Riassunto delle puntate precedenti
Nel 2013 la Beatrice adolescente è sanissima, e non soffre neppure delle crisi di astinenza dai farmaci da cui il suo doppio era dipendente da trentatré anni. Lei dorme se ne ha voglia, mangia quando ha fame, esce, si diverte, e non va più a lavorare. Invece la sua versione caduta nel medioevo di una cittadina di provincia negli anni Sessanta si trova a studiare latino, a portare l’apparecchio ai denti, e a dormire con la nonna.
La scuola è ricominciata, vado in terza alle medie vicino a casa, e come tutti gli anni in famiglia si riaccendono i conflitti per ogni minimo particolare della vita quotidiana. Io non capisco – e non l’ho mai capito – perché devo perdere tempo ad andare a scuola a piedi quando ho una bicicletta, invece i miei genitori psicopatici non me la lasciano usare perché “il traffico è pericoloso”. Se questo per loro è traffico, dovrebbero vedere le rotonde del Duemila, che spuntano di notte e spiaccicano i ciclisti come piadine, ma con i miei non si ragiona, e la bicicletta rimane in garage. Così per fare meno strada a piedi taglio attraverso i cortili delle case popolari, ma di nascosto, perché non potrei fare nemmeno questo. I miei si sentono molto superiori agli inquilini di quei palazzi; la gente che abita nelle case popolari non è frequentabile, secondo questi novelli principi con le pezze al culo e lo stipendio di un metalmeccanico.
Su una cosa però i miei non avevano tutti i torti. In uno dei palazzoni ci abita un vecchio maniaco che tutte le mattine mi accoglie dalla finestra con gesti sconci e versi osceni. Mi fa schifo e lo mando sempre a cagare con dovizia di particolari, ma la comodità di tagliare metà della noiosa camminata è più forte del disgusto. Però il sabato pomeriggio ne parlo con Costanza, a cui brillano gli occhi per l’entusiasmo. È d’accordo con me di non farne cenno con i miei, perché mio padre massacrerebbe il vecchio porco di botte – e sarebbe cosa buona e giusta, ma dopo ci va veramente, in galera – e mia madre mi accompagnerebbe tutti i giorni a scuola, dove la mia popolarità è già così sotto terra che non mi sembra il caso di abbassarla ulteriormente. Sono la scema del villaggio, perché non ho idea di come ci si comporta nella vita e nel mondo; quest’anno ho pure l’apparecchio ai denti, e ci manca solo la mamma che mi accompagna a scuola, quando le altre ci vanno col moroso. Non abbiamo bisogno di nessuno, dice Costanza, ci pensa lei.
Il lunedì mattina, quando attraverso il cortile incriminato, la mia amica poliziotta è già lì che mi aspetta, accompagnata da un collega maschio. Vuole fare le cose seriamente. Me lo presenta, è proprio un bell’uomo, somiglia a Don Johnson in Miami Vice. I due si nascondono dietro alla siepe e mi fanno passare sotto la finestra del maniaco, che non ci delude; è puntualissimo, in canottiera e mutande, a vomitare le sue porcate. Quando vede il flash della macchina fotografica la sua faccia è indimenticabile, rimarrà per sempre uno dei ricordi più belli della mia adolescenza, ma non è nulla in confronto all’espressione che fa quando Costanza e il collega, entrambi in divisa, escono allo scoperto, gli mostrano il distintivo e si fanno aprire la porta. Mi piacerebbe rimanere con loro ma non me lo permettono, mi spediscono a scuola con la promessa che quel maiale non mi darà più fastidio. In effetti nei giorni successivi la sua finestra rimane chiusa, e qualche giorno dopo lo vedo in giro con un occhio pesto. Non posso fare a meno di fissarlo con un sogghigno, mentre lui si allontana con la testa incassata tra le spalle. È proprio vero che con le buone maniere si ottiene tutto.
A scuola cerco di tenere un profilo basso, mentre studio le regole della vita sociale. Saranno proprio le ragazze più carine a fare una brutta fine: rimarranno incinte giovanissime, dovranno sposarsi e andare a vivere come serve a casa dei suoceri. Sapendo quello che le aspetta, non mi suscitano più l’invidia che mi rodeva nella vita precedente, e sto bene col mio gruppo di amiche. Noi siamo quelle brutte e secchione. Una ha i brufoli e i capelli unti; l’altra è grassa, ha cinque fratelli e si veste con gli abiti smessi che le regalano in parrocchia; io sono scheletrica e ho l’apparecchio ai denti. Siamo praticamente invisibili, i ragazzi non ci degnano né di una parola né di uno sguardo. Nella vita passata ne facevo una tragedia, e non avevo neppure l’apparecchio ai denti. Adesso sinceramente mi preoccupa molto di più il mio gatto, che da quanto ricordo morirà tra poco.
Noi ragazze brutte stiamo bene insieme, ridiamo moltissimo, ci troviamo per fare i compiti e sparare cazzate, ci scambiamo i libri e i fumetti che porto a casa dal negozietto, e la domenica pomeriggio ci spingiamo fino in centro con l’autobus, per il gelato e la pizza da Altero. La nostra libera uscita è di breve durata, abbiamo il guinzaglio corto e più di due ore non ci lasciano stare fuori, ma ci strozziamo dal ridere con raffiche di battute demenziali. Io gioco sporco, ho tutto il repertorio di Woody Allen che loro ancora non conoscono, e posso anche saccheggiare i miei ricordi di Mel Brooks, dei Blues Brothers… Chissà se un giorno, vedendo quei film, le mie amiche si ricorderanno delle cazzate che sparavo in terza media. Un pomeriggio, da Altero, incontriamo Costanza col suo collega bellissimo, che ci offre la pizzetta e la Coca Cola. Quanto mi piace quell’uomo… Secondo le mie amiche è un vecchio decrepito, ha ben trentasette anni, ma io nella realtà ne ho cinquantasette, quindi per me è un giovanotto. Meglio non fare questi discorsi, ho già visto come sono gli ospedali nel 1969 e non voglio finire in Psichiatria.
Mi sto curando molto e, a parte l’apparecchio, sto cominciando a prendere una forma umana. Studio i vestiti che mia mamma confeziona per le sue clienti e me ne faccio fare qualcuno uguale, mi sforzo di mandare giù le sbobbe servite a tavola e sto prendendo qualche chilo, sono anche andata dalla parrucchiera per farmi sistemare un po’ i capelli. Di meglio per ora non si può, accontentiamoci. Mia mamma si sta esaltando perché ha l’impressione che io cominci a seguire i suoi consigli, anche se il corredo non riuscirà mai a farmelo digerire, e spunta fuori con una delle sue idee brillanti. Dice che in parrocchia – posto che io non frequento più, da quando il prete, in confessionale, mi ha chiesto se mi faccio toccare dai ragazzi – la domenica pomeriggio si tengono “incontri” per gli adolescenti, e insiste tanto, perché non ci vai con le tue amiche, invece di girare per il centro… Mi consulto con le mie socie e decidiamo di provare. Alle due, in canonica, una coppia di “giovani adulti”, già all’ultimo anno delle superiori, catechizza i ragazzini sui “problemi di attualità”. Alle tre, quando i due se la svignano, spunta fuori un giradischi e si balla. Tutti si divertono molto, meno noi tre, perché nessuno ci invita a ballare, ma proprio nessuno. Siamo inguardabili, un ammasso di ciccia, brufoli e apparecchio ai denti. Dopo due domeniche, torniamo alla pizza di Altero.
Nella vita passata avevo tenuto duro con quelle feste, anche dopo la resa delle mie amiche. Volevo a tutti i costi piacere anch’io a qualcuno, e nel disperato tentativo accettavo pure umiliazioni che in questo secondo giro di giostra non sono più disposta a sopportare. Ho conosciuto la maggior parte di quei ragazzini da adulti, e me li ricordo stempiati e con la pancetta. Io invece sto studiando da splendida. E in questo periodo ho problemi più grossi da affrontare: la salute del mio gatto. Pallino è l’unico membro della famiglia a cui voglio bene, e vorrei proprio che non morisse in quell’ottobre del 1969.
Beatrice vuole salvare il suo gatto, ma ha bisogno di un aiuto dal mondo degli adulti
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