Riassunto delle puntate precedenti
Beatrice è caduta giù dalle scale dell’Acquario delle Orche Assassine e si è risvegliata nel 1969, quarantaquattro anni prima. Apparentemente ha tredici anni, ma il secondo giro di giostra l’ha messa ancora di più in guardia nei rapporti col mondo esterno, contro il quale ha sempre meno voglia di rompersi le corna.
Finisco di studiare giusto in tempo per accendere la mia radiolina e ascoltare “Per voi giovani”. A metà degli anni Sessanta anche la RAI, incredibilmente, aveva iniziato a porre attenzione al mondo dei giovani, fin dalla storica trasmissione “Bandiera Gialla” di Arbore e Boncompagni. Io ascoltavo quei due programmi dalla prima media, con grande scandalo di mio padre che ne aveva fatto una sua guerra personale. Non accettava che i miei gusti musicali non fossero più quelli dello Zecchino d’Oro. Quando ho compiuto undici anni come regalo ho voluto una radiolina, e lui per vendetta mi lesinava le pile e gli orari di ascolto, ma dopo l’incidente ha perso il suo smalto e non se la sente di negarmi anche la musica. Non sia mai che io gli scateni contro Costanza, la mia poliziotta d’assalto, la sua nemesi… E in questo giro ho imparato che le pile le vende il tabaccaio, e costano pure poco.
“Per voi giovani” era praticamente l’unico programma in cui si poteva ascoltare la musica meno commerciale, insieme comunque ai successi del momento. Grazie a Renzo Arbore ascoltavo il R&B allora di moda, ma anche certi gruppi ancora poco conosciuti da noi, come i Doors e i Jefferson Airplane, tanta musica inglese e americana, e il mio amatissimo genere progressive, con i Pink Floyd, i Genesis, i Gentle Giant, gli Yes, e gli italiani Orme e Banco del Mutuo Soccorso. Mi fece conoscere la nuova ondata dei cantautori, Guccini, De Gregori, Claudio Rocchi, che era anche conduttore del programma, Alan Sorrenti, De Andrè, Lucio Dalla… Con la sua musica ci ho studiato e fatto i compiti fino alla fine del liceo e mi sono fatta una cultura, perché trattava anche vari argomenti di interesse, come viaggi o cinema. Le canzoni non venivano mai interrotte, così potevo registrare le mie preferite e riascoltarle quando volevo, senza la martellante pubblicità cretina del nuovo millennio. La radio mi ha fatto tanta compagnia in quegli anni trascorsi nella tristissima casa dei miei genitori. L’anno prossimo comincerà “Alto Gradimento”, e poi “Supersonic” la sera. Con Alto Gradimento mi sono affogata dalle risate per cinque anni, e le musica di Supersonic, con la bellissima sigla “In A Gadda Da Vida” degli Iron Butterfly, mi aiutava a rinchiudermi nel mio mondo di fantasia. Io non avevo un amico immaginario, come fanno in tanti; avevo una me stessa immaginaria, che viveva altre vite, e la musica era l’ascensore per le stelle, la mia personale Stairway to Heaven.
Ogni pomeriggio mamma e nonna si danno il cambio per rompere i coglioni con il ritornello “se hai finito di studiare potresti venire di sotto a dare una mano in cucina” ma ho imparato che la risposta migliore è il silenzio. Affondo il naso nei libri e accarezzo il gatto, che dorme sulle mie ginocchia. La megera di turno rimane lì a fissarmi con un grugno da far desiderare di non diventare mai grandi. Mia nonna si stanca presto, borbotta qualcosa sulla mia ingratitudine – dovrei ringraziare perché mi danno da mangiare e mi mandano a scuola e magari perché non mi combinano un matrimonio – ma mia mamma no, lei è una lima sorda. Il suo strumento non è la violenza, quello è di mio padre, anche se si è un po’ spuntato dopo il mio ricovero in ospedale. Lei giudica, come in un tribunale. Mi fissa per un periodo di tempo che sembra interminabile, poi lancia alcune frasi lapidarie e di pessimo gusto, del tipo “Fai schifo”. Ora, al secondo giro di giostra, una madre che apostrofa la figlia con “Fai schifo” mi fa soltanto girare le palle come un’elica, ma quando avevo veramente tredici anni il suo disprezzo mi feriva, e non poco. Interiorizzavo la scarsissima, anzi nulla, considerazione che aveva di me, la sommavo alla sua frase preferita, “Sì, è brava a scuola, ma per il resto…”, la condivo con le prese per il culo da parte delle mie compagne di scuola, e ottenevo il crollo totale dell’autostima, che mi ha portato a crescere con il convincimento di non avere alcuna capacità.
Quando torna a casa mio padre è anche peggio. Ha lo stesso vizio di aprire la porta della mia stanza e fissarmi, e mi dà veramente fastidio. Mi sale una collera da dentro che mi fa stringere le mani e i denti per il furore. Ricordo che nel mio secolo, ogni tanto, anche mio marito aveva quella pessima abitudine, magari quando scrivevo, oppure mi lavavo i denti. A lui rispondevo con le boccacce e il dito medio alzato, ma vorrei sapere come reagisce nel 2013 la giovane Beatrice, lei che se la faceva sotto quando sentiva i passi pesanti del rompicoglioni numero uno salire le scale, aprire la porta – senza bussare, e quando mai si bussa dalla propria figlia, che è un oggetto di proprietà? – piantarmi gli occhiacci addosso e uscirsene con la battuta del secolo. “Allora? Non hai niente da dirmi?”. Che cosa dovevo avere da dirgli, è un mistero. La metà delle volte se ne andava sbraitando, nell’altra metà mi arrivava una botta in testa, specialmente se io rispondevo la verità, cioè “Niente”. Non ho mai avuto niente da dirgli, né nel vecchio né nel nuovo millennio. A me è sempre sembrata la cosa più normale del mondo, lui invece andava in bestia. E che cosa potevo avere mai da dirgli, se quando mi sforzavo di fare conversazione e raccontavo, magari, qualcosa della scuola, lui apertamente pensava ad altro, oppure mi interrompeva con “Che sciocchezze” oppure “Mangia il pane”. Che cosa potevo avere da raccontare a tredici anni, i segreti delle stragi di Stato? Di cosa si aspettava che parlassi, delle crisi di governo? Del costo delle case al metro quadro? Sono passati quarantaquattro anni e continuo a chiedermelo. It makes me wonder, come diceva Robert Plant…
Con il libro di scuola aperto sul tavolino e i fumetti nel cassetto mi sembra di essere tornata ai tempi dell’Acquario delle Orche Assassine. Mia mamma ha il passo felpato, sale le scale in pantofole e sente perfino quando chiudo il cassetto. “Se devi far finta di studiare, vieni di sotto a darmi una mano”. E poi dice che è sorda, qualche anno dopo si farà anche operare. Secondo me ci sente meglio del gatto, oppure ha un udito selettivo. Nei miei confronti sente anche i respiri, invece quando è mia nonna a sbraitare non la sente nemmeno se ce l’ha appollaiata sulle spalle. Quando torno a casa da scuola, dalla palestra o dai miei giretti, mi pianta in faccia quegli occhi indagatori, con la ruga in mezzo, che mi passano a raggi X. Non mi sorride mai, ma nemmeno per sbaglio. Mi ricorda Lucy quando diceva “io ti guato dentro”. È vero, ha sempre avuto questo potere, di fissarmi in un modo che fa venire i brividi, con un’espressione mista tra disgusto e inquisizione. Lei di lavoro doveva fare il giudice, ha sprecato un talento. Riusciva a vedere la più impercettibile traccia di ombretto, se a casa delle mie amiche avevamo fatto gli esperimenti di trucco. Con le sue mani da strega, secche e rugose, estraeva le riviste e i fumetti che contrabbandavo dentro la borsa da ginnastica, e mi inquisiva con i suoi “E questa che roba è?” sottoponendo poi a censura ogni riga stampata. La sera, quando avevo cominciato ad andare a letto alle sette e mezzo pur di non stare in cucina con loro, veniva di sopra, silenziosa come la morte, mi alzava le coperte e mi lapidava con un secco “Lo vedo che non dormi, fai finta”.
Quando diventano veramente pesanti, chiedo a Costanza di fare un giro. Lei fa finta di passare di lì per caso, con la sua collega che in quanto a faccia giudicante dà dei punti a mia mamma come ridere, e si informa discretamente su “come vanno le cose” in famiglia. Aspetta mio padre, che quando la vede ha i travasi di bile e se potesse la strangolerebbe, e gli ricorda sempre che “la sua posizione è ancora aperta”. Quando vanno via fioccano le bestemmie e gli urli, conditi dai soliti “Ecco la riconoscenza per tutto quello che ho fatto per te” a cui adesso non ho più paura di rispondere “Anche mandarmi all’ospedale?”. Mio padre sbrocca del tutto, si mette a prendere a calci le sedie e a lanciare i piatti in giro, e per me è il segnale di via libera. Dritta nella mia camera, e per non provocare ulteriormente, meglio stare al buio. Si sono messi anche a darmi la colpa della luce che gli faccio consumare in quelle due ore di pace e di solitudine che rivendico nella mia stanza. Direi che questa è la sera adatta per aprire l’armadio e tirare fuori lo specchio con cui ogni tanto riesco a mettermi in contatto con la Beatrice che è salita di quarantaquattro piani nel nuovo millennio.
Nel secolo passato Beatrice si chiude sempre di più in se stessa e nel suo mondo fatto di libri e musica, in compagnia del suo gatto. Invece la Beatrice del nuovo millennio ha vinto alla lotteria: non deve più andare a lavorare e ha riconquistato una vita sociale.
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