La tempesta ‘imperfetta’


di Enzo Buscemi

Eravamo arrivati a Saint Tropez il 14 luglio del 1959. La Francia  era in festa.

Tra la folla, un incontro inaspettato. Uno sconosciuto (poi, rivelò di arrivare da Barcellona Pozzo di Gotto, dove allora vivevo), mi viene incontro. Mi chiama per nome, e, mi abbraccia.

Non avevo idea di chi fosse. Dimostrai, ugualmente di conoscerlo e di gradire l’evento. Scambiammo le prevedibili, frasi d’occasione. Ma non gli chiesi come si chiamasse.

Ci disperdemmo tra la folla vociante.

Non l’ho mai rivisto.

La sosta a Saint Tropez fu abbastanza breve. Per la notte, ci spostammo, di una decina di chilometri, oltre Ramatuelle, verso nord, a Pampelonne. Nei pressi di una pista da karting.

Viaggiavamo in tre. Mio cugino Attilio (con la sua Alfa 1900, e un inseparabile guanciale) e, Agostino, un amico comune, scomparso innanzi tempo.

L’indomani, ci impegnammo sui Kart. Pranzammo insieme alla proprietaria della pista, e a una sua parente.

Una bella ragazza. Guidava il kart in bikini. Me ne sfugge il nome. Ma, ricordo, abitava in Rue Spontini, a Parigi.

 

Spaghetti galeotti

Cucinai degli spaghetti, dalla piccola scorta che avevamo al seguito, ed ebbero successo.

La permanenza (lì vicino c’era la villa di Brigitte Bardot) si protrasse per qualche giorno.

Il contesto era molto gradevole. La nostra meta, però, era lì di fronte. Nel golfo del Leone.

Île du Levant. Isoletta famosa allora, negli Anni 60, per una colonia nudista che ne occupava una porzione sulla costa di nord est.

Lasciammo l’Alfa in un parcheggio sicuro, e ci imbarcammo su un qualcosa, spacciato, pomposamente, per “traghetto”.

 

Ma le valvole

Sorta di peschereccio, di nemmeno dieci metri, arredato con due lunghe tavole, ad imitazione di sedili, lungo i bordi dello scafo.

In mezzo, il motore. Un ansante Diesel, con le molle delle valvole a cielo aperto. A denunciare, senza ritegno, un’età molto matura.

Il propulsore preoccupò, subito, me e Attilio piuttosto esperti di meccanica. Era incastonato in uno scatolone di legno. La protezione delle valvole, necessariamente in continua e agitata alternanza, era affidata ai due sportelli, superiori, aperti ad ali di gabbiano. Di foggia, molto simili, a quelli di un’antica ‘credenza’ da cucina. Con la cornice in legno a reggere un normalissimo, vetro da infissi.

Con mio cugino ci interrogammo, silenziosamente. Ma, certo, si poteva rischiare, se Attilio, esperto di marineria, contrariamente dal sottoscritto, non suggerì di sbarcare prima che il trabiccolo si avviasse.

D’altro canto, giornata splendida, calma piatta e un leggerissimo zefiro, erano elementi di conforto.

 

Mon capitaine

Il ‘capitaine’ (così, ufficialmente, abilitato dalla scritta sul suo, sformato, berretto), primo e ultimo uomo dell’equipaggio, si insediò, a prua. Nella striminzita cabina di comando che sovrastava un piccolo vano con due piccole panche ai lati. Capaci di ospitare solo due o tre passeggeri, purché tenessero la testa molto bassa.

Un braccio emerse da quella sorta di garitta. Il cenno era atteso, sul molo, da un inserviente.

Si affrettò a ritirare la piccola passerella, e sganciare la gomena dal massiccio supporto d’ormeggio.

Una preoccupante fumata, seguì l’ansare del vecchio Diesel, tirato su di giri, per spingere la barca.

Si potevano contare i battiti dei pistoni. Sulla testa del motore le molle delle valvole lavoravano irrorate da rivoli di nero lubrificante.

La barca era stracolma e l’acqua lambiva lo scafo appena sotto il bordo dei parapetti…

Era istintivo, pensare all’esito di un malaugurato problema. Il materiale di salvataggio era, ironicamente, limitato a due classiche ciambelle, legate sul retro della cabina di guida. Meglio cambiare discorso.

La ‘traversata’ durò meno di un’ora. Avevamo costeggiato, ma non vicinissimi, una lunga spiaggia popolata da uomini di divisa mimetica. L’addestramento dei Corpi Speciali.

Il resto della costa era apparentemente disabitato. Nessuna costruzione, né segni di strade e relativa animazione.

Entrammo nel porto di Île du Levant. Delizioso, quasi completamente chiuso dalle estremità di un ferro di cavallo disegnato da alte colline, e che si chiudeva, in fondo, con un altopiano.

Unico baluardo a rendere invisibile un poligono di tiro, come era emerso dalle notizie ufficiali, per le esercitazioni dei Corpi Speciali dell’Armée de terre.

L’approdo, ospitava soltanto alcune barche. Dei pescatori indigeni, a ridosso dei loro scafi, erano impegnati a rammendare le reti stese sulla banchina.

Sbarcammo e, come il resto dei passeggeri, profittammo dei taxi, semplici motocarri, per raggiungere la sommità della collina dove installare la nostra tenda.

 

Eravamo in tre

Un vero reperto. Era già stata piantata, diversi anni prima, in quel luogo. Anche allora eravamo in tre. Viaggiammo su due infaticabili Vespe. E, anche il viaggio fu, ‘goliardicamente’ molto più pittoresco.

La tenda, non era un miracolo di design. Costituita da grandi teli militari, era sostenuta da leggeri tubi, da ‘volgarissimo’ impianto idraulico, tagliati su misura.

Installazione molto ‘sui generis’, senza dubbio, ma in grado di offrire più spazio di un’altra, omologa, convenzionale.

La prima notte andò abbastanza bene. Difficile soltanto, al mattino, svegliare Agostino. In seguito, esausti, usammo la pistola scacciacani del corredo di ‘sicurezza’.

Sulla spiaggia, era obbligatoria la tenuta adamitica. Facile a dirlo ma, in quanto, a vestirsi di nulla, coram populo, ce ne corre. Ci sacrificammo, in odore di auspicate, esaltanti, conoscenze.

A parte una singola visione, fu inutile. Anche nei giorni successivi. Al punto che finimmo per passare più tempo in compagnia di alcuni simpatici cittadini britannici. Delusi, come noi, dalla assoluta mancanza di fauna, accettabile, per intrecciare una piacevole amicizia.

Sembrava fossimo capitati in tempi governati da editti oscurantisti. E, inoltre, l’età media degli ospiti della colonia viaggiava su cifre pesanti.

E l’aspetto, era in carattere.

 

Il tifone

Una noia mortale. Così, avevamo deciso di lasciare l’isola. In anticipo. Una specie di tifone, accelerò il programma. Accadde durante la notte.

Un vento, fortissimo, strappò la tenda dai robustissimi paletti. Riuscimmo, faticosamente, ad evitare che finisse in mare. I turbini non ci concessero tregua. All’alba, eravamo pronti alla partenza.

Sembrava che il vento si fosse calmato. Nel porto, ai piedi della collina, il mare era appena increspato. Azzurro, già nelle prime luci dell’alba di un giorno sereno. Tentammo delle osservazioni sull’orizzonte. Limpido. Sembrava tutto tranquillo.  

– Possiamo partire. Al traghetto sapranno certo quali siano le condizioni del mare.

Nemmeno mio cugino si preoccupò. Un mototaxi ci portò al porto. Una ventina di persone era già in attesa dell’arrivo del traghetto.

La Queen Mary, molto casereccia, arrivò. Fumava senza ritegno, si annunciò con un lungo sgradevole gorgoglio di quello che, una volta, era suono di marittima tonalità.

Ne sbarcarono una decina di passeggeri. Ci sembrarono tranquilli.

Il mare, sicuramente era calmo. La deduzione.

D’altro canto, intorno e, all’imboccatura del porto, non si vedevano onde. Solo il vento era tornato ad aumentare. Mancavano quasi due ore, alla partenza. C’era tempo per ritrovare la bonaccia.

 

E voilà monsieur

Andammo alla ‘baracca bar’ sperando di trovare le baguette appena sfornate. Non c’erano. Di caffè inutile parlarne. Quello francese è tra i peggiori del mondo.

Il cameriere, lo stesso che ci serviva nel ristorante che avevamo frequentato, propose il solito “E voilà monsieur. Eau Perrier?”

“No. Merci”

Aveva, di nuovo, tentato di farci bere, quella gasatissima acqua minerale. Non gli era mai riuscito. Riprovava in extremis: “No, grazie”. In italiano, forse gli sarà più chiaro.

Ci mettemmo in coda al gabbiotto della biglietteria in attesa dell’apertura. 

Viso al sole per migliorare l’abbronzatura, e chiacchiere varie.

L’addetto alla biglietteria aprì lo sportello. Fu il nostro turno, e prendemmo i voucher.

Il ‘capitaine’, lo stesso dell’andata, accanto alla passerella finì di controllare i biglietti.

Salì a bordo, sembrò stringere un nodo del cordino della tenda, stesa sopra i sedili, e si avvicinò al motore. Uno sguardo di controllo o, forse, di rispetto per l’età.

Girò la chiave sul mini cruscotto con due soli strumenti, dal vetro completamente appannato, e diede vita all’anziano artigiano del mare.

Il vecchio Diesel emise un profondo singulto che si trasmise al vecchio scafo. Uno sbuffo di fumo, nerissimo e puzzolente, ne certificò l’avvio.

Il comandante ‘supremo’, disse qualcosa in francese che non capii. Fece segno di ritirare la passerella e staccare gli ormeggi. L’addetto sul molo eseguì. Lui si infilò nella cabina di comando.

 

Si parte

Vibrando, il piccolo natante si mise in moto. C’erano più passeggeri del viaggio di andata.

Si erano sistemati sui lunghi sedili ai lati del propulsore. Agostino, già imbambolato per la notte in bianco, si appropriò di una delle due panche, sottocoperta (si fa per dire), e crollò di schianto.

La barca stava guadagnando l’uscita dal verde ferro di cavallo. Solcava la distesa, senza onde, di un mare di azzurro intenso.

Arrivammo all’uscita del porto. La rotta prevedeva che ‘il traghetto’ facesse il mezzo giro dell’isola, per puntare ad ovest, su Le Lavandou. Un tragitto breve.

In passato, nella mia prima visita sull’isola, mi ero documentato. Era quasi un grosso scoglio. Non arrivava a dieci chilometri di lunghezza, ed era larga soltanto un paio. L’esercito ne occupava più della metà. All’andata, il costeggiamento era durato una ventina di minuti. Lo stesso, immaginavo per il ritorno.

Eravamo appena usciti dal porto. La prua della barca, di colpo, si impennò. Come se avesse attaccato una salita ultra ripida.

Con mio cugino, eravamo rimasti in piedi. Facemmo in tempo ad afferrarci a un supporto della tenda per non cadere. 

– Ma che diavolo succede?

Neanche il tempo di finire la frase che la barca cambiò assetto e puntò, violentemente, verso il basso. Precipitammo in una voragine. Sembrava non finisse mai.

 

Montagne e burroni

Il cielo si era orrendamente oscurato. Come nella rappresentazione del Golgotha. In uno dei tanti film sul martirio di Cristo.

Ci guardammo con Attilio. Lo vidi molto preoccupato. La barca stava arrampicandosi su una china, quasi verticale. L’ululare del vento e gli spruzzi delle onde, rendevano la scena quasi apocalittica.

Il saliscendi, in balia degli orribili picchi del mare infuriato, era sempre più forte.

Vedevamo davanti alla prua montagne d’acqua e le scalavamo con l’ansare, sempre più affaticato, del vecchio motore.

Nemmeno un attimo di pausa. Ancora montagne da superare e poi, dalla cima l’orribile precipitare, in baratri senza fondo.

I passeggeri piangevano, si abbracciavano.

Poi uno schianto, dalla zona del motore, ci gelò. Frammenti di vetro schizzavano dappertutto.

Un’ondata aveva frantumato il vetro di uno degli sportelli che proteggevano il propulsore. Con Attilio, ci precipitammo a pescare i frammenti caduti nell’olio, sul piano della testata, intorno al meccanismo delle valvole.

Istintivamente. Sapevamo che, se uno di quei pezzi fosse finito tra le spire di qualche molla, la valvola corrispondente si sarebbe spezzata.

Quel che ne restava, sarebbe finito dentro il motore con un blocco immediato. Qualcosa di molto simile, sarebbe capitato anche a noi. Con quel mare, la sopravvivenza sarebbe stata impossibile.

Continuavamo a scottarci le dita, prendendo i pezzetti di vetro nell’olio bollente. 

Il capitano, aveva sicuramente sbagliato.

Al primo accenno di tempesta avrebbe dovuto rientrare in porto. Ne eravamo appena usciti e, sarebbe stato facile e, razionale, tornare al riparo. Non capivamo come quel signore che, ora nel turbine della tempesta stava, invece, governando alla grande, non si fosse reso conto del disastro nel quale ci aveva coinvolto. Incoscienza o, becera, totale incompetenza?

Nel frattempo, riusciva a non farci capovolgere. Amministrava perfettamente la trazione del natante. Attento a dare  potenza al motore e a toglierla, quando serviva. Così, fendeva l’incalzare delle altissime onde, da autentico ‘lupo di mare’, senza mai sbagliare l’orientamento della prua.

Comportamento inspiegabile. Il nostro tormento continuava. Immersi in un’eternità di terrore.

Mi imponevo, come mio cugino, di mantenere la calma (solo apparente, senza dubbio) per ragionare con migliore lucidità. Per quanto, in quei momenti, potesse servire.

Le onde, mostruose, continuavano a colpirci nel vano, fino a quel momento, tentativo di mandarci in fondo.

La violenza della tempesta sembrava aumentare. La scalata alle montagne non finiva mai. Come il precipitare, in orridi senza fondo.

 

Voglia di resistere

Stranamente, nell’incalzare della paura, si facevano strada sensazioni e pensieri. Non proprio calzanti a quei momenti.

Ma, diventavano risorse, ricche di un inaspettato sostegno, a resistere.

Un affollamento di immagini e di situazioni, lontanissime da quel tormento feroce. Forse, ripensandoci facevano parte di certe, preziose, riserve di sopravvivenza, che non sappiamo di possedere.

Ricordi di amici, di persone care. Di antiche vicende vissute. Come proiezioni che appaiono e si dissolvono, per cedere il passo ad altrettante scene che ripeteranno lo stesso iter.

Ma questa montagna sembra più alta delle precedenti. Riusciremo a superarla?

Domande ovvie, per distrarsi dalla vicinanza di una fine, impossibile da scongiurare, per un epilogo, senza chiara destinazione.

Il piombare nella infinita voragine di un mare, ormai trascolorato dall’azzurro più intenso a un bieco color del fango, che si saldava al cielo, ancora più scuro, alla scalata ad ogni onda. E se ne allontanava, allo spalancarsi del baratro davanti alla nostra piccola prua.

Da quanto tempo eravamo in balia di quella furia. Un’eternità o un attimo? La paura e il ragionamento, che tenta di combatterla, non scandiscono il tempo.

Qualcosa, forse, sta cambiando?

Ci interroghiamo senza parlare.

Perché, sembra sia arrivata una folata di quiete.

Agostino, lo si intravede su quella panca, dorme nella sua invidiabile incoscienza.

Il motore sta salendo di giri ma non c’è la continua interruzione del ‘dai e togli gas’ nella necessità di mantenere la rotta di salvezza.

Si ascolta la riduzione del regime che, adesso, rimane costante.

La barca non sobbalza? No, davvero.

I passeggeri continuano a piangere. Qualcuno, però, ha smesso, e dice qualcosa al suo vicino di posto.

Il suono di quello che una volta, era nota baldanzosa, echeggiò, rauco.

L’annuncio dell’entrata in porto.

O, dello scampato, assurdo, pericolo.

In altra sede, così, raccontavo a un’amica, di quelle ore terribili.

 

Mai più

Finalmente, per intercessione di qualche parente di Nettuno, la quasi emula della zattera della Medusa, ha preso terra. Piangevano, e si abbracciavano. Tutti.

Io viaggiavo con due amici. Siamo sbarcati. Con calma, in silenzio.

Da laico, mi sono trasformato in suddito degli alti comandi’.

In ginocchio, ho baciato il suolo.

Con solenne promessa, di non navigare su natanti di stazza inferiore alle 50.000 tonnellate, e di nuotare, solo, a poche decine di metri dalla battigia.

 

Gamy Moore
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