L’amico più caro


di Enzo Buscemi

Le vidi arrivare sullo stradone che da Barcellona arriva a Castroreale, il mio antico paese. Erano all’ultimo tornante, quello visibile dalla nostra terrazza.

Stranissime automobili, senza tetto, con un grosso muso squadrato, cariche di soldati con eleganti camicie e pantaloni, attillatissimi, beige chiaro.

Scalarono con disinvoltura l’ultima rampa e sbucarono sulla piazza del duomo. Tra la cattedrale barocca e il nostro antico palazzo.

Gli fu intorno, festante, quasi tutto il popolo del paese. I militari ricambiarono offrendo, grandi, candide pagnotte, pacchetti di sigarette e quelli che sembravano biscottini avvolti in carta colorata.

Seppi, poi, che si trattava di gomma. Addirittura da masticare. Che strano. Nessuno, allora, ne conosceva l’utilizzo. E furono in molti a inghiottirne in quantità.

Dopo essersi, inutilmente, stancati a masticarli.

Erano gli ultimi giorni dell’agosto 1943.

L’avrei appreso in seguito.

Ancora piccolissimo, abbracciato ai ghirigori del ferro battuto della sontuosa ringhiera, ammiravo, ad occhi sbarrati, quella incredibile colonna.

Da subito, mi innamorai di quelle epiche macchine da guerra. Ne appresi il nome solo in seguito e, non immaginavo che, quel veicolo essenziale, sarebbe diventato una delle mie passioni.

Molti anni dopo ne avrei posseduto uno.

Restaurato con pazienza, è nel mio garage e, sessantotto anni dopo, a Bologna, al “Museo del patrimonio”, ne avrei raccontato la storia in una conferenza che intitolai, “Jeep, leggenda a quattro ruote”. Appunto.

 

L’esordio potrebbe sembrare inconciliabile con quanto racconterò, e che non tratta di automobili. Tutt’altro.

All’inizio della guerra, Papà era stato destinato al fronte russo. Un malaugurato, quanto ‘provvidenziale’ problema cardiaco, ne escluse la partenza. Grazie ai suoi studi, fu assegnato all’Istituto Geografico Militare di Firenze.

Ma i problemi al cuore aumentarono. Ulteriori ricoveri in ospedale, e poi a casa, in convalescenza.

In quei giorni, accade quel che sappiamo e, con l’armistizio (che il resto del mondo chiamò ‘resa’), l’epilogo della tragedia.

Il marasma che seguì, per molti versi, fu ancora più drammatico. Strascichi di guerra civile, e di violenze. Vendette personali, e molto altro ancora. 

 

Il costo della bontà

A mio padre, ventunenne, un paio d’anni prima dello scoppio della II guerra mondiale, era stato conferito un importante incarico politico-amministrativo.

Lui, solitamente molto schivo, solo dopo molte pressioni, lo aveva accettato.

La posizione gli concedeva molto potere. Ne profittò per evitare, a chi ne fosse stato colpito, punizioni e altri guai, politici e non solo, consuetudine, all’epoca, piuttosto comune.

Secondo la sua innata vocazione alla generosità, salvò dal ‘confine’ (destinazione di gran moda nel periodo), forse  anche chi lo avrebbe meritato, per essersi macchiato di reati di ‘lesa maestà’, di mini errori in tema di ‘spese d’ufficio’ e altri, simili, reati.

Spesso, per salvare i ‘rei’, Papà rimborsava segretamente, di tasca propria, gli ammanchi.

“Sono padri di famiglia costretti dalla necessità. Bisogna compatirli”, li giustificava.

Me lo raccontò, in seguito, Mamma.

Per questo, durante la sua amministrazione, di epurati, proprio, non ce ne furono. Al contrario di sensibili emorragie dal nostro patrimonio. Causa ‘elargizioni riparatorie’.

Di questo seppi, ovviamente, molti anni dopo.

Amici di famiglia e, addirittura molti dei ‘graziati’, con le lacrime agli occhi, mi raccontarono della generosità di mio padre.

Negli Anni 80, dopo la morte di Mamma, cercai di vederlo il più possibile.

Andavo in Sicilia e lo portavo a Roma o, a Torino, per trovare Fabio (più che nipote, un suo amore morboso), che vi si era trasferito con la madre, dopo il nostro divorzio.

 

Missione impossibile

Quella volta, la primavera del 1983, Papà era a casa mia, a Roma. In Sicilia era stato poco bene e avevo preferito averlo vicino. Avevamo in programma di andare a Torino. Ma i disturbi si accentuarono. Convocai, a casa, un noto cardiologo che mi rassicurò: “Nulla di preoccupante”.

Invece, quella stessa notte Papà accusò pesanti difficoltà di respirazione.

Al mattino, telefonai a una giovane dottoressa, mia amica. Avanzò dei dubbi sull’ultima diagnosi, e mi combinò una visita con una nota otorinolaringoiatra. Ci andammo in mattinata. Immediata la sentenza: “Carcinoma alla laringe”. E ci programmò l’immediato ricovero alla clinica universitaria.

Un dramma. Non riuscii ad evitare una crisi profonda.

Già vent’anni prima, il male del secolo aveva colpito Papà alle corde vocali. Irrinunciabile l’immediato intervento. Lo aveva eseguito, a Palermo, Ermanno, un nostro cugino che, chiamavo zio per ragioni di età.

Lo ammiravo e, sinceramente, gli volevo un gran bene. Primario ospedaliero, già famoso chirurgo-otorino e specialista in interventi al cervello.

Usò una tecnica al limite dell’incredibile.

Sfatando l’allora, obbligata, routine della resezione delle preziose corde, Ermanno scelse una via apparentemente impossibile.

Decorticare le neoplasie, dalle corde vocali. Esperimento assurdo, solo a pensarlo.

Strappare le cellule maligne, da un supporto delicatissimo ma, soprattutto, spesso soltanto un paio di millimetri.

Non esisteva la favolosa, attuale strumentazione. Niente fibre ottiche per la visione, né  radiobisturi, laser, ultrasuoni, né altro. Solo l’affilato bisturi tradizionale e, nel caso specifico, mosso da mani di miracolosa, sapiente, sensibilità.

L’operazione, eseguita accedendo dalla parte anteriore del collo, durò, se non ricordo male, circa sei ore.

Le corde, così, decorticate ovviamente sanguinavano. Impossibile cauterizzarle, sennò l’intervento, così sofisticato, sarebbe stato inutile. E niente più voce. Proprio ciò che il chirurgo aveva, estremamente, tentato di salvare.

“Non c’è altro da fare”, ci disse Ermanno, “Potremo attendere, al massimo, 24 ore. Se l’emorragia non cesserà, dovrò cauterizzare e sarà tutto perduto”.

Il sanguinamento si fermò dopo 23 ore. Papà non perse la voce.

Il post operazione prevedeva che il paziente, per diversi giorni, osservasse un assoluto silenzio. Indispensabile, perché l’epitelio delle corde vocali si ripristinasse.

A Papà avevo fornito dei blocchi di carta e dei pennarelli. Lui, per la verità, si faceva capire già con l’espressione dei suoi grandi occhi verdi. Scriveva solo in poche occasioni.

Come per un aneddoto, che amo raccontare.

Premetto che mio padre usava inserire, regolarmente, nel discorso frequenti, quanto raffinate, battute.

E, ottimista per costituzione, con un intelligente senso dell’umorismo, riusciva a sdrammatizzare anche i momenti più critici.

In clinica venivano a trovarlo i nostri amici di Palermo.

Una vecchia amica di mamma, gli portò un libro.

Lui, la ringraziò con lo sguardo e un sorriso, molto eloquenti. E lei, indicando la fasciatura intorno al collo, candidamente, esordì: “Le hanno messo dei punti?”

Papà scrisse qualcosa sul blocco che rivolse alla signora.

Dalla sua bella grafia, si leggeva, chiaramente, “No. Una lampo”.

 

Il ritorno del mostro

E ora, molti anni dopo, l’annuncio terribile del rinnovarsi del già vissuto.

Nella camera, stavo aiutandolo a sistemare gli abiti nell’armadio e i vari accessori nel bagno. Intanto prendevo nota di quanto gli sarebbe stato utile per la degenza, e i titoli dei libri da acquistare. Libri, elementi indispensabili di vita, per suo costume.

“Non dimenticare una vestaglia o una giacca da camera. Non mi è mai piaciuto girare in pigiama”, mi disse Papà. Fu interrotto da un’infermiera che arrivò spingendo una sedia a rotelle: “Chiedo scusa, dovrebbe mettersi in pigiama e accomodarsi qui. La porterò a fare delle analisi”.

Papà sorrise dolcemente, come usava, e: “Come non detto. Non dimenticare la giacca da camera”.

Indossò il pigiama e, sulla sedia, uscì dalla camera accennando un saluto, con una mano.

Lo riaccompagnarono più di un’ora dopo.

“Hanno escluso solo gli alluci. Il resto del mio corpo non ha più segreti” ironizzò. “Mi spiace, sto rubandoti un sacco di tempo. È confermato che la cosa sia piuttosto grave e se, a quanto pare, ricorreranno a un intervento, non potrò più farti sorridere con le mie battute”, concluse.

E, celava, a fatica, un’evidente nota di amarezza.

Frenai a stento le lacrime. L’amore per mio padre subiva un colpo durissimo. E già mi disperavo per la previsione del dopo.

“Grazie Signora, perdoni il disturbo” si rivolse all’infermiera.

Lei ricambiò con un sorriso: “Di niente. Credo che lei sia molto più gentile di me”. E uscì.

La permanenza in quella clinica si protrasse molto più a lungo del previsto, per la sporca rivalità tra due cattedratici, evidentemente di pari peso, ma impegnati a disputarsi la corposa parcella dell’operazione, che continuavano a rimandare.

Poi, l’aggravarsi della situazione. Solo il mio intervento, deciso, quanto, incredulo, mi rivelò la vergognosa manovra dei due apprendisti stregoni e, per fortuna, culminò con l’atteso ingresso in sala operatoria. Ma, per mano del primario ‘massimo’, al quale mi ero rivolto.

 

Il segreto

La sera precedente l’intervento, stavo accanto a lui.

Papà, mi prese una mano e, sorridendo dolcemente, come usava di solito: “Inutile rassicurarmi” cominciò “so che dalla sala operatoria uscirò senza laringe. Della voce che mi è sempre piaciuta, serberò soltanto il ricordo. Debbo perciò confidarti, adesso, qualcosa che ho tenuto per me sin da quei giorni in cui quelle ‘strane automobili’ come tu, piccolissimo, le avevi definite, arrivarono nel nostro paese. Ero in licenza per via dei capricci cardiaci, e non sapevo se sarebbe stato giusto rientrare all’ospedale militare o all’Istituto geografico o, stando a quanto si diceva, restarmene a casa. Stato ed esercito non esistevano più. Mamma, i tuoi nonni e gli amici, dicevano che avrei dovuto fuggire e nascondermi. Il mio incarico politico dell’anteguerra era, senza dubbio, un precedente pericoloso. Avrei rischiato, anche se assolutamente incolpevole, l’epurazione in qualche remoto penitenziario, o forse peggio. Gli echi di esecuzioni sommarie e di vendette personali, che arrivavano dalle regioni del nord, erano agghiaccianti. Se ricordi ancora”, continuò Papà, “rifiutai l’ipotesi di darmi alla latitanza. Sono sempre stato coerente con le mie azioni e non ho mai dovuto vergognarmi di alcunché. Rimasi a casa ad aspettare, qualsiasi cosa sarebbe potuta accadere. L’attesa andò poco oltre un mese. Mi dai un po’ d’acqua per favore?”

Bevve solo qualche sorso.

“Una mattina donna Ciccia (la nostra storica governante) mi annunciò che dei carabinieri volevano parlarmi. Il gruppetto aveva già superato le tre rampe dello scalone in marmo che dall’ingresso del nostro palazzo, aperto sul corso principale del paese, arrivava alla porta degli appartamenti.

Ringraziai la governante e gli andai incontro. Erano, tre carabinieri: un capitano, un maresciallo e un brigadiere, con loro, due ufficiali con divisa diversa (scoprii dopo, un tenente e un maggiore, dell’Intelligence britannica), accompagnati da un signore, in borghese, l’interprete.

Esaurite le presentazioni, li feci accomodare nel salone centrale intorno a quell’antico, quanto splendido, tavolo Maggiolino che incautamente regalammo”, sorrise.

“Dobbiamo interrogarLa per un’inchiesta sul Suo operato politico. Siamo stati sollecitati da una segnalazione, molto esplicita”, esordì il capitano dei carabinieri “e, finalmente esaurita la ricerca dei documenti, eccoci ad ascoltarLa”.

Donna Ciccia, nel frattempo aveva mandato le due nostre giovani cameriere, con dei vassoi. Spiccavano la bottiglia dell’anice, del latte di mandorla, il succo di limone, i relativi bicchieri e grandi caraffe di acqua gelata.

“Chiedetemi pure. Non ho nulla da nascondere, né di pentirmi. Potrei vedere la documentazione che avete collezionato? Grazie”.

Mi lasciarono osservare i documenti, estratti dalle due grosse borse, che avevano con sé. Vi trovai di tutto.

Normale burocrazia, ma soprattutto decine di verbali, che avevano salvato altrettante persone dal confine o dal carcere. Non mancavano le ricevute di rimborso di certi ammanchi dal bilancio di alcuni uffici.

Il tutto perfettamente giustificato, e con la mia firma in calce. Mi commossero le decine di dichiarazioni. Sottoscritte da altrettanti abitanti  della zona, che avevo amministrato.

Molti che, assolutamente, non conoscevo. Tutti, ‘inneggiavano’ (concedimelo), alla mia opera che appariva encomiabile e, con particolare riguardo, ai ‘salvataggi’.

Dopo un paio d’ore di attenta consultazione, e reciproche spiegazioni, non risultò nulla che non fosse  giudizio a me favorevole.

Alle bibite feci seguire dei caffè ‘miracolosamente originali’, e chiesi che cos’altro avrei potuto ‘confessare’.

Ricordo, ancora, la frase del maggiore dell’Intelligence che l’interprete tradusse con termini molto tradizionali: “Nulla. O aggiungerebbe ancora zucchero alla sua bevanda”.

 

Un colpo al cuore

“Signori”, replicai, “avete accennato a una denuncia, molto esplicita. Ritengo sia mio diritto conoscerne l’origine. Vi assicuro la massima discrezione”.

Fu il capitano dei carabinieri ad estrarre, da una delle tasche, esterne, della sua borsa, una busta. Me la diede.

Solo allora, accusai un leggero tremore alle mani. Esitai ad estrarne il contenuto.

Era stata stilata, di certo, con una particolare macchina per scrivere.

Una portatile, simile alla mia. Si chiamava ‘Balilla’, quella che ti ho regalato, quando ti sei trasferito a Milano. Aveva caratteri molto esclusivi, quindi, non ebbi alcun dubbio.

Cominciai a leggere. Esterrefatto.

L’autore, mi descriveva come personaggio arrivista, spietato, capace di comportamenti abominevoli, quanto in odore di pesanti coinvolgimenti in oscure manovre finanziarie.

Impressionante, la dovizia di assurdi particolari che poi, abili insinuazioni facevano diventare venefici.

Stavo già sentendomi male ma, in calce al terzo foglio, la firma del ‘corvo’ mi fece quasi svenire.

Dovetti appoggiarmi al tavolo e concedermi dei profondi respiri, per limitare un malore da doloroso disgusto.

‘Antonio’, uno dei miei più cari amici, un quasi parente, compagno di vita sin dalle elementari.

Mi sembrò impossibile. Ricontrollai la firma, in quella grafica che conoscevo perfettamente. ‘Antonio’ perché?

I militari compresero il mio stupore, e rimasero in silenzio per qualche minuto.

Poi parlò il maggiore inglese. E l’interprete tradusse.

“Se il capitano dei carabinieri sarà d’accordo, potrà tenere quella lettera. Ma con il vincolo della riservatezza per almeno un mese. Fino alla chiusura definitiva della pratica. Noi, siamo onorati di averLa conosciuta”.

“Lei è un esempio di onestà” completò il capitano dei carabinieri. “Stia tranquillo non avrà mai alcun problema. Se certi nostri politici fossero stati come lei, molte tragedie non sarebbero avvenute”.

E il ‘commando’ si congedò.

Papà notò la mia espressione di sgomento.

Quell’Antonio, era uno dei suoi antichi amici. Sin da piccolo, lo avevo considerato uno ‘zio’, che rivedevo ad ogni estate, quando tornava in vacanza dal nord, dove si era trasferito.

Il ‘traditore’.

Restai senza parole. Fu Papà a scuotermi da quella specie di dolorosa trance.

“Ti capisco. Ma l’ho perdonato. Mi sono concessa solo una vendetta, incruenta”.

 

Una sera d’estate

Una sera d’estate, qualche mese dopo la visita degli ‘inquisitori’, eravamo almeno una ventina. In pratica i notabili del paese a sedere, ai tavoli esterni, dello storico ‘Circolo dei nobili’.

Si discuteva di politica e di altri argomenti meno impegnativi. Avevo già in mente che cosa avrei fatto.

Mi misi al centro dei tavoli, e rievocai la drammatica inquisizione.

“Ho atteso a lungo prima di rivelarvi il segreto più avvilente di quell’episodio. Quei militari, mi consegnarono la lettera delatoria, con l’impegno di mantenere un certo periodo di riservatezza. L’ho fatto. E stasera, i tempi della rivelazione sono maturati. Questo è il documento”.

Ed esibii la lettera infame.

Il mio accusatore, ora pallidissimo, era seduto davanti a me. A testa bassa, fissava il pavimento. Non avevo idea di come avrebbe reagito, ma pretendevo la mia rivalsa.

Come un novello Conte di Montecristo, rilessi con calma quelle orribili frasi. Mi soffermai, spesso, sulle accuse più infamanti. Riproponevo, con freddezza, la figura del traditore e delle sue bieche insinuazioni.

Gli astanti ne furono, molto evidentemente sconvolti.

Nessuno osò un commento. Era calato un silenzio assoluto, in attesa della rivelazione finale.

Il corvo (che la bruna creatura volante, mi perdoni) immobile, continuava a fissare il pavimento.

Arrivai alle ultime righe e, quasi, scandii la conclusione dell’accusa che suggeriva, per me, una esemplare punizione.

Ero alla firma. Ma non la lessi.

“Non rivelerò mai l’identità del mio accusatore. Anche stasera, è tra di noi” dissi con calma “E non ha mai immaginato che io sapessi del suo tradimento. Lo perdono. Come non avesse mai fatto, ciò che ha fatto”.

Lacerai la lettera. Ne misi i frammenti nel capace vuotaposacenere, sul tavolo di servizio nell’angolo dello spiazzo, e li incendiai. Tornai a sedere al mio posto, e ordinai un gelato, concluse papà.

 

La bontà assoluta

La rivelazione mi aveva letteralmente spiazzato. Ma, al contrario, ero ancora più orgoglioso, se possibile, dell’immensa personalità di mio padre.

Non riuscivo, però, a commentare la rivelazione né, soprattutto, a condividere il perdono.

Non ammettevo l’esistenza di quella bontà assoluta.

Il personaggio in oggetto, e sua moglie, li avevo sempre considerati dei parenti. E, adesso, come sarei riuscito a gestirne il ricordo… Erano scomparsi da poco, ma le figlie, da sempre normalmente ‘cuginette’, come le avrei guardate?

“Manterrai il segreto. Hai promesso. È pesante, lo so. Non l’ho mai confidato ad alcuno, nemmeno a tua madre” continuò papà “È passato quasi mezzo secolo, ma i miei ricordi sono ancora vivi.

Sai, come Antonio abbia sofferto per un male crudele che lo ha tormentato e condotto, innanzi tempo, alla tomba. Una sorta di nemesi, chissà? Ma non credo alle punizioni divine. L’ho, ugualmente, amato. Come un fratello. Lui ha ricambiato e mai, proprio mai, abbiamo rievocato quell’episodio.

Se non fossi in ‘stato di necessità’, come recita il diritto penale, non te ne avrei mai parlato. Avrei atteso, invece, ‘il momento estremo’. Ma, senza voce, mi sarebbe stato difficile”. E sorrise. Con il suo solito, contagioso, ottimismo.

Ci abbracciammo. Piangemmo, in silenzio.

Da quel momento, per Papà, la situazione precipitò.

La vicenda, appena appresa, era stata troppo nobile, per non essere assunta ad esempio.

Negli anni successivi e ancora oggi, continuai a frequentare le figlie del ‘traditore’.

Ricche del privilegio di ignorare la colpa del padre.

 

Ora tocca a me

Per esigenze di vita, gli incontri si sono via, via, rarefatti e limitati ad affettuose telefonate per varie ricorrenze.

Ogni volta che una delle eredi del personaggio, la più affezionata, mi telefona, e capita abbastanza spesso, non riesco ad evitare l’imperioso richiamo alla lettera infame, e al suo autore.

Ma, la mia ‘quasi cugina’, è sempre molto cara. E non lesina gli inviti perché vada a trovarla.

Le rispondo, con pari enfasi, e molto sinceramente. Lei, non è certo responsabile dell’operato del padre. E non sarei mai capace, di una rivelazione che potrebbe farglielo abiurare. Non accadrà mai.

Poi, lo ‘stato di necessità’ è toccato a me.

Qualche anno fa ho subito il primo attacco dal male del secolo.

Si era annunciato pesantemente, e le speranze di combatterlo sembravano sparute. Ma, a quanto pare, se, da decenni, continuo a vanificarne le multiformi aggressioni, sono, ancora io, il vincitore.

Allora, però, stavo vivendo l’identico dramma che aveva convinto mio padre alla dolorosa rivelazione. E mi si presentò lo stesso dilemma.

Dopo l’ennesima seduta nel bunker di un ‘Acceleratore lineare’, decisi di confidarmi con mio figlio. E lo feci.

Anche lui aveva conosciuto Letizia (anche questo nome è di fantasia), una delle eredi del traditore. Ci aveva invitati a cena nella sua villa. La rivide, anche in seguito, capitando in vacanza, dalle sue parti.

Fabio rimase sconvolto, quasi come io, lo ero stato in passato.

Si impegnò, ugualmente, a mantenere il segreto. Non avrei avuto dubbi sulla sua correttezza. Né tantomeno sull’approvazione del perdono concesso dal nonno che, anche  lui, come me, aveva amato.

Sono passati molti anni.

Le telefonate di Letizia sono sempre puntuali e affettuose. Come le mie repliche.

Papà mi lasciò due settimane dopo quell’intervento, per l’assurdo errore di un sanitario.

Lui lo avrebbe perdonato. Perciò lo imitai.

Ma il tormento, e la mia adorazione, non finiranno mai.

 

Immagine di copertina di blackrabbitkdj da Pixabay

 

Gamy Moore
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