Tutte le notti rientra all’alba. Non va bene, per una ragazza così giovane, passare la notte in giro in bicicletta. Ritorna poco prima che faccia giorno, riporta la bici dal custode, nasconde il fagotto che si porta sempre dietro e rientra in quella specie di alveare in cui abitano in cinque o sei. Sarà perché io abito da solo, ho un monolocale tutto mio, sarà che potrei essere suo padre, ma Edera mi preoccupa.
Edera non è il suo vero nome, ma il soprannome di battaglia che usava durante la guerra. I suoi genitori la volevano chiamare così, ma è nata nel 1924 e il prete ha fatto delle storie, però in casa l’hanno sempre chiamata Edera. È stata la più giovane della brigata; all’inizio faceva la staffetta come le altre, poi gli uomini si sono accorti che sparava meglio di tutti loro messi insieme. Le hanno messo in mano uno Sten e via, con suo fratello su una vecchia Gilera, a fare le azioni volanti. Talmente brava che nessuno ha mai capito che era una donna, finché non l’hanno catturata grazie a una spia che li ha venduti per poche lire. A quei maiali dei fascisti non è parso vero, l’hanno torturata in tutte le maniere, il loro orgoglio maschile era offeso da una ragazzina che li aveva messi nel sacco per due anni, ma la mia Edera non ha fatto i nomi di nessuno. La volevano fucilare alle spalle ma lei ha preteso che il plotone di esecuzione la guardasse in faccia, e fino all’ultimo li ha scherniti: “Che uomini siete, che non avete il coraggio di guardare una donna negli occhi?”.
Insieme a lei ne hanno ammazzati altri cinque, tutti giovanissimi. Era l’aprile del 1944, il fronte sarebbe passato a novembre. Quando la città è stata liberata, hanno raccolto i poveri resti di quei ragazzi e li hanno messi in un loculo qui al Monumentale. Di intero c’è solo la lapide che ricorda il loro coraggio, ma dentro non si sa che ossa ci siano finite. Però lo spirito indomito di Edera non poteva farsi rinchiudere dentro a una fossa. Io ero già lì dal 1941, i fascisti mi avevano spezzato prima. Ero un uomo malato e invecchiato prematuramente e la fame e gli stenti mi hanno dato il colpo di grazia. La prima notte Edera si è seduta vicino a me e mi ha chiesto dove poteva trovare una bicicletta. Mi è scappato da ridere, le volevo spiegare che i morti non vanno in bicicletta, ma ho capito presto che nessuno può dirle che cosa fare. Lei fa quello che vuole, e basta. Ha preso la bicicletta del custode ed è tornata prima dell’alba con un fagotto, che ha nascosto dietro la lapide. Come facciano a starci tutti, là dentro, in cinque ragazzi più uno Sten, sono i miracoli di noi trapassati, ma solo la notte dopo ho capito che in quel fagotto c’era il suo mitra.
Edera è sempre stata forte in bicicletta, portava le armi da Forlì a Galeata nel cestino, sotto uno strato di paglia col cane sopra, e le bici di allora pesavano più di un cancello, ma lei pedalava come se avesse sempre il vento a favore. La prima notte qui da noi ha preso “in prestito” la bicicletta del custode ed è partita pestando sui pedali con furia. Stavo per dirle che non stava bene, era una bicicletta da uomo, ma mi sono morso la lingua. La notte seguente, con gli occhi che le brillavano, mi ha mostrato il contenuto del fagotto. Era il suo Sten, il mitra con cui aveva vissuto in simbiosi nei suoi ultimi due anni di vita. Quando è stata catturata, uno dei fascisti se l’era portato a casa e lo teneva ancora lì, in cantina, come una reliquia. Edera ne ha approfittato per vedere se funzionava ancora bene. Funzionava.
La mia ragazza li è andati a cercare tutti. I fascisti che l’avevano catturata, le spie, i repubblichini che l’avevano torturata e poi fucilata. Ogni mese, nell’anniversario della sua fucilazione, ne faceva fuori uno, con una bella sventagliata di mitra. Le mogli sentivano il frastuono dei proiettili e si trovavano il marito crivellato di colpi, accanto a loro nel letto. Col primo morto la consorte se l’è vista brutta, gli faceva le corna col cognato e lo sapevano tutti, poi la faccenda ha cominciato a fare scalpore. Un morto ogni mese, e anche in posti molto distanti tra loro. Due repubblichini se li è andati a pescare a Bologna, uno addirittura l’ha ammazzato in galera. Con calma, pazienza e perseveranza, li giustiziava uno dopo l’altro.
Ci hanno messo un po’ a capire il nesso, poi a qualcuno è venuto in mente che stavano fucilando gli assassini di quella banda di ragazzi che andava in giro col Gilera a fare le azioni volanti. I poliziotti si sono messi a cercare tra i partigiani rimasti, ma la notte del fattaccio erano sempre tutti da un’altra parte. I carabinieri si sono impegnati per cercare di incastrarne qualcuno, non gli sarebbe parso vero, la benemerita era ancora formata dagli stessi miliziani che avevano salutato il Duce con entusiasmo, ma non ce l’hanno fatta. Edera ci stava attenta a non compromettere i suoi compagni, impiegava un mese esatto per studiare tutti i dettagli dell’azione e la portava perfettamente a compimento, come aveva sempre fatto da viva.
Poi una notte a qualcuno è sembrato di vedere una ragazza che scappava in bicicletta dalla casa di una spia appena uccisa. Ai superstiti è venuta addosso una paura boia. Non hanno detto niente ai carabinieri, ma si sono barricati in casa. Edera se la rideva, i muri e le inferriate fanno fatica a fermare un fantasma. L’ultimo lo ha falciato mentre stava per salire sul treno che lo doveva portare a Genova a prendere la nave con destinazione Argentina, ma non è riuscito neppure a salire sul predellino. Lo ha voluto vedere in faccia prima di ammazzarlo, Edera non sparava alla schiena, nemmeno a un lurido topo di fogna come quello. Il capostazione ha raccontato di aver sentito un fischio penetrante, l’uomo si è girato ed è stato abbattuto dalla solita raffica di mitra. Uno Sten, sempre quello. Il suo.
Quando li ha eliminati tutti, l’ho presa da parte e le ho detto benedetta ragazza, adesso trova pace, non ce ne sono più, ma non l’ho vista convinta. Andava sempre in giro per il cimitero, ascoltava quello che raccontavano i morti e i parenti in visita, e ogni tanto andava in missione. I suoi bersagli preferiti erano gli uomini che picchiavano o violentavano le donne, ma ogni tanto si lasciava andare ai ricordi e si dedicava al suo sport preferito, ammazzare i fascisti. Ancora con più gusto, far fuori quelli che erano rimasti a galla negli stessi posti di potere, questori, prefetti, alti burocrati che si erano perfettamente riciclati nella nuova democrazia. Cristiana.
La nostra città aveva preso una fama sinistra, i papaveri con la coscienza sporca non accettavano di trasferirsi qui, allora lei stava tranquilla per un po’, si faceva dimenticare abbastanza per tentare qualche ex gerarca voglioso di carriera, e poi colpiva. Rapida e precisa come un rasoio.
Il guaio di noi trapassati è che abbiamo sempre la stessa età. Edera è stata fucilata a vent’anni, nel 1944, ma è ancora la stessa ragazza. Bella, bellissima, coi capelli neri come l’ala del corvo, gli occhi verdi e uno sguardo che io faccio ancora fatica a sostenere. E irrequieta, come sempre. Non trova pace. Mi era sembrato che si fosse calmata, ma da un po’ di tempo ha ricominciato a prendere la bicicletta del custode e a girare di notte. Le ho chiesto cosa aveva in mente ma non me l’ha voluto dire, però ieri mattina l’ho vista, che puliva il suo mitra e lo lucidava prima di rimetterlo via. Lo Sten è un’arma fantastica, se tenuto bene funziona ancora perfettamente a distanza di settant’anni, e una trapassata ha molto tempo libero.
Oggi ho sentito dire che ci sarà il funerale di un grosso banchiere che era passato in visita in città. Morte misteriosa, falciato da una raffica di mitra mentre dormiva nella sua camera d’albergo. Le autorità sono attonite e costernate e le indagini proseguono a tutto campo. Ho chiesto con Edera di nascondere lo Sten dentro la mia tomba, non vorrei che proseguissero anche a tutto camposanto.
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