Statistiche.
Soltanto statistiche.
Sì, noi ci affanniamo, ne combiniamo di tutti i colori, nel bene e nel male, ma alla fine tutte le nostre azioni non possono che portarci a essere dei numeri di una qualche statistica.
E non dico questo soltanto perché le statistiche sono sempre state il mio lavoro, oltre che la mia passione.
La mia passione fin da ragazzo, quando in classe chiedevo ai miei compagni cosa mangiavano a merenda, per volgere le loro risposte in percentuali.
E in questa passione li avevo coinvolti a tal punto che si affrettavano a segnalarmi i cambiamenti delle loro abitudini.
Ricordo che il partito della Nutella col 58% surclassava il pane, burro e marmellata fermo al 23%.
Così dopo la mia laurea in Scienze Statistiche, mi parve naturale – sfruttando i soldi, non troppi per la verità, che i miei mi avevano lasciato, concludendo in un incidente d’auto una vita statisticamente molto più breve di quella che le statistiche di quel tempo prevedevano per loro – fondare una piccola ditta che si occupava di ricerche di mercato.
Ma se pure il lavoro non mancava i soldi non bastavano mai, c’erano sempre problemi economici e io che, stranamente, non avevo nessuna attitudine per l’economia, anzi, per essere più precisi non avevo nessuna attitudine per qualunque cosa che non fossero le statistiche, non riuscivo a venirne a capo.
Allora mi presi un socio, un mio amico con un sacco di grana disposto a rischiarne una piccola parte, Luigi Pistacchi, e gli affidai il completo controllo degli affari, libero finalmente di occuparmi delle mie amate statistiche.
La Cigibase, così l’avevo chiamata dalle mie iniziali, sotto la gestione di Luigi Pistacchi si espanse e cominciò a produrre utili.
Dopo undici mesi di utili mi trovai fuori dalla mia creatura, estromesso dalla ditta che io stesso avevo fondato, che portava le mie iniziali come nome e continuò a portarle anche quando io non ne facevo più parte.
Era successo che Luigi Pistacchi mi aveva fatto firmare (naturalmente io non leggo mai quello che firmo), quando era entrato nella ditta, un accordo che prevedeva tra le altre cose una clausola, scritta in un linguaggio incomprensibile per i comuni mortali (nel caso io mi fossi preso il disturbo di leggerla), che gli dava diritto di rilevare, qualora lo volesse, l’intera quota della ditta, pagandomi un indennizzo ridicolo anche per il valore che aveva la ditta quando lui c’era entrato, figuriamoci adesso.
Fu così che io entrai a fare parte di quel 37,5 % della popolazione che in un momento della propria vita aveva desiderato di uccidere qualcuno.
Ci sarà chi si stupirà di una percentuale così elevata, ma io vi assicuro che è rigorosamente esatta e molti di voi lo ammetteranno se saranno sinceri con loro stessi.
Naturalmente la percentuale scende notevolmente quando si considera il campione di quelli tra il 37,5 % che questa uccisione cominciano a progettarla.
Io entrai a fare parte di una percentuale del 4,8 % di quel 37,5 %, la percentuale che fa dei reali progetti sulla realizzazione del suo desiderio.
Cominciai a seguire Luigi Pistacchi (c’era il 61,9 % di possibilità che se ne accorgesse, ma io rientrai nel 38,1 %, cioè non se ne accorse) prendendo nota delle sue abitudini ed elaborandole statisticamente sul mio PC.
Di lui scoprii tutto quello che era possibile scoprire: quando mangiava fuori ordinava un filetto al sangue nel 55 % dei casi, andava a trovare l’amante il 45 % dei mercoledì ed il 60 % dei venerdì (una sola volta lo fece di domenica, ma il dato era troppo isolato per rientrare nella curva delle probabilità).
La percentuale più interessante per le mie intenzioni riguardava la sua passione per il gioco.
Andava a giocare in una bisca clandestina (clandestina… si fa per dire… il 57 % della popolazione ed il 94 % delle forze dell’ordine conoscono la sua esistenza) il 58 % delle sere.
Ne usciva tra l’una e le due di notte nel 35 % dei casi, tra le due e le tre nel 55 %, oltre le tre soltanto il 10 %.
A questo punto sapevo dove colpire. Ma il problema era che non volevo essere tra quel 64 % degli omicidi che vengono arrestati, quindi avevo bisogno di un buon alibi perché sapevo che nonostante Luigi Pistacchi avesse parecchi nemici, la polizia avrebbe senz’altro accreditato almeno il 36 % di possibilità che lo avessi ammazzato io.
Studiai un alibi che aveva l’87 % di possibilità di riuscita. Uno più sicuro non mi riuscì di trovarlo.
Solo che non mi decidevo ad entrare nel 4,1 % di quel 4,8 di quel 37,5 %.
Cioè il 4,1 che prova veramente ad uccidere una persona (a proposito solo il 48,3 ci riesce).
Non riuscivo a scegliere se farlo o non farlo.
E, a questo punto, maledizione! uscii fuori da tutte le statistiche!
Luigi Pistacchi morì alle 3,27 della mattina ucciso mentre usciva dalla bisca.
La polizia arrivò a casa mia alle 7,42 di quella stessa mattina e trovò sul mio PC tutti gli appunti che progettavano il delitto come in realtà era poi avvenuto, tutto preciso nei minimi particolari.
Non avevo distrutto quegli appunti prima di commettere l’omicidio per la semplice ragione che l’omicidio non lo avevo commesso io.
Naturalmente del mio elaboratissimo alibi non se ne parlava, perché proprio quella notte avrei dovuto procurarmi un alibi?
Uscii dalle statistiche perché tra quelli che progettano delitti non c’è mai stato un altro tanto sfortunato da prendersi l’ergastolo per un delitto da lui progettato, ma da lui non commesso.
Insomma, un solo coglione non è un dato statistico significativo!
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tratto da “Tutti i colori del giallo”, opera inedita.
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