Beatrice ha provato a cambiare la storia, ma lo sapeva che non era possibile. Meglio che si dedichi a cambiare la sua piccola vita.
Non ce l’ho fatta a evitare la strage, ma tanto ne ero sicura. Il ritorno al passato avrebbe potuto, forse, cambiare la mia singola esistenza – e di questo non ero poi nemmeno tanto convinta – ma non poteva influire sui destini di un intero Paese. Spero solo che i miei messaggi anonimi abbiano salvato qualche vita. E magari un giorno spunteranno tra le carte di un archivio, durante le ricerche svolte da uno dei tanti storici e giornalisti che studieranno la strategia della tensione. Non so per quanto tempo avrò la possibilità di rimanere in contatto con la me stessa del terzo millennio, ma fino a quel momento farò di tutto per dare l’allarme anche sulle prossime stragi. Rimarrò inascoltata come Cassandra, e mi auguro di non fare anch’io una brutta fine, ma ci proverò, sempre, e finché il paradosso spazio-temporale me lo consentirà, starò il più possibile in contatto con la Beatrice del terzo millennio, anche se lei ne ha sempre meno voglia.
Quella Beatrice è troppo presa dalla nuova vita, in cui ha raggiunto la libertà a cui entrambe aspiravamo, l’indipendenza dal bisogno che mi aveva spinto a lasciare al più presto una famiglia oppressiva e ad accettare lavori altrettanto opprimenti pur di campare. E poi mi sono accorta che non ha proprio nulla da imparare da me. Dovevo immaginarlo, scatenare un’adolescente in un mondo altamente tecnologico è come liberare un bambino in una pasticceria e dirgli “mangia tutto quello che ti pare”. O almeno, un bambino della mia epoca. Quelli di adesso, forse, preferiscono il Mc Donald. Comunque, appena ho avuto l’occasione di incontrare nello specchio la me stessa del 2013, ho scoperto che non ho più niente da insegnarle. Mio marito ha fatto appena in tempo a mostrarle come si usa il portatile, che lei ha imparato non solo a navigare in rete, ma anche a usare i programmi di videoscrittura, e ha trovato il file con tutte le password. Da lì accede al conto corrente, fa acquisti in Amazon, aggiorna il mio profilo Facebook, scarica musica, film e libri, e non c’è giocattolo tecnologico che le tenga testa. Le è bastato un pomeriggio di “aggiornamento” con un amico che ci aiutava a sistemare i computer. Quando le ho chiesto il Kindle Paperwhite sul momento ha detto che me lo comprerà, poi si è documentata e ha deciso di darmi il suo vecchio Kindle. Il nuovo modello se lo tiene per lei. Piccola stronza, ho allevato un mostro.
Per il momento ho preparato una lista di libri che mi deve scaricare, e attraverso lo specchio le passo il foglio arrotolato. Abbiamo un limite posto dalla forma degli oggetti: solo quelli stretti e appuntiti riescono a passare la barriera della lastra che divide il nostro spazio e il nostro tempo. La novella esperta di tecnologia apre la mia lista e sorride di compatimento: l’ho battuta a macchina con la piccola Olivetti che avevo comprato l’estate passata, grazie a un premio scolastico di ventimila lire vinto alla fine della seconda media. Nel 1969 la portatile Olivetti era il massimo a cui poteva aspirare una studentessa che amava scrivere, ed è un peccato che l’arte della dattilografia non sia mai stata il mio forte. Ho sempre scritto con due dita e innumerevoli errori. Le meraviglie di Word e del copia-incolla erano ancora molto al di là da venire, ma la giovane Beatrice se ne è già dimenticata. E in quanto a me… Nessun maggior dolore, che ricordarsi del tempo felice nella miseria, come diceva il Sommo Poeta.
Adesso basta lamentarsi. Nel mio tempo ero infelice, il lavoro era un incubo che mi rovinava le giornate e anche il sonno, e vivevo aspettando la pensione che le leggi di uno Stato ladro e corrotto mi spostavano sempre più in là. Tiravo avanti impasticcata come un metallaro e da sola foraggiavo Big Pharma come un intero ospedale. Avevo sognato per anni di tornare indietro nel tempo e rivivere la mia giovinezza col senno di poi, per non commettere gli stessi errori e trovare un modo di guadagnarmi da vivere in una maniera meno dolorosa, e adesso ne ho l’occasione. Ho davanti tutti gli anni del liceo e dell’università per farmi venire in mente qualcosa. Non è facile, perché non ho mai avuto in mente qualcosa che mi sarebbe piaciuto fare, e in questo avevo ereditato in pieno l’atteggiamento dei miei genitori. Per loro il lavoro era una maledizione, ma volevano fare il possibile per rendermi più leggero il dolore, mandandomi a scuola. In casa non c’è mai stato un lavoro che fosse considerato positivamente: i dipendenti erano schiavi, ma chi lavorava in proprio era visto come una specie di sanguisuga. I commercianti erano ladri, i professionisti una specie di ricattatori. Chi aveva un’attività industriale o artigianale, anche piccola, se aveva dei dipendenti diventava uno sfruttatore, e lavorare in proprio era qualcosa di troppo audace per il loro ossessivo bisogno di sicurezza. Ci si lamentava, ma non si osava. Di conseguenza io ho sempre avuto le idee molto chiare su quello che non volevo fare, ma pulsioni assai confuse su quale direzione imprimere al mio futuro. Nessun tipo di attività mi era stato presentato bene, e il meno peggio mi sembrava il lavoro da impiegata, perché dai contatti che i miei avevano col mondo burocratico mi ero fatta l’idea che gli impiegati fossero una massa di stronzi che non facevano un cazzo tutto il giorno e stavano belli comodi, seduti dietro le loro scrivanie, a leggere il giornale. I miei li detestavano ma li invidiavano, dicevano sempre “loro sì che hanno visto un bel mondo” e in fondo la loro vita non mi sembrava poi male. L’importante era avere uno stipendio per mantenermi e molto tempo libero, nel quale avrei potuto godermi l’indipendenza comperata con i soldi.
In quanto alle mie capacità, per tutta la mia infanzia il messaggio era stato “Tu non puoi”. Non puoi stare in mezzo agli altri bambini, perché sono più forti di te, ti sopraffanno, ti picchiano, sono prepotenti, e tu non sei capace di difenderti. Non puoi correre perché dopo sudi, non puoi stare all’aperto perché il caldo o il freddo ti fanno ammalare. Quella vita sotto una campana di vetro mi aveva reso ancora più vulnerabile, al minimo spiffero d’aria prendevo la bronchite e al primo caldo la gastroenterite. Della mia infanzia ricordo medicine e dottori, solitudine, invidia e paura degli altri bambini, quelli che potevano. Loro avevano il permesso di stare fuori a giocare in gruppo, io no. Non insistevo nemmeno, perché sapevo di non essere in grado, di non essere all’altezza. La sola cosa che potevo fare era andare bene a scuola e mi rifacevo con quello: studiavo e facevo i compiti meticolosamente, così avevo anch’io i miei riconoscimenti e le mie lodi, dalla maestra e dai genitori. Perfino imparare ad andare in bicicletta era stato un dramma: ero già così convinta, a sei anni, della mia impotenza, e avevo a tal punto assimilato le ansie dei miei – attenta, cadi, ti fai male – che ci ho messo un’intera estate per imparare, con un esercito di insegnanti, genitori, zii, nonni, che non ci potevano credere. In prima elementare ero l’unica spastica della classe che non era capace di andare in bicicletta, tutte mi prendevano per il culo e io ci soffrivo. Così, durante le vacanze, mi procurarono la vecchia bicicletta di una cugina più grande e decisero di insegnarmi, ma si è dovuta impegnare tutta la famiglia, per quanto numerosa potesse essere una famiglia allargata di quelle di una volta. Io ero sicura che non ce l’avrei mai fatta, così come ero convinta di avere i capelli corti perché i miei peluzzi spastici non ce la facevano a crescere. Rappresentavo davvero un raro esempio di autostima.
Arrivata alle medie avevo cercato di ribellarmi e pretendere il mio posto nel mondo: anch’io volevo diventare “come le altre”, far parte di un gruppo di amiche, essere ammirata dai ragazzi, andare alle feste, vestire alla moda, e qui è stata ancora più dura. Da una parte i genitori mi ostacolavano in tutte le maniere, preferibilmente violente, dall’altra ero incapace di rapportarmi con i miei coetanei perché avevo perso tutta la fase di vita sociale dell’infanzia. Sui rapporti umani dovevo imparare quello che gli altri avevano appreso dall’asilo in poi, così mi rendevo ridicola con orrende figuracce, perché non conoscevo i codici di comportamento. La tenacia dell’adolescenza mi aveva aiutato a non abbattermi più di tanto, o almeno a risollevarmi in fretta, ma in questo secondo giro di giostra avevo deciso di tenere un profilo basso e darmi il tempo di capire come funzionava il mondo, prima di gettarmi nel tritacarne.
Nel suo tempo Beatrice era depressa, viveva in attesa della pensione da un lavoro vissuto come un incubo, tirava avanti impasticcandosi come un metallaro e aveva perso le speranze. Al secondo giro, il 2013 è tutta un’altra giostra.
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