Con un ultimo, energico colpo di chiappe, la signora Butrigoni districò l’imponente mole dall’angusto spazio tra la scrivania e la poltroncina, issò i suoi centoventi chili sulle décolleté tacco dodici rinforzate in titanio e si diresse verso l’uscita. Mentre timbrava il cartellino, assaporava con orgoglio la soddisfazione di una giornata di lavoro ben spesa. Anche quel lunedì aveva predicato devotamente il Verbo Aziendale e non si era risparmiata con le perle di saggezza, che purtroppo le sembravano sempre buttate ai porci. Come quel salice piangente della sua vicina di scrivania, una donnetta oltre l’orlo della crisi di nervi, disperata perché le avevano cancellato il diritto alla pensione. Era veramente penoso dover trascorrere la giornata lavorativa con un’ingrata che rimpiangeva i contributi perduti e non voleva riconoscere la fortuna che aveva nei confronti di chi stava peggio di lei, come per esempio quella pallida larva del ragioniere che a quarant’anni non aveva più avuto il rinnovo del quindicesimo contratto a tempo determinato. L’Azienda, naturalmente, aveva agito con saggezza: dovendo ingoiare il rospo di tenersi una che sarebbe andata in pensione dopo morta, non poteva più rinnovare il contratto del pallido ragioniere che lavorava con loro da vent’anni, e che si sarebbe ritrovato disoccupato e costretto a tornare a casa dai genitori che sopravvivevano con la pensione minima. E anche con lui aveva sprecato perle di saggezza, perché non si poteva lamentare, c’era chi stava peggio: chi non aveva più i genitori.
La signora Butrigoni adorava i lunedì e li attendeva con gioia, dopo i fine settimana sprecati a ingozzarsi di krapfen davanti alla televisione. E non vedeva l’ora di dispensare i suoi saggi e illuminati consigli ai colleghi dell’ufficio, che tuttavia non sembravano in grado di apprezzarli. Accanto al salice piangente che ululava per il furto della pensione e il pallido ragioniere che dopo vent’anni stava per rimanere disoccupato, c’era anche la corte dei miracoli degli stagisti. Quegli ingrati si lamentavano perché dovevano lavorare dodici ore al giorno senza prendere un soldo, e mai che pensassero a chi stava peggio di loro, a chi non trovava nemmeno uno stage gratuito, o a chi lavorava nelle fabbriche del Bangla Desh a quaranta euro al mese per sedici ore al giorno.
Sospirando, la signora trasportò i suoi centoventi chili verso la fermata dell’autobus, e mentre controllava gli orari due tizi in motorino le scipparono la borsetta, facendola crollare per terra. Chiese aiuto agli altri che stavano aspettando con lei alla fermata, ma tutti facevano finta di non vederla, a parte un signore che le fece notare quanto era stata fortunata; pochi giorni prima, proprio lì, una donna era stata sfigurata con l’acido, e lei si lamentava per un semplice scippo? Con grande fatica, la Butrigoni riportò la sua ragguardevole mole in posizione eretta e si trascinò verso il commissariato di polizia, per denunciare il furto. Là fu accolta con risate di scherno: c’era la fila di stupri e omicidi, e chi aveva il tempo di raccogliere la denuncia di un semplice scippo? Che si ritenesse fortunata a essere ancora viva…
Sì, viva lo era, ma temeva di non avere più tutte le ossa a posto; la botta presa cadendo a terra le aveva lasciato un dolore fortissimo al braccio, che le pareva rotto. Doveva chiamare un’ambulanza, ma il cellulare era stato rubato con la borsa. Chiese a varie persone il permesso di fare una chiamata al 118 ma tutti le risposero con sdegno. Chiamare il 118 per un braccio dolorante? Ma si doveva vergognare, e ritenersi fortunata di non essere stata presa a picconate, come era successo pochi giorni prima, proprio in quella stessa piazza.
Sconsolata, la signora Butrigoni si diresse al pronto soccorso a piedi. Ci arrivò dopo due ore di marcia, senza fiato e col cuore a mille, perché i suoi centoventi chili non erano abituati a tanto sforzo, e il braccio le faceva sempre più male, ma la sala d’attesa era gremita. Cercò di parlare con gli infermieri, li pregò di chiamare un medico, perché si sentiva il cuore stretto in una morsa e non riusciva più a respirare, ma loro le diedero un codice bianco e le intimarono di aspettare e stare zitta, e di pensare a quelli che stavano peggio. La sala era piena di gente sfracellata negli incidenti stradali, c’erano alcuni caduti dalle impalcature e un paio bruciati nel rogo di una fabbrica abusiva, e lei faceva delle storie per un dolore al braccio? Se non l’avesse piantata subito, ci avrebbero pensato loro a farle male sul serio, e con la ragione.
Sempre più dolorante e senza fiato, la signora Butrigoni trovò un angolo in cui sedersi – e questa fortuna le fu fatta notare più volte – e si accinse a una lunga attesa. Aveva sete, doveva andare in bagno, ma non aveva il coraggio di lasciare il posto per paura di perdere il turno. Dopo circa due giorni, qualcuno si accorse che era morta. “Che fortuna” dissero. “Morta d’infarto. È la fine più pietosa. In confronto a quella gente bruciata viva, che agonizza da giorni…”. Volevano chiamare i parenti, ma la signora non aveva documenti con sé, erano nella borsa che le avevano scippato, così telefonarono all’obitorio per farsela togliere di torno e liberare almeno una sedia, ma anche là tutte le celle frigorifere erano piene, e se la dimenticarono su una barella fino al venerdì.
Al ritorno dal fine settimana il cadavere della signora, in avanzato stato di decomposizione, puzzava talmente tanto che venne chiuso in un sacco e portato al cimitero, per la sepoltura in una fossa comune. Lo spirito della Butrigoni cercò di mandare segnali, perché da viva era stata proprietaria di una tomba di famiglia costata un sacco di soldi e voleva essere sepolta lì, ma anche in questo caso non riuscì a farsi ascoltare. E una volta chiusa nella fossa comune, si prese pure le rampogne degli altri coinquilini, perché lei, almeno, era stata seppellita intera, mentre c’era chi stava peggio e mancava di metà del corpo.
Una volta sistemate le spoglie mortali, l’anima della signora Butrigoni si avviò verso l’aldilà, e siccome si era sempre ritenuta una donna timorata di Dio, varcò senza indecisione il cancello del Paradiso, dietro al quale tuttavia trovò un San Pietro incazzatissimo, che la cacciò fuori. Alle sue proteste rispose che non si poteva lamentare, la mandava in Purgatorio, mentre c’era chi stava peggio e doveva andare dritto all’Inferno. La signora scese le scale fino al piano inferiore, seguendo le indicazioni, e si presentò alla reception del Purgatorio, ma anche lì non le vollero dare accoglienza. Il Ministero degli Affari dell’Oltretomba aveva appena varato la riforma dell’accesso al purgatorio, restringendo i criteri di ammissione, e lei non aveva più i requisiti. Se solo fosse morta l’anno prima… Adesso l’Europa e i Mercati avevano decretato che il Purgatorio è un lusso che non ci potevamo più permettere. Per la signora Butrigoni, forse, si poteva rimediare un posticino più giù.
Sempre più affranto, il suo spirito scese i tortuosi vicoli verso il Limbo, ma lo trovò chiuso per spending review. Tutte le anime che lo avevano popolato erano in fila per essere traghettate in un aldilà più sobrio e più consono alla crisi che attanagliava anche il mondo dei morti. Bisognava portare il rapporto tra deficit e PIL cadaverico sotto al tre per cento e quindi anche le anime dei defunti dovevano fare la loro parte, le disse Caronte quando la fece salire su un gommone stipato oltre ogni immaginazione. E le fece anche presente che si doveva ritenere fortunata, c’era chi stava peggio. Quelli come lei, che non disponevano dell’obolo per pagare il viaggio e non avevano ricevuto gli onori funebri, erano costretti a errare in eterno senza pace tra le nebbie, ma lei era stata fortunata, c’era un condono. Ma che si spicciasse a salire, sull’altra riva il treno coi vagoni piombati non aveva tempo da perdere.
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