Riassunto delle puntate precedenti
Siamo in dicembre del 1969, e Beatrice è consapevole che il mondo non sta girando attorno al suo ombelico. Nella vita reale sta per succedere qualcosa di molto grosso, e lei deve fare almeno un tentativo per cercare di cambiare la storia.
12 dicembre 1969 – Milano, strage di Piazza Fontana. I primi giorni di questo mese di dicembre mi sono ricordata dell’attentato che insanguinò – insanguinerà? Non so che tempo usare – Milano e l’Italia. È già successo eppure deve ancora succedere. Il dodici dicembre, alle ore 16:37, nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano, una bomba ucciderà diciassette persone e ne ferirà altre ottantotto. Lo stesso giorno, in meno di un’ora, ci saranno altri attentati, uno in piazza della Scala, nella sede della Banca Commerciale, e tre a Roma. Quella giornata cambierà la storia d’Italia, inaugurerà la strategia della tensione, vedrà il più sanguinoso tra i centoquaranta attentati compiuti fra il 1968 e il 1974, e il più sanguinoso di sempre, dopo la strage di Bologna del 1980.
Con la quantità di libri di fantascienza che ho divorato in due vite, ho ormai esplorato a fondo il vasto mondo della alternate history, delle ucronie, dei tentativi di cambiare la storia su cui hanno scritto i più grandi scrittori, come Philiph Dick e Stephen King, e i tanti fumetti che ho amato, Dylan Dog, Lilith… Da tutti ho imparato che la storia non si cambia, anzi, si corre il rischio di far cadere l’umanità in un mondo ancora peggiore, ma io ci devo provare. Non me lo perdonerei mai, di essere rimasta qui a contemplarmi l’ombelico mentre tanta gente sta per morire. Al primo incontro ho chiesto a Beatrice di stamparmi la pagina di Wikipedia che parla della strage e di passarmela attraverso lo specchio, ma la mia giovane controfigura nel terzo millennio ci aveva già pensato. In questi mesi aveva fatto ricerche in rete e sui libri per sapere che cosa è successo negli anni che ha perduto, e si era già preparata un file in pdf con la storia della strage e delle persone e degli eventi a essa collegate. E aveva avuto pure l’avvertenza di ritagliare dal fondo delle pagine l’inquietante riga con la data, un giorno del 2013… Già di suo il documento sembra un pessimo scherzo; con una data di oltre quarant’anni dopo, sarebbe veramente troppo.
Così mi sono ritrovata in mano un malloppino di pagine che riassumono, oltre a quanto accadrà – o è accaduto? – il dodici dicembre a Milano, anche le indagini, i successivi processi, il caso Pinelli, l’omicidio di Calabresi, i legami con i fascisti e i servizi segreti, le riflessioni di Aldo Moro durante la prigionia. Ma non sapevo a chi spedirlo. Non mi sembrava il caso di coinvolgere Costanza, non mi avrebbe creduto, anzi, avrebbe pensato a uno scherzo di dubbio gusto, e poi si sarebbe tormentata una volta avvenuta la strage. E io, come avrei giustificato la provenienza di quei fogli? L’unica idea che mi è venuta è stata di spedirli con una lettera anonima alla Questura di Milano, al commissario Calabresi, l’incaricato delle indagini che, a seguito della tragica morte di Pinelli, sarà oggetto di una dura campagna che otterrà il risultato di isolarlo e renderlo vulnerabile, anche se lui riteneva la strage un frutto di “menti di destra, manovali di sinistra”. O forse, proprio per quello. Non nutro speranze sulla possibilità di evitare l’attentato, probabilmente la mia lettera si fermerà al protocollo della questura e verrà gettata via senza nemmeno arrivare in mano al commissario, ma ci ho dovuto provare. Magari, se finirà in qualche archivio, un giorno diventerà un rompicapo per gli storici. Anzi, ho voluto esagerare, mi sono fatta stampare una seconda copia e l’ho spedita anche alla Banca dell’Agricoltura in piazza Fontana. Forse qualche impiegato la leggerà, si prenderà paura e per quel giorno resterà a casa. A me basterebbe salvare anche una sola vita.
Ho sottovalutato la giovane Beatrice, credevo che fosse presa solo dalla sua vita mondana e dai nuovi giochi elettronici, invece si era preoccupata della strage che sta per succedere qui e ora. Però, quando le ho chiesto di stamparmi una seconda copia del documento, l’ho vista scocciata, con la faccia da “non mi rompere i coglioni più di tanto”. Lei non si ricorda più del livello tecnologico dell’epoca da cui è saltata via come un tappo di spumante, quando non c’era nemmeno la possibilità di fare una fotocopia e negli uffici si batteva a macchina con la carta carbone. Forse sarà proprio la stranezza della carta e del tipo di stampa a incuriosire qualcuno in questura, o in banca, chissà, e magari i miei documenti non finiranno nel cestino.
All’ultimo incontro la giovane Beatrice mi ha trattato così male che non ho avuto il coraggio di chiederle notizie del Kindle. Aveva promesso di ordinare per sé il modello nuovo e di prepararmi quello vecchio, con tutto il contenuto della mia libreria di ebook e i titoli di cui le avevo fornito l’elenco. Il Kindle sarà la prova regina: se attraversa lo specchio con qualche centinaio di libri non ancora scritti, ho una specie di assicurazione per il futuro, sul quale ho già cominciato a pormi interrogativi angosciosi. Essere al secondo giro di giostra non mi ha aperto alcun orizzonte, anzi. Ha solo aumentato la quantità di situazioni da evitare e mi ha tolto perfino le poche, ingenue speranze che nutrivo quando sono stata giovane per la prima volta e non sapevo che cosa fare da grande, perché i miei mi avevano sempre fatto capire a chiare lettere che non potevo fare niente di buono, bello e desiderabile. Per i lavori all’aperto non avevo il fisico, per quelli manuali non avevo l’abilità – praticamente, se invece delle mani avessi avuto le pinne, sarebbe stato lo stesso – per quelli che implicavano il contatto con gli altri non possedevo le capacità relazionali e non ero in grado di farmi ascoltare e imporre le mie ragioni. Per i lavori che richiedevano intraprendenza e iniziativa, poi, avevo meno di niente, dal momento che richiedevano un talento che ai miei mancava del tutto. Potevo solo studiare, sostenere interrogazioni ed esami e prendere buoni voti. Sui risultati futuri di tanto impegno, si calava un velo pietoso.
Che cosa rimaneva? Se non volevo fare la casalinga come mia madre – e fin da piccola avevo deciso che piuttosto era meglio non crescere – dovevo accettare un ruolo da mezza calzetta e diventare impiegata. Era un lavoro estremamente disprezzato in casa perché non richiedeva alcuna capacità, anzi, era svolto da una manica di parassiti che non facevano un cazzo da mattina a sera, quindi sufficientemente squallido e degradante per una nullità come me. Un lavoro per il quale non occorreva alcun tipo di abilità o iniziativa, e non comportava i disagi materiali che i miei genitori detestavano e mi avevano insegnato a temere. Ecco il lavoro da merdaccia a cui mi dovevo rassegnare, perché ero cresciuta nella convinzione di non essere in grado di fare qualcosa di meglio. Non l’insegnante, perché non avrei saputo tenere la disciplina in classe. Non una professione o un lavoro autonomo, perché non ero all’altezza di affrontare decisioni e responsabilità. Non un lavoro manuale, perché non sopportavo la fatica, e iperprotetta come ero cresciuta, non possedevo la minima abilità. Secondo mio padre non sarei stata nemmeno capace di guidare la macchina, anzi, mi era stato negato anche il motorino a presa diretta. Ogni volta che avevo tentato di mettermi alla prova, i miei tentativi erano naufragati miseramente, perché ero cresciuta con l’imprinting dell’incapace. Così mi preparavo con allegria ed entusiasmo ad affrontare il futuro.
Che bello crescere con ottimismo. Son soddisfazioni.
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