Io detesto le trasformazioni. Ricordo quando avevo undici anni e la mia amica del cuore mi spiegò il ciclo mestruale; io la guardai disgustata e un po’ risentita. Cosa vuol dire per una settimana piscio sangue così sono sicura di non essere incinta? E che cosa devo fare, passare una settimana seduta sulla tazza del water? Eh? Mi devo mettere i pannolini come i neonati? Se no vuol dire che sono incinta? Ma come si fa a rimanere incinta? Ecco, questo “fatto della vita” non ci era ancora stato spiegato. Quando la trasformazione arrivò, mi ci vollero diversi anni per accettarla; il sangue che colava nei momenti meno opportuni, magari a scuola o a una festa, la puzza di marcio, gli incomprensibili divieti di mia madre, come quello di lavarsi i capelli, il fagotto da portare in mezzo alle gambe, incellofanato in una mutanda di plastica, la difficoltà a fare le cose più normali, come andare in bicicletta. Finché un’amica non mi offrì un Tampax e l’incubo finì. Non le mestruazioni, ma lo stato di invalidità a cui mi avevano costretto fino a quel momento. Un piccolo tampone interno nascondeva la trasformazione ed io potevo fare una vita normale, portare i jeans, la minigonna, il bikini, nuotare, correre, ballare. La trasformazione era stata resa innocua.
A un certo punto della mia vita ho dovuto affrontarne una più impegnativa. Avviene sempre una volta al mese, come l’altra, e stando attenta alle fasi della luna la posso prevedere al minuto, però per quella notte mi devo tenere libera. Adesso, una volta al mese sono un lupo mannaro, con peli, artigli, zanne e tutto l’armamentario di effetti speciali stile B movie. E sono anche un grosso lupo mannaro, divento alta tre metri e il mio testone tiene il posto di una finestra. Come mi è successo? Un’escursione in montagna. Mi è sempre piaciuto camminare da sola, sto via anche per giorni lungo i sentieri dell’Appennino, porto tutto l’equipaggiamento in uno zaino, la tenda, le provviste, il sacco a pelo. Sono piuttosto esperta e non mi sono mai capitati incidenti, al di fuori di quella volta. Era agosto e mi era venuta voglia di vedere le stelle cadenti dalla cima della cascata dell’Acquacheta; mi sono accampata sul pratone, ho steso il sacco a pelo e mi ci sono sdraiata sopra, per trascorrere la notte di san Lorenzo da sola con il cielo. C’era la luna piena e stavo talmente bene che mi sono addormentata. A metà della notte ho sognato qualcosa di caldo, un respiro avvolgente, mi sono svegliata e con la mano ho toccato una pelliccia morbida. Quando ho realizzato che accanto a me, sul sacco a pelo, dormiva un lupo, anzi, più che un lupo, la madre di tutti i lupi, una creatura grande come una motocicletta, ho sbagliato reazione. Ho urlato. E il lupo ha reagito da lupo, mi ha morso. Dopo si è tanto scusato, non voleva farlo, ma gli era venuto istintivo, come per me urlare.
Il morso mi aveva quasi staccato un braccio, ma con la sua saliva il lupo, che mi ha detto di chiamarsi Kolima, ha curato la ferita quasi istantaneamente, però capivo che mi doveva confessare qualcosa. Era molto imbarazzato, troppo per un semplice morso che stava guarendo da solo. Sul momento non mi sono meravigliata nemmeno di sentirlo parlare in corretto italiano, anche se con un forte accento russo, non ero nello spirito di sorprendermi di altro che non fosse il mio braccio a penzoloni, ma quando i miei arti sono stati in sicurezza, Kolima mi ha pregato di stare tranquilla e di ascoltarlo senza urlare, perché gli strilli gli provocano reazioni incontrollabili. E mi ha spiegato che cos’era. Un lupo mannaro, o metalupo, come si chiamano tra di loro. A me non sembrava un problema, in genere non ho pregiudizi riguardo agli animali, escluso mosche e zanzare, ma lo era, eccome. Il morso era contagioso e anche io sarei diventata un metalupo. Non per sempre, solo una volta al mese, nella fase di luna piena, ma per tutta la vita.
Kolima ha cercato di spiegarmi cosa comportava la trasformazione, e a me pareva di impazzire. Mi ero appena liberata dalle mestruazioni, ero fresca di menopausa, e me ne era piovuta in testa una nuova, a causa della quale ogni mese, con la luna piena, mi sarei trasformata in lupo e mi sarei nutrita di carne umana. Gli ho detto Kolima, ho smesso di farmi le canne e ho bevuto solo un paio di birre, domattina ne parliamo. Lui mi ha visto poco convinta e ha detto va bene, dormiamoci sopra. La mattina dopo non c’era più e io mi sono rimessa in viaggio, sicura di avere sognato.
Mentre tornavo a casa mi sono fermata dal nonno, al cimitero. Gli racconto sempre delle mie escursioni e gli faccio vedere le foto con la digitale, si diverte tanto. Per stare in pace ci vado la sera tardi, mi arrampico su un albero e scavalco il muro di cinta, poi mi siedo sulla tomba, lui arriva e insieme ci beviamo qualcosa. Guai ad arrivare dal nonno a mani vuote, la prenderebbe come un’offesa personale. Al cimitero ho due amici, lo zio Silas e la signorina Lupescu. Lo zio Silas somiglia allo Stregatto e la signorina Lupescu sembra un incrocio tra svariate razze canine, tutte di grossa taglia. È stata proprio lei a sentirmi addosso un odore sospetto e a farmi delle domande imbarazzanti su chi avevo frequentato in vacanza. Dal mio punto di vista non mi era successo niente, avevo solo sognato, dal suo, invece, pareva di no. Secondo lei era tutto vero, anzi, puzzavo di lupo mannaro fresco di giornata, e mi ha raccontato la stessa versione dei fatti sentita da Kolima, che addirittura pare sia un suo lontano parente. Sono certa che mi credete quando vi dico che non è stato facile mandare giù un simile rospo. La signorina Lupescu mi ha spiegato che non solo è possibile uccidere e mangiare delle persone una volta al mese, ma che è possibile uccidere e mangiare delle persone una volta al mese e adorarlo. E mi ha dato appuntamento per la luna piena successiva, promettendo di venire a prendermi a casa.
Io non ero molto convinta, ma per quella sera non ho preso impegni. Mi sentivo un po’ nervosa e leggiucchiavo qualcosina sul divano, aspettavo e non sapevo cosa. A un certo punto mi è preso un feroce mal di testa e ho sentito forti crampi alle mani e ai piedi. Istintivamente mi sono spogliata: gli abiti, e soprattutto le scarpe, mi davano fastidio. Con un inspiegabile senso di distacco ho visto le mie mani diventare pelose, le unghie crescere, la faccia che si allungava e tutti quei sintomi che per anni avevo letto nei racconti e nei fumetti, o visto nei film. Quanti me ne ero sparati, fin dallo sceneggiato del dottor Jekyll e mister Hyde che mi era tanto piaciuto quando ero piccina. Già. Un attimo sei la piccola Bea, otto anni, seduta sulla capote della Topolino con gli altri cugini, con lo zio che vi porta a mangiare il gelato. L’attimo dopo sei questa cosa, e ti sembra pure normale.
Ho sentito un ululato sotto la finestra, mi sono affacciata e ho visto la signorina Lupescu che mi faceva cenno di saltare. Cazzo, ma abito al terzo piano, ho creduto di dirle, ma mi è venuto fuori un guaito e l’impulso di balzare sul marciapiede. Atterraggio perfetto, sulle quattro zampe, come se non avessi mai fatto altro fin dalla nascita. La mia guida si è messa a correre lungo i viali di circonvallazione, raccomandandomi di stare nascosta tra le siepi e gli alberi, di non farmi notare, perché la nostra diversità, come la chiama lei, non è tanto amata dagli umani normali. Io invece ero felicissima, ho fatto il giro della piazza tre volte di corsa, e per fortuna che il Comune è povero e tiene accesi solo un paio di lampioni, ma la signorina Lupescu mi ha preso a morsi nei garretti e mi ha costretto a dirigermi verso il parco, che di notte è chiuso e deserto. In quella serata inaugurale voleva farmi sgozzare un coniglio, ma io sono vegetariana e non mangio carne di animali, così ho attaccato un ubriaco che smaltiva la sbornia su una panchina. Sono tornata a casa con un tasso etilico da ritiro immediato della patente e la povera signorina Lupescu si è dovuta mangiare tutti i resti, leccare il sangue e buttare i brandelli di abiti nella spazzatura.
Di quella notte ricordo solo la puzza di fegato sotto le unghie e l’acqua della doccia che scorreva rossa tra i miei piedi. Non so come ho fatto a ritrovare la finestra di casa, so solo che al mattino dopo la mia guida sonnecchiava sul divano e quando mi ha visto barcollare fuori dal letto, di nuovo in sembianze umane, mi ha preso in giro di gusto. Eh, prima dicevi “Non ce la farei mai, piuttosto mi ucciderei”, ma nella realtà è come dicevo io. Nella realtà uccidi e mangi qualcun altro. E ti piace, cazzo, quanto ti piace… Hai il sangue che luccica sulle dita e ti imbratta i peli delle braccia e del muso, poi la mattina dopo ti svegli nel tuo letto, tra le lenzuola che profumano di ammorbidente, lavi bene il piatto della doccia e ti fai il caffè. Io ero in stato confusionale, per fortuna quel giorno era festa e l’ho passato chiusa in casa con la signorina Lupescu a parlare della trasformazione. Ormai mi era capitata e dovevo accettarla, e avevo solo un mese di tempo per prepararmi alla successiva.
La principale causa del contendere era la scelta della preda. Io ero anche contro la caccia, non mi piaceva uccidere creature innocenti, e insistevo che la vittima andava scelta tra chi meritava di morire. E chi si merita di morire? sogghignava la mia amica. Io non avevo dubbi, il primo ce l’avevo piantato in testa come un chiodo della croce di Cristo. Quel maledetto del mio kapetto, uno stronzo rampante che si faceva un motivo d’onore il rendermi la vita indegna di essere vissuta e il convincermi che avevo solo una scelta sensata, il suicidio. Quando c’era stato il fatto dell’impiegato delle Poste oppresso dal mobbing, che aveva sparato in testa alla sua direttrice, io avevo fatto la ola, gli volevo mandare un mazzo di fiori e l’unica cosa che mi addolorava era che il poveretto avrebbe finito i suoi giorni in galera. Adesso avevo la splendida opportunità di vendicarmi senza rischi. Come avrebbe fatto la polizia ad accusarmi di aver sbranato il mio capufficio? Solo Kolima e la signorina Lupescu sapevano che io ero diventata un metalupo, e anche il nonno e lo zio Silas, ma non erano certo i tipi da raccontarlo in giro.
Però inspiegabilmente vedevo la mia amica un po’ sarcastica, un po’ troppo. Per un mese le ho chiesto che cosa c’era sotto, e per un mese lei mi ha risposto con un sogghigno da Stregatto, finché ho mandato al diavolo lei, lo zio Silas, Alice nel Paese delle Meraviglie e Lewis Carroll. Diamine, avevo la possibilità di rimediare a torti che subivo da anni, e non me la sarei fatta scappare. Sapevo dove abitava lo stronzo, una villetta a schiera in un bel quartierino residenziale popolato da rampanti come lui, con mogli mediamente giovani e carucce che li riempivano di corna, due figli a testa, un maschio e una femmina, l’apparecchio ai denti e l’I-Phone. Quel mese me lo sono goduto come non mai. Non è facile prendere sul serio l’arroganza dei capetti quando pensi che alla prossima luna piena ti sarebbe bastata un’occhiata per farli frignare come bambini al primo giorno di asilo, e poi avresti strappato loro i reni come vol-au-vent. Immaginavo gli artigli della mia mano a cucchiaio, che asportavano un cuore ancora caldo, e la mia bocca grande come un forno a microonde, che lo succhiava a mo’ di oliva del Martini. Che godimento…
La signorina Lupescu ha insistito per accompagnarmi, è sempre stata così materna nei miei confronti… Ho visto molto preoccupato anche il nonno, e lo zio Silas era più enigmatico del solito. Io sembravo una sedicenne alla prima uscita serale, aspettavo la trasformazione con una tale ansia che mi ero già spogliata almeno un paio d’ore prima del sorgere della luna. Quando ho visto spuntare i primi artigli stavo andando in orgasmo. Il salto dalla finestra mi è riuscito di nuovo alla perfezione, abbiamo attraversato la città con le ali alle zampe e ci siamo fermate solo sul retro della villetta. Il mio tormentatore era in pigiama, davanti alla TV. La moglie e la figlia erano già a letto. Mi è bastato appoggiare una delle mie zampone alla porta per abbatterla e la scena di lui che, col telecomando ancora in mano, si gira verso la fonte del rumore e vede il muso di un lupo grande come una Harley Davidson, vi giuro, non ha prezzo. Mi ero preparata sull’anatomia umana e come prima cosa gli ho strappato le corde vocali con un morso, per non allarmare i vicini, poi mi sono lanciata con entusiasmo sul fiero pasto. Però… Cazzo, l’odore è un problema, questi rampanti puzzano di merda di maiale e carne putrefatta. E il sapore? Disgustoso, sembrava di mangiare un cadavere morto da un mese.
Mi sono sentita male e ho cercato di vomitare, ma c’era un terzo problema. Che non conoscevo. Noi lupi mannari non mangiamo soltanto il corpo della preda, ma anche l’anima, e la vita ingerita lotta per un posto nella nuova prigione del nostro stomaco. Così si fa fatica a vomitarla, perché lei vuole rimanere dentro mentre il nostro essere si rifiuta di contenere un tale cibo spazzatura, e cerca di rigettarlo. Non sono schifiltosa, ma per noi lupi mannari ingoiare uno di questi capetti rampanti è come per voi cibarsi di un hamburger andato a male in un Mc Donald col frigo rotto da una settimana. Insomma, dopo qualche morso avevo la nausea e ingoiare il cuore mi ha dato il colpo di grazia, ero distrutta dai conati ma non ero capace di buttarlo fuori. Intanto la moglie al piano di sopra aveva sentito i rumori e stava scendendo le scale. La signorina Lupescu ha lanciato un ululato da film e mi ha costretto a scappare con lei verso il Pronto Soccorso, dove mi ha fatto bere almeno dieci litri di sangue dalle sacche per le trasfusioni. Poi mi ha costretto al ritiro in casa.
Ero avvilitissima, e arrabbiata con lei perché non mi aveva spiegato prima a che cosa andavo incontro. Pare che fosse stato il nonno a raccomandarsi di farmi fare di testa mia, che tanto non avrei dato retta, ed è vero. Non stavo più nella pelle all’idea di riscattare anni di torti subiti, e avevo già in mente la lista di tutti quelli di cui mi sarei vendicata in seguito… Il nonno, lo zio Silas e la signorina Lupescu non se l’erano sentita di deludermi. Adesso però avevo provato, e sapevo che cosa voleva dire.
Con la polizia non ho avuto problemi, non sono riusciti a capire chi, o che cosa, era stato, e nessuno ha pensato a me; non avevo neanche un cane, e il tipo di ferite non erano tali da poter essere imputate a una signora quasi sessantenne. Però non mi sono voluta dare per vinta. Il mese dopo ne ho scelto un altro, che non a caso abitava nello stesso quartiere. Stanno tutti lì, gli stronzetti, in quella zona c’è una concentrazione di merda umana che nemmeno alla foce del Po. E questo me lo sono mangiato tutto, per quanto schifo mi facesse. Un morso dopo l’altro, ho ingoiato cuore, fegato, reni e polmoni, poi lo sono andata a vomitare con calma nel canale e per rifarmi la bocca ho svaligiato una rosticceria. Credo di essere l’unico lupo mannaro che si nutre di polli allo spiedo. Le autorità brancolano nel buio, e quando hanno cominciato a capire che le vittime lavoravano tutte nello stesso posto, i miei rampanti preferiti erano già stati eliminati tutti ed ero passata a quelli di dove lavoravo prima. Ormai è passato un anno e ho epurato circa una dozzina di capetti; dal mio punto di vista il mondo è un posto migliore e i polli allo spiedo me li compro in anticipo, li tengo in casa e li mangio dopo che mi sono fatta la doccia. Lavo via bene tutto il sangue e poi ci bevo su una cassa di birra, alla salute di Kolima.
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