Riassunto delle puntate precedenti
Beatrice fa buco da ginnastica e va a cercare la casa in cui viveva nel 2013. Nello specchio trovato in uno sgabuzzino riesce a scorgere la se stessa che vive nel nuovo millennio, la tredicenne con cui ha scambiato il corpo e il secolo. Porta a casa la specchiera e le due Beatrici si danno appuntamento per la sera dopo cena, sui rispettivi lati dello specchio. Ci sono molte cose di cui parlare.
Stare a tavola con i miei genitori è sempre stata un’esperienza kafkiana. Si sa quando ci si siede ma non quando si avrà la possibilità di ritirarsi a vita privata. Le facce sono lugubri e taciturne e parla solo mio padre, sempre pronto a scoppiare in una delle sue sfuriate. Lui odiava la fabbrica e aveva tutte le ragioni del mondo, ma su una cosa ho sempre insistito: non era colpa mia. Perché ero io il suo capro espiatorio. Bastava un niente per fargli perdere la testa: se parlavo, se non parlavo, se dicevo qualcosa che lo irritava, se non mangiavo, circostanza che si verificava quasi sempre, vista la cucina di mia madre, in cui qualsiasi ingrediente, anche il più saporito, si trasformava sempre nella stessa sbobba scotta e insipida. La pasta era colla, il ragù una poltiglia dolciastra; perfino il pane e il formaggio che comprava, e che per fortuna non faceva con le sue mani, erano immangiabili. Io mi stavo costringendo a nutrirmi di più, perché non arrivavo a quaranta chili, ma in quelle condizioni era difficile.
In cucina non avevamo la televisione; allora ce n’era solo una in sala, un monumentale cassone in bianco e nero che era dominio esclusivo del capofamiglia. Lui decideva quando accenderla o spegnerla, e se per qualche misterioso e contorto motivo il programma lo irritava, si alzava di scatto, decretava la fine delle trasmissioni e ci mandava a letto. A tavola mi sarebbe piaciuto ascoltare la radio, ma anche la musica riusciva a farlo incazzare. Non tutta, solo le “canzonette moderne” che forse giudicava immorali, o illegali, non l’ho mai capito, ma gli provocavano sempre una reazione violenta. Mia nonna sedeva arcigna al suo posto, criticando tutto quello che mangiava mentre si ingozzava come un maiale, mia madre cercava di sparire e di mimetizzarsi con le piastrelle della cucina, e lui mi fissava di sbieco. A volte ero seria, sovrappensiero, e lui improvvisamente, senza spiegazione alcuna, mi mollava uno schiaffone da farmi sbattere la testa nel muro. Perché non parlavo, o non manifestavo sufficiente ed entusiastica attenzione ai suoi discorsi. Di solito si metteva in moto con le lamentazioni su quello che succedeva in fabbrica, e i motivi non mancavano; eravamo nell’Autunno Caldo, che avrebbe trasformato l’Italia e dato diritti ai lavoratori fino all’inizio della fine, il precipizio degli anni Ottanta. Però lui viveva tutto sotto forma di tragedia, e bisognava ascoltarlo con attenzione per non provocarne gli scoppi di collera. Oppure ripassava ad alta voce le sue lezioni delle scuole serali, l’atomo, gli elettroni e altre robe di cui non mi poteva fregare di meno, ma non lo faceva per lui, oh ma quando mai… Lo faceva per me, che dal suo punto di vista studiavo poco le scienze a scuola e mi serviva un ripasso, altro che chiudermi nella mia stanza per ascoltare le canzonette.
Da quando era successo il mio “incidente”, avevo la protezione della poliziotta Costanza, davanti alla quale mio padre si era impegnato a non picchiarmi più, ma faceva una fatica mostruosa a trattenersi, e di conseguenza urlava ancora più forte. E i pasti non erano nulla in confronto al “dopocena”. I padri normali la sera andavano al bar, ma lui no. Lui non aveva niente di normale. Da noi si cenava alle sei e mezzo, e fino all’inizio del telegiornale rimaneva un’ora buona, anche un’ora e mezzo, che secondo mio padre doveva essere dedicata alla “famiglia”, e l’obbligo di stare insieme trasformava la cucina nella sala comune di un manicomio. Non potendo rivendicare i compiti da finire, perché secondo lui avevo tutto il pomeriggio per farli, avevo escogitato il rimedio estremo di andare a letto alle sette di sera. Non me lo poteva negare, perché dicevo di essere stanca, però ero costretta a stare al buio. Non potevo leggere, perché “se vuoi leggere lo puoi fare in cucina con noi” – e come no, sarebbe stato veramente rilassante aprire un libro o una rivista che lui prima doveva ispezionare – o tanto meno ascoltare la radio. Se dici che sei stanca, devi dormire, si diceva in cucina. Ed io rimanevo almeno un paio d’ore sotto le coperte a farmi i viaggi con la testa. Per fortuna ero dotata di una fantasia molto vivace.
Questa sera ho cercato di far durare la cena il meno possibile, accampando la scusa del mal di testa, però dovevo recuperare lo specchio dalla cantina. Mi è toccato aspettare che accendessero la TV, per non farmi sentire – in quella casa hanno l’udito di un pipistrello – e andare a recuperare, scalza, il bottino portato a casa nel pomeriggio. Raggiunta la sicurezza della mia stanza con la refurtiva, c’è il problema di concludere l’incontro prima che mia nonna decida di andare a letto. Purtroppo divido la stanza con lei, e posso solo augurarmi che in TV ci sia qualcosa che le piace. Per custodire lo specchio ho scelto proprio l’armadio che mi ha seguito nella casa in cui, nel nuovo secolo, vivevo con mio marito. La casa dove questa sera ho appuntamento con una Beatrice di tredici anni, caduta nel corpo di una donna quasi sessantenne.
Muovendomi sempre al buio, appoggio lo specchio sul fondo dell’armadio e comincio ad aspettare. Mi sento scema. È stato da deficienti portarsi a casa in autobus uno specchio dallo sgabuzzino di una vecchia casa del centro, e sperare di usarlo per parlare con qualcuno che ero io ma più di quarant’anni dopo, e pure con la testa di una ragazzina che ha appena scoperto la TV a colori e il telecomando. Invece la giovane Beatrice del 2013 è puntualissima all’appuntamento, anzi, direi che era già lì che mi aspettava. Ha tante di quelle cose da chiedermi che la tregua che ci separa dai passi lenti e pesanti della nonna che si è stancata della televisione e va a letto, passa troppo in fretta. Ho fatto solo in tempo a capire che la signorina si trova benissimo nel nuovo secolo: ha un marito che la coccola e la porta in giro, ha imparato a usare il computer, è stupefatta per la quantità di libri e dischi che ha a disposizione, è innamorata persa dei gatti… e soprattutto, è in malattia a tempo indeterminato.
Mi ha raccontato che in ospedale è andata a trovarla un sacco di gente che non conosceva, la gente che lavorava con lei. La sua caduta dalle scale del Palazzaccio ha creato un certo clamore ed è finita in prima pagina sui quotidiani locali, rompendo l’omertà dei colleghi che pur di comparire in un trafiletto sul Resto del Carlino hanno rivelato ai giornalisti le gentili abitudini dei nostri vari kapò e soprastanti – in forma rigorosamente anonima, naturalmente. Suo marito – il mio! – ha fatto causa al Palazzo dei Veleni e per il momento lei è a casa in infortunio, ma la sua amnesia riguardo agli anni dal 1969 in poi è totale, e i medici non vedono come possa tornare al lavoro. Mio marito l’ha anche accompagnata nel Palazzaccio, su consiglio dei medici, per vedere se ricorda qualcosa, ma non è servito. Nella sua mente non c’è più nulla di quello che è successo dopo l’estate del 1969. Pare che sia stato lo stesso ufficio personale a fare la domanda di inabilità al servizio con pensionamento anticipato, la vincita al superenalotto per la quale io da anni stavo tentando tutte le strade, il sogno della mia vita…
La giovane Beatrice ha sbattuto la testa mentre scappava dal furioso attacco di gelosia di suo padre, e si è risvegliata libera. Libera dai genitori, che mi hanno avvelenato la vita finché sono stata dipendente da loro, e libera dal lavoro, la mia bestia nera. Per guadagnarmi da vivere facevo cose che detestavo e sopportavo persone che avrei fatto a pezzi con una motosega. Non posso di certo dispiacermene, il pensionamento era il sogno della mia vita, il primo premio del Win for Life, ma… è toccato a lei, non a me. E noi due non siamo più la stessa persona.
La “vecchia” Beatrice, caduta indietro nel tempo, vede il suo sogno esaudito, ma nel millennio di là da venire. E non se ne fa una ragione, come vedrete prossimamente…
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