordeva furiosamente pur senza lacerarlo. La mano tra le cosce si muoveva freneticamente e ormai le dita frugavano sempre più voracemente i segreti del suo corpo.
Il ragazzo era impacciato. Al contrario dell’investigatrice che, invece, assisteva alla scena con aria distaccata. Osservandola attentamente, però, si poteva scoprire un velo di sudore che le imperlava la fronte. Lei, invece, ne sentiva un rivolo più copioso scenderle per la schiena.
La donna della carta esaltò il movimento della mano che le tormentava il sesso, e finalmente arrivò a un orgasmo violento. Si rotolò nel rullo lenzuolo lacerandolo, e si immerse, per quanto possibile nella sottostante marea di fogli appallottolati. E le sue grida di piacere, anche attraverso la finestra chiusa, arrivarono ai due stupiti osservatori.
Il corpo era quasi sepolto dalla carta. Ma quando i singulti del piacere erano più violenti, ne emergevano soltanto le gambe o la testa.
All’improvviso, qualcosa si staccò dalla moltitudine dei fogli ogni momento più sconvolti dall’agitarsi della donna.
Qualcosa di indefinibile, che si spandeva intorno e sopra di lei, e poi piombava sul suo corpo, seminascosto dalla carta in ebollizione.
La Cosa usciva a ondate dalle pallottole di carta, dai giornali accatastati a far da mobili, e dagli scatoloni pieni di riviste.
Usciva come nugoli di insetti. Come i moscerini, d’estate, intorno alle risaie.
Aleggiava per la stanza come formazione di storni al tramonto, e acquistando la sagoma di un triangolo o comunque di qualcosa di appuntito, piombava con violenza sul corpo della donna.
Le grida di piacere si tramutarono in urla di dolore, che diventavano disperate ogni volta che quelle strane nubi s’infilavano nella carta che quasi la sommergeva, fino a trafiggere gli angoli più remoti del suo corpo.
I ragazzi, già sbigottiti, ora erano terrorizzati. Non capivano e non sapevano che cosa fare. Si stringevano le mani e, trasgredendo al segreto, cominciarono a urlare.
La stanza era ormai una bolgia. La donna agitava le braccia contro la mostruosa nube che le bucava la pelle. Il sangue schizzava da ogni parte, arrossando atrocemente lo scenario di carta. Urlava, la poveretta, ma le nubi nere che spesso, stranamente, sembravano coloratissime, aumentavano di intensità e infierivano senza posa sul suo corpo.
Quello che prima i ragazzi avevano giudicato un fisico più giovane della sua stessa età, stava riducendosi a un orrendo ammasso sanguinolento. Ogni parte perdeva la forma originale per trasformarsi in carne martoriata. La pelle scompariva, lacerata da quelle turbe di insetti famelici.
“Oddìo” urlò l’investigatrice, “fuggiamo o colpiranno anche noi. Andiamo a chiedere aiuto. Presto!”
E saltò dalla scatola, correndo affannosamente verso lo scooter. Il ragazzo la seguì. Sudato marcio, con le corde vocali paralizzate.
“Ma come giustificheremo la nostra presenza?” riuscì a dire con grande sforzo.
“Diremo di aver sentito le grida mentre stavamo pomiciando”, trovò subito la soluzione la giovane che, malgrado tutto, riusciva ancora a controllarsi: “Stupido, dove corri? Abbiamo il cellulare. Chiama il 113”.
Il ragazzo si scosse dal torpore, pescò il telefonino nella tasca del giubbetto e compose il numero.
“Correte in via dei Terzi, stanno uccidendo qualcuno. Vi aspettiamo qui davanti”.
E attaccò.
Passarono pochi minuti e due automobili della polizia arrivarono annunciandosi da lontano col suono delle sirene. Gli autisti rimasero in macchina. Gli altri quattro, dei due equipaggi, furono presso i ragazzi che indicarono la casa, e gli fecero strada.
Uno degli agenti dopo aver tentato inutilmente di forzare la porta puntò la pistola sulla serratura centrale e sparò spappolandola. Bastò un calcio e la porta si spalancò andando a sbattere contro lo stipite con un suono simile a una fucilata.
Entrarono tutti insieme.
“Da questa parte”.
E la ragazza indicò la camera da letto, ma avrebbe ingoiato la lingua se si fosse resa conto di far intuire che lei quell’appartamento lo conosceva già. Però era troppo agitata per rendersene conto e, certo, gli agenti non vi fecero caso.
Si spalancò una scena orribile.
Quanto restava della donna giaceva nella carta intrisa del suo sangue.
Il busto, le gambe, le braccia erano quasi completamente scarniti. Su tutta quella massa informe gravava una strana polvere nera.
“La nube di prima” pensò la ragazza.
“Che cazzo è questa roba?” si interrogò ad alta voce uno degli agenti prima di vomitare in un angolo.
“Forse cimici o pulci” azzardò uno dei suoi colleghi.
“No, sono caratteri” disse la ragazza sempre molto decisa e che, vincendo la repulsione, si era avvicinata al corpo della donna sino a sfiorarlo.
“Sono lettere dell’alfabeto. Proprio lettere. Dio mio è incredibile”.
“Lettere?” ripeté un poliziotto “che cosa vuol dire?”
Schermandosi il viso con i fazzoletti, si chinarono tutti insieme a osservare quello che, prima, i ragazzi avevano creduto un orribile nugolo di insetti.
Erano lettere di ogni tipo, dimensione e colore.
Milioni di A, V, R, W, Z, P, vocali, consonanti, e poi punti interrogativi, virgolette. Sembrava che i corredi dei caratteri di piombo infuocato di decine di linotypes, fossero piovuti sul corpo della morta, ferendolo nel modo più atroce.
Alcune di quelle lettere erano ancora composte come all’origine.
“Sendo dunque un principe, necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione. Perché il lione non si difende dà lacci e la golpe non si difende dà lupi. Bisogna quindi essere golpe a conoscere i lacci e lione a sbigottire i lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendono”.
Riuscì a leggere la ragazza, e dalla sua memoria liceale riesumò un tratto del ‘Principe’ di Machiavelli.
Spostò lo sguardo verso altre teorie di lettere che avevano scavato un solco sanguinoso, su quello che era stato il seno della donna, e lesse ancora:
“Ho abbastanza visto. Ho incontrato ovunque la visione. Ho abbastanza conosciuto. Le fermate della vita — o frastuoni e visioni — parto per affetti e rumori nuovi”
Erano le parole di Rimbaud scritte nei suoi ultimi viaggi per mare, quando la cancrena gli divorava una gamba.
L’investigatrice non si raccapezzava. Si rendeva conto di essere sul punto di scoprire qualcosa di terribilmente mostruoso, ma non riusciva a trovarne la chiave di interpretazione.
Lesse ancora sulla carta-lenzuolo:
“I mondi sono infiniti. Sia quelli uguali al nostro, sia quelli diversi da esso.
Perché gli atomi sono infiniti. Percorrono infatti anche gli spazi più remoti; perché gli atomi da cui un mondo può avere origine o essere formato, non si esauriscono nella costituzione di un solo mondo.
E neppure di un numero finito di mondi, siano somiglianti al nostro che diversi. Ne consegue che nulla si oppone all’esistenza di un numero infinito di mondi”.
E questo era Epicuro, in un passo delle sue Lettere sulla fisica e sul cielo, una meravigliosa, quanto inspiegabile, anticipazione delle scoperte moderne di almeno 200 anni a.C. e che la maggior parte dell’umanità non ha mai conosciuto. Lo aveva scoperto ascoltando un astrofisico statunitense in un servizio televisivo. Ma, qual era il significato?
I poliziotti stavano chiamando la sala operativa. Si affannavano, inutilmente, a spiegare quanto avevano trovato.
Il ragazzo appoggiato a una pila di carta era paralizzato. Gli occhi sbarrati sullo scempio, si torceva le mani fino a farsi male.
L’unica lucida del gruppo era, nonostante tutto, la ragazza. Eccitata dalla voglia di capire, aveva superato l’orrore della scena e frugava, con lo sguardo avido tra il sangue, a scoprire altre frasi.
“Se la morte, signor mio, fosse come uno di quegli insetti, strani, schifosi, che qualcuno, inopinatamente ci scopre addosso…
Lei passa per via; un altro passante, all’improvviso la ferma e, cauto, con due dita protese le dice: “Scusi, permette, lei egregio signore, ci ha la morte addosso” e con due dita protese, la piglia e la butta via. Sarebbe magnifico!
Ma la morte non è come uno di quegli insetti schifosi. Tanti che passeggiano disinvolti e alieni, forse ce l’hanno addosso; nessuno la vede; ed essi pensano lieti e tranquilli, a ciò che faranno domani e domani l’altro”.
Riconobbe Pirandello. E, contemporaneamente, capì.
Ma certo, quello scempio, non era altro che una vendetta del ‘Genio della scrittura’, inviperito per essere stato trattato come un anonimo scarabocchio o una volgare macchia d’unto.
Una allucinante, incredibile rivalsa di quanto era stato impresso sui fogli collezionati dalla donna.
Lei aveva amato soltanto la carta. E ne aveva ignorato, crudelmente, la scrittura che la nobilitava.
Anni di raccolta e, ugualmente, di oscura trascuratezza per quanto l’umile supporto reggeva.
La morta non aveva mai fatto caso alla scrittura.
A nulla di quanto fosse impresso sui milioni di fogli che con cupida bramosia aveva accatastato. Storie, articoli, dati, qualunque cosa, di qualsiasi genere. Senza mai leggere nulla.
Aveva messo insieme, nel suo singolare tempio, i grandi scrittori e i cialtroni. I pezzi degli inviati famosi con quelli dei corrispondenti di provincia.
Aveva mischiato in ibrido contatto, la imbecille stampa rosa, con i saggi della più squisita letteratura d’autore. E ignorato la nobiltà del gene della scrittura, secolare documentatore della sapienza. Unico capace di materializzare l’intelligenza e tramandare leggi, notizie, versi, romanzi e affetti. In sua assenza, la carta sarebbe niente altro che un, più o meno utile, supporto.
Era la realtà ignorata dalla vittima. Quel sangue, e la sua carne martoriata, erano la condanna, mostruosa, inflitta dalla rivolta dei caratteri.
La ragazza non riusciva a staccare gli occhi dalla morta, e vide che file di lettere e simboli stavano ancora affiorando dalla carne sanguinolenta. Sotto gli occhi esterrefatti dei poliziotti, si ricomposero su un lembo della carta lenzuolo, rimasto miracolosamente candido.
Cominciò a leggerli mentre formavano le righe.
“Il nascere si rinnova/di cosa in cosa/e a nessuno la vita è data in proprietà/ma, a tutti, in uso”.
Riprese a scavare nella memoria scolastica per attribuire legittima paternità a quella frase. Seneca, Petronio? Forse Catullo? No, in certo senso troppo frivolo.
Chi allora? E, infine, ricordò.
Venivano da quella sorta di sinfonia sulla natura che, al liceo, aveva tradotto, sudando, dal latino.
Erano versi di Lucrezio. Sì. Ne fu sicura.
Due lacrime, finalmente, si fecero strada tra le ciglia, e scesero leggere. Le arrivarono alle labbra. E ne sentì il sapore.
Si accostò al suo amico e cominciò a sussurrargli qualcosa a un orecchio.
Gli spiegava, e anche lui sembrò capire.
“Era un uomo o una donna?”
Chiese quasi tra sé un poliziotto e, infilatisi i guanti di gomma che aveva in tasca, scostò la carta insanguinata fino a scoprire del tutto la testa della morta.
Era l’unica parte rimasta intatta. Il volto non aveva nemmeno una puntura. Non era neanche terreo. Anzi, leggermente rosato.
“Assurdo”, disse a mezza voce un altro poliziotto, “sorride, come se non avesse sofferto”.
La notarono anche i ragazzi, quell’espressione pacata, di soddisfazione, sul volto della donna.
Statuaria, nel rigore della morte, ma come se fosse viva e stesse godendo.
“O come se fosse morta nell’estasi di una fine desiderata, da sempre, per mano di chi aveva amato alla follia” pensò la ragazza.
Ma non era proprio così. E lei, ormai, aveva capito perché.
Copyright Enzo Buscemi
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