di Enzo Buscemi
“La quale”. È una delle tante espressioni che non ho mai usato nel linguaggio. Né, tantomeno, nella scrittura. Era, invece, frequentissimo intercalare di una sorta di faccendiere. Sfoggiava l’amata ‘La quale’, ad ogni passo. Specie nelle sequenze, promozionali, della sua, multiforme attività e, l’avvicendava con altre espressioni, per la verità molto comuni, nella Sicilia della mia gioventù. Specie nei dialoghi tra gli anziani, di più semplice estrazione: “Sissignora”, “Siamo qui” e “Siamo benissimo d’accordo” ripetute senza risparmio, né alcuna necessità plausibile. Nessuna meraviglia, per carità, se basta un minimo d’osservazione alla nostra quotidianità, per giustificare la fastidiosa consuetudine di quel personaggio.
Oggi, anni 2024, ‘Quelli che contano’ e siamo costretti a subire sui media, di qualsiasi genere, non ci risparmiano un’allucinante dovizia di intercalari: ‘assolutamente’, ‘diciamo’, ‘diciamo così’, ‘nella misura in cui’, ‘senza se e senza ma’, ‘come dire’, ‘un attimino’, e potrei continuare ad oltranza sull’onda dell’ignoranza assurta, ahimè, anche a cultura politica.
Torno all’umile ‘sbrigafaccende’.
Poco più che sessantenne. Fisico pesante, una certa simpatia per il buon vino, intuibile dalla tonalità dell’incarnato, godeva, comunque, di un indiscusso fascino tribale.
Nell’operosa cittadina del sud, dove ho vissuto per diversi anni, il personaggio era molto popolare. Indubbiamente, si dava un gran daffare.
‘Sbrigava’ di tutto e, quasi sempre, con buona soddisfazione della sua nutrita clientela.
Intendiamoci, esaudiva, soprattutto, le richieste più semplici. Otteneva in tempi brevi il rilascio di particolari certificati, un accettabile termine di rinnovo delle patenti di guida o le copie di sentenze dalle cancellerie del tribunale. La sua era, quindi, attività che, spesso, miracolosamente, alleviava i tormenti dell’asfissiante nazional-burocrazia.
I tempi, di Don Cocò (il nome è di fantasia), rispetto alle normali procedure, erano normalmente più ‘umani’.
Li otteneva con un’accorta politica, di semplici regalie ai personaggi giusti, guadagnandosi invidiabile disinvoltura, nel labirinto di qualsiasi ufficio.
A chi di dovere, portava in omaggio le ‘provole di Basicò’ (paese rinomato per la produzione di quegli squisiti formaggi), o, dei bottiglioni del bianco delle ‘Pietre Rosse’, vino di alta gradazione, o vassoi di ‘piparelle’ (un profumato dolce alla mandorla), e altre particolari specialità locali. Tutte elargite, dalla sua clientela, in trepida attesa dell’esito della pratica.
Il clou, dell’attività dell’Azzeccagarbugli di ultima generazione, culminava nei maneggi per evitare il servizio militare (a quei tempi, lungo e obbligatorio) o, se l’esenzione non riusciva, per ottenere, almeno, l’avvicinamento delle reclute alla residenza originale.
A quanto pare, don Cocò faceva proprio al mio caso. Avevo già ‘passato’ la visita di leva, e mi toccava la cosiddetta ‘selezione attitudinale’. Traguardo decisivo per l’assegnazione, se favorevole, a uno dei corpi speciali del servizio militare.
Fresco di iscrizione all’università e, con precise mire per il futuro, temevo che il periodo di ferma mi avrebbe danneggiato.
Don Cocò, me lo aveva segnalato Gianni, mio compagno di scuola, nipote di un notaio, cliente del faccendiere, per il disbrigo di pratiche correlate all’attività del suo studio.
Così, una sera, con Gianni, andammo a casa del ‘Don’. Qualifica qui, bonaria. Ben diversa da quella di prammatica per i ‘graduati’, nella burocrazia mafiosa.
Ci accolse con grande cordialità. Insistette perché accettassimo ‘un caffè’. Sua moglie ce lo servì in grandi tazze senza manici, dorate e con la scritta ‘Ricordo’.
“La quale, l’hai fatto forte?” si informò don Cocò,
“È niru comu u’ vellutu” (‘nero come il velluto’), lo rassicurò, in vernacolo, la consorte.
In realtà, una orribile brodaglia. Bevemmo, d’un fiato, sforzandoci di reprimere, un giustificatissimo conato.
“La quale, mi dice che vorrebbe evitare il servizio di leva. Non sarà facile. Ma ho buone conoscenze. La quale, si potrebbe risolvere bene, Sissignora”. Esordì don Cocò, instillandomi un’iniezione di fiducia.
Esaminò, con grande attenzione, i documenti relativi alla prima visita, quelli della convocazione alla successiva, e il certificato di iscrizione all’università.
“Vossia, si deve rendere conto che ‘la quale’ non è semplicissima. Ma spero di poterLa aiutare ‘sissignora’. Dobbiamo, preparare un pensierino per il medico che la visiterà. Una cosa giusta. ‘Siamo benissimo d’accordo’. Per ‘la quale’, parlerò con suo padre. Stia tranquillo, ‘la quale’ andrà bene. Sissignora”.
Da questo momento, la preclusione di una interessante avventura. Qualche avvenimento è in parte ritoccato, usando nomi di fantasia, per le località e i personaggi citati.
‘La quale’ tutto bene
La procedura di selezione mi sembrò confortante. Il medico che mi visitò, fu di poche parole. Mi parve avesse già a cuore il mio problema (opera di Don Cocò?), al punto che credetti di intuire ‘cosa fatta’, la definitiva cancellazione del richiamo.
In serata andai a trovare il faccendiere. Gli riferii della visita e delle, supposte, assicurazioni del medico militare.
“So già tutto. La quale, è andata bene. Siamo benissimo d’accordo. Vossia benedica”. A suggellare il mio gradimento gli porsi una busta, con un extra di ringraziamento.
E il tempo passò. Dopo l’università l’immediato trasferimento a Milano, sacrificando il privilegio delle antiche amicizie, per appagare il sogno del giornalismo.
Difficili, i primi periodi. Finalmente, l’agognato approdo in una testata importante e, dopo qualche anno in un’altra e, uno scalino ancora più su, in un famoso rotocalco, a Roma.
La carriera era partita bene. Giornali di grande prestigio, contratti da inviato speciale, stipendi nemmeno sognati.
Mio bel levriero
La redazione del mio rotocalco era in via Ludovisi, all’angolo con via Veneto. La passerella della ‘dolce vita’, appena esaltata nel mondo, da Fellini.
Passaggio obbligato per i personaggi del jet-set del cinema, della musica, della moda, dell’arte, della finanza e del vacuo.
Aperitivo al Cafè de Paris, cena al White Elephant, le conferenze stampa lì di fronte, al Grand Hotel Excelsior, le notti al Capriccio, all’84, o al Jackie O’.
L’attività della nostra redazione era frenetica. Servizi di grandi firme, interviste esclusive, ai reali superstiti, e donne, famose e bellissime, che i più grandi fotografi immortalavano sulle nostre pagine.
Interessante anche il contorno.
Ero entrato nel ‘giro’ della moda e dello spettacolo. Le affettuose amicizie con stelline o, aspiranti tali, si avvicendavano con evidente gradimento, reciproco, presumo.
Le visite delle mie amiche, belle donne, spesso ultranote, erano diventate di normale frequenza in redazione e, quasi sempre, facevano notizia. Specie sui miei colleghi più giovani. E, qualcuno, osava timide avance.
La formula era scontata “Potresti chiamare qualche tua amica e usciremmo in quattro?”
Mai accaduto che funzionasse.
In tutto questo, c’era però dell’altro. In sottile equilibrio tra il fastidioso e il grottesco. Nella stanza non ero solo. L’ambiente era spazioso e, dalla parte opposta alla mia, c’era la scrivania di un collega, Ennio.
Aveva poco più di cinquant’anni, mai confessati. Praticamente il doppio dei miei. Era molto noto nell’ambiente per la specializzazione ‘in re e regine’. In più, amministrava, con disinvoltura, l’alta nobiltà. E non solo.
Fu inviato in Portogallo a intervistare un ‘Re’ in esilio. Ci rimase una settimana. Ritornò in totale estasi.
“Volle che ci dessimo del Tu” raccontò commosso, “Al nostro incontro, indossava un doppiopetto di grisaglia. Lo ‘fasciava’. Sembrava nudo”. Si entusiasmò.
Apprezzamenti a parte, si meritò tre copertine. Il suo reportage si allungò per quattro settimane. Le vendite si impennarono. Ad onta del ‘referendum’ del ’46.
La rivista lo festeggiò con cena al White Elephant, il ristorante di prestigio all’angolo con via Aurora. Lo gestiva Valentino, già barman famoso all’‘Harry’s bar’ di via Veneto negli anni della ‘dolce vita’. La settimana precedente aveva servito Margaret d’Inghilterra e le sue dame di compagnia.
Ennio ne fu giustamente soddisfatto. L’unico a subirne un problema ero io. Si era innamorato di me, non tentava di nasconderlo, e mi chiamava “Mio bel levriero”.
Mi ero imposto di minimizzare, ma il fastidio era esaltato dalla gelosia. L’insofferenza del mio collega, schizzava al massimo quando veniva a trovarmi qualche amica. Mugugnava, sbatteva rumorosamente i fascicoli che aveva sulla scrivania. E, infine, a testa alta, sciabolando l’aria a braccia aperte, con andatura da prima donna, disgustato, Ennio abbandonava la stanza.
Gelosie a parte, la mia vita al giornale era sempre ‘piena’. Spesso in giro per il mondo, a inseguire la grande attualità o, in sede, a Roma quando serviva una cronaca d’assalto. Molti anni dopo si sarebbe chiamato ‘giornalismo investigativo’. La mia specialità. Appunto.
Lo scoop
Nel freddo febbraio del ’65, ero impegnato nell’ultimo atto di uno scandalo. Lo avevo scoperto per caso. Due anziani coniugi, erano stati selezionati per un seguitissimo ‘quiz’ della televisione di Stato, allora unica emittente nel Paese.
Il principe dei conduttori, non si era, evidentemente, documentato abbastanza sui quei personaggi.
In trasmissione, da settimane, li coccolava, affettuosamente, li chiamava ‘nonnetti’.
Poi ero arrivato io. Per una fortuita eventualità, grazie alla mia, spesso straordinaria, memoria, mi venne in mente che due personaggi con quel cognome, una quindicina d’anni prima, erano stati espulsi dall’Inghilterra. Vi avevano gestito una catena di case di tolleranza, specializzate in prostitute giovanissime. Erano proprio loro, i ‘nonnetti’.
Documentandomi, con l’aiuto di certi miei tradizionali informatori, scoprii che, estradati in Italia, solo qualche anno dopo, avevano messo in piedi una finta istituzione di beneficenza. Sistema ingegnoso per sfruttare la prostituzione delle ragazze, quasi adolescenti, che gli erano state affidate da brefotrofi, dietro il miraggio di impegnarle in una decorosa occupazione.
Accertata, con la mia consueta pignoleria, l’assoluta veridicità delle fonti, avevo iniziato una rocambolesca ricerca delle vittime per denunciare l’anziana coppia di lenoni.
Riuscii a rintracciarne una. La ragazza, all’epoca minorenne, era stata vittima dei dolcissimi ‘nonnetti’, insieme alla sua sorella minore e ad altre sciagurate.
La coppia diabolica ne aveva ottenuto l’affidamento, da una nota, quanto ingenua, organizzazione umanitaria della capitale, fidatasi della garanzia di un sedicente miliardario inglese, spacciatosi per mecenate.
Durante il giorno le ragazze vendevano, per strada, i biglietti della Lotteria nazionale. La sera, dalle rubriche dei portieri dei grandi alberghi passavano ad allietare ospiti generosi.
Uscii con un primo servizio bomba, e ne annunciai un successivo, ancora più devastante.
La televisione si era affrettata a concludere, l’ospitalità degli scomodi personaggi. Gli fece risolvere, immediatamente, in anticipo, tutti i quiz e gli liquidò il premio.
Inutili, però, i tentativi di attenuare l’eco dello scandalo. Dilagò su tutta la stampa. Spasmodica l’attesa per la seconda puntata della mia inchiesta.
Avevo completato il servizio. Già impaginato, con lo sconvolgente memoriale della testimone che raccontava la terribile esperienza. Le avevamo offerto un ottimo compenso, ma non volle mai incassarlo.
Venga con noi
Ero appena arrivato in redazione. Tornavo dalla tipografia, dopo l’ultimo controllo alle grandi lastre metalliche, impressionate, con le pagine della rivista, fissate sui rulli della rotativa.
Una grande foto, prova dell’incontro tra il sottoscritto e la preziosa testimone, vittima dei nonnetti, occupava una delle due pagine centrali del rotocalco che, sarebbe andato in edicola dall’indomani. Attesi che l’enorme macchina della stampa si avviasse. Un’emozione che non finirà mai.
Paolo, il più giovane dei nostri fattorini, visibilmente alterato, irruppe nella mia stanza: “Dottore la cercano i Carabinieri” disse con voce strozzata.
Credetti fosse il prologo di uno dei tanti scherzi che ci scambiavamo tra colleghi.
Stavo replicando con un’adeguata, colorita, espressione, ma la vista del primo di tre militari, alle spalle del fattorino, mi bloccò.
Mi identificarono. E poi, con grande cortesia: “Deve venire con noi. È accusato di renitenza alla leva” puntualizzò il maresciallo, capo pattuglia, che mi invitò a uscire.
Nel corridoio s’era schierata tutta la redazione. Direttore in testa: “Che succede, dobbiamo chiamare il nostro avvocato?”
“Direttore, sinceramente non lo so. Ti farò sapere appena possibile. Mi sarà possibile comunicare. Vero Maresciallo?”
“Sicuramente, potrà farlo dalla caserma”.
Per un momento, temetti mi ammanettassero. Non avvenne.
In via Ludovisi, al portone del giornale, ci aspettava una Fiat 1200 ‘civile’, carrozzeria Granluce. Si distingueva, da quelle di serie, solo per un piccolo faro, orientabile dall’interno, montato sullo sportello anteriore destro.
Mi fecero accomodare accanto al guidatore. La cosa, conoscendo la prassi di simili eventualità, sinceramente mi rassicurò.
Mi imposi di regolarizzare la frequenza del respiro.
Come destinazione, mi aspettavo una stazione dell’Arma. Ma, dopo un breve tragitto, la 1200 imboccò il varco di una caserma dell’esercito. Attraversò un grande piazzale e si fermò davanti a un portone.
Una targa indicava ‘Palazzina Comando’.
Mi guidarono, forse, al primo piano. Non ricordo, è passato tanto tempo. Per un lungo corridoio, sfilammo davanti a diverse scrivanie, con militari occupati a battere, rumorosamente, su macchine per scrivere. Poco più avanti, due carabinieri sostavano ai lati di una porta, l’unica a doppio battente. Chiusa.
Il maresciallo conferì con uno dei due che bussò, ed entrò nella stanza chiudendosi la porta alle spalle. Ne uscì quasi subito, e ci invitò ad entrare. Il maresciallo mi precedette. Scattò sugli attenti portando la mano alla visiera. Io sussurrai un timido “Buongiorno” non sapendo valutare, da mia ammessa ignoranza, quale fosse il grado del militare seduto a una grande scrivania.
“Comodo, comodo” disse, gentile, l’ufficiale. Alle sue spalle la luce che entrava da due grandi finestre, quasi mi abbagliava e, ne rendeva difficile valutarne i particolari del viso.
Mi si rivolse indicandomi delle poltroncine davanti alla scrivania: “Si accomodi” ripeté, “Grazie maresciallo, può aspettare in corridoio. Grazie”.
Odor di cella
Per quanto possibile, mi rassicurai. Quell’ufficiale era di certo il comandante dell’enorme caserma e, mi aveva dato del ‘Lei’.
Per sentito dire, sapevo che gli ufficiali, ai soldati, danno bruscamente del ‘Tu’. E io, a quanto pare ero diventato ‘un soldato’ e, peggio ancora, sul banco degli imputati.
Osservai l’ufficiale. Età indefinibile, forse vicina ai sessanta. La statura, difficile da valutare. Era seduto. Ma, da quanto il busto sovrastava il piano della scrivania, stimai di poco inferiore al metro e ottanta.
Capelli appena brizzolati, cortissimi, rasatura perfetta, come la stiratura della camicia. Nessuna piccola piega, nemmeno sotto il colletto, ai lati, nella zona notoriamente ‘nevralgica’ per la stiratura, all’inizio dell’abbottonatura. Viso gradevole, occhi nocciola con espressione, cordiale.
O, almeno, così mi parve.
“Vogliamo parlare del problema? Dalla Sua pratica, aperta da tempo in Sicilia, risultano inviate ben sei cartoline di convocazione. E, tutte, senza risposta. A quanto pare, non ha mai fatto il cambio di residenza. Siamo stati costretti a una lunga ricerca. Le era noto che, appena concluso il corso di laurea, sarebbe stato Suo dovere assolvere il servizio di leva. Credeva fosse possibile rimanere nell’ombra, per sempre? E poi, col suo lavoro, non è semplice scomparire. Così, ha superato il limite, ed è a un passo dalla detenzione”.
Sudavo freddo. Stavo disperandomi. La detenzione? Mi vedevo già in una cella. Poi, il mio solito ragionamento mi suggerì un estremo, quanto rischioso, tentativo.
“Signor Comandante, la ringrazio perché non ha infierito sul mio comportamento. Se permette, vorrei confidarmi. La sincerità spesso è un’ancora di salvezza”.
“Prego” mi incoraggiò l’ufficiale.
“Prima della visita di ‘selezione’, nel tentativo di evitare il servizio militare, mi ero rivolto a un faccendiere. Ero ansioso di dedicarmi al lavoro che sognavo. Quel signore mi ha aveva assicurato che ‘una sua conoscenza’ mi avrebbe aiutato. Ha preteso ‘un pensierino’. E, dopo la procedura, ha garantito che tutto fosse andato per il meglio. Appena laureato, sono sbarcato a Milano. Qualche mese di sacrifici, poi l’assunzione in un famoso settimanale. In seguito un cambio di testata e, dopo qualche anno, altra promozione e il trasferimento a Roma”.
Peccato d’ingenuità
“In verità, delle cartoline, recapitate all’indirizzo della mia famiglia era stata data comunicazione a chi mi aveva ‘esonerato’. La risposta è stata sempre la stessa: ‘È un errore, la laceri’. Ed eccomi a fare la Sua conoscenza. Non oso chiederLe se esista una possibilità di ‘salvezza’. Le confesso, la mia solita sicurezza si è dissolta. Mi sento sotto un palazzo che stia crollando”.
“Caro dottore, ha proprio peccato di ingenuità. Da militare, non condanno la sua voglia di evitare la leva per guadagnarsi al più presto l’attività che poi ha intrapreso. Responsabile è chi ha promesso, e forse guadagnato, sulla sua speranza. Voglio premiare la Sua sincerità. Tenterò di salvarla, nuocendoLe il meno possibile. Entro la mezzanotte di domani, dovrà presentarsi alla Caserma di Monterrei in Lombardia. Se non lo farà, io perderò una vita di lavoro e Lei finirà in un carcere militare. Crede che potrà accettare quanto le propongo?”
Rimasi in silenzio. La vita mi si riapriva. Servizio militare, certo, ma non carcere.
“Farò quanto mi suggerisce. Non so, se usare la scontata, antipatica, frase fatta ‘non ho parole’. E in effetti non saprei come ricambiare la Sua comprensione. Mi conceda di valutarla come l’affetto di un fratello maggiore. La mia riconoscenza, da meridionale puro sangue, non finirà mai. Debbo solo chiederLe scusa per non averLa salutato con i Suoi gradi. Non mi sono mai impegnato a saperli riconoscere”.
“Mi chiami pure Comandante. È la mia qualifica attuale. Non me la faccia perdere! Buona fortuna”.
Si alzò, venne a stringermi la mano e mi accompagnò alla porta.
Il maresciallo era in attesa. “Riaccompagni il signore al suo giornale. Poi torni da me. Le darò un fonogramma per Monterrei. Ancora buona fortuna dottore”.
La redazione, al completo, apprese del mio scampato pericolo. Il Direttore assicurò che avrebbe tentato di farmi rientrare a Roma.
Meglio anticipare i tempi. Corsi a casa, preparai due borsoni con gli accessori da bagno, il massimo dei cambi di biancheria, un paio di abiti e camicie (tutta roba che, probabilmente, non indosserò per due anni, rabbrividii) l’inseparabile macchina fotografica con il corredo dei relativi obbiettivi e pellicole, e un miniregistratore professionale.
L’indomani ritirai degli abiti dalla tintoria, due paia di scarpe che erano da dotare dei soprattacchi, pagai un paio di bollette e diedi diverse istruzioni al portiere. Caricai il bagaglio sulla mia automobile.
Era una sportiva, come sempre, già col pieno di carburante e la serie dei controlli appena eseguiti. Dedicai qualche minuto a un volume di cartografia stradale per informarmi sul percorso.
Misi in moto, e via di gran carriera verso il Nord, sperando che la bella giornata invernale, reggesse sino a sera.
Trovagli un letto
Era quasi buio quando fui a destinazione. Da un edicolante mi informai per un albergo, con garage, vicino alla Caserma. Mi indicò ‘La botte d’oro’.
“Una pensione familiare, gestita da un mio conoscente. È pulita, garantisco sull’onestà e dispone di un ampio garage. Vada a nome di Barbero”.
La descrizione era stata fedele. Una camera, bella come il bagno. Massima pulizia e biancheria di bucato. La sagoma della Caserma si profilava a qualche centinaio di metri. Allestii un borsone con l’indispensabile per la notte. Non avevo idea di che cosa mi aspettasse.
Al portone un soldato con l’elmetto mi bloccò: “Aspetta qui”, e rientrò. Si ripresentò con un giovane ufficiale. Gli spiegai che ero in ritardo per il C.A.R. come da un fonogramma che sarebbe già arrivato da Roma. L’ufficiale tornò nel corpo di guardia. Dopo qualche minuto si affacciò alla porta “Fallo entrare” disse al soldato che mi aveva accolto.
Telefonò a qualcuno che si materializzò dopo qualche minuto: “Trovagli un letto e dagli il corredo per la prima notte” ironizzò e, rivolto a me, “Dormi bene. Forse avrai un po’ di freddo. Ma ci farai l’abitudine”.
La ‘prima notte’ fu letteralmente disastrosa. Il piantone, come definito dall’ufficiale del corpo di guardia, mi guidò a una grande camerata. Nella penombra, si indovinavano molti letti, singoli e a castello. Si gelava.
Il ‘maître’ in grigioverde, mi assegnò una branda “Domani, magari, potrai cambiarla. Vieni a prendere il corredo”. Lo seguii.
Mi diedi da fare con lenzuola ruvide, un guanciale semivuoto e una coperta. Soltanto una.
Preparai il letto e mi resi conto che non avrei indossato il pigiama. Sarei rimasto, perfettamente abbigliato, come all’arrivo in caserma. Cappotto compreso.
Mi distesi, e tentai di avvolgermi nella coperta. Mi resi conto che non sarei riuscito a chiudere occhio. Le ore che mi separavano dall’alba sarebbero state piene di un’ansia disperata con il timore dell’ignoto.
Il debutto in ‘ferma di leva’, fuori ordinanza, per la consistente manciata d’anni di ritardo.
Situazione drammatica. Alle mie spalle, parecchi anni di lavoro entusiasmante e, soprattutto, totale, assoluta, autonomia.
Tutto capovolto. Interno, notte gelida, febbraio 1965, camerata popolata da una, invisibile, turba russante. Senza alcuna certezza del domani. Non sapevo come tranquillizzarmi, né riuscivo a inventare una qualsiasi, magari fantasiosa, soluzione di salvezza.
Fissavo il buio, alleggerito dal chiarore delle finestre. Qualcuna, incredibile, era priva del vetro e, rappezzata alla meno peggio, con del cartone e nastro adesivo.
Stavo adattandomi alla penombra. Notai dei punti luminosi sul pavimento. Sorrisi, convinto che fossero delle lucciole capitate, per caso, a rallegrare, quel gelido cemento.
Nei giorni successivi, ne avrei scoperto la realtà molto diversa. Alcune reclute si portavano, accanto alla branda, la gavetta, colma d’acqua. Durante il tragitto, le gocce cadute sul pavimento, gelavano trasformandosi in romantiche ‘lucciole’.
Un raggio di luce mi abbagliò.
“Non dormi. Hai freddo, vero? E non hai ancora visto niente”.
Dalla voce, risalii lungo il raggio luminoso. Appresi che si trattava di un altro ‘piantone’, delegato a ispezionare il sonno dei coscritti. Lui continuò il suo giro. Io, le tristi riflessioni.
La notte confermò le peggiori previsioni. L’alba rivelò un leggero galleggiamento di fiocchi. Anche la neve.
Il quadro era completo.
Una tromba (come da esperienza appresa dai film) annunciò, perentoria, la sveglia.
La camerata si animò. Ne ebbi, intorno, la maggioranza dei ragazzi.
Si affollarono con una serie di domande. Non sapevo a chi rispondere. Tranquillizzai la turba, alzando appena la voce e con un chiaro movimento delle braccia: “Vi saluto, cari Amici. Sono arrivato stanotte, in ritardo di anni. Fuori dalla caserma sono un giornalista. Passeremo insieme i prossimi giorni e vi chiederò consigli sul come comportarmi. Comincio subito. Adesso che cosa si fa?”
Un coro di risposte indecifrabili mi confuse. Dovetti stringere non so quante mani. Fu una cascata di sorrisi. Sinceramente mi commossi. Ringraziai, e il praticantato da recluta ‘stagionata’, iniziò seguendo i vocianti nei bagni.
continua qui: https://lettermagazine.it/racconti-2/la-quale-parte-ii/
Immagine di copertina realizzata con strumenti di IA (ChatGPT)
Scatto inerente allo scoop: per gentile concessione di Enzo Buscemi
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