Dopo lunghe e penose malattie, ce l’avevo fatta. Con la lettera di pensionamento in mano, sono uscita dall’ultimo palazzaccio in cui avevo sputato sangue fino a raggiungere l’agognato traguardo, l’unica meta che mi aveva dato la forza di continuare per decenni lavori odiosi in mezzo a gente che avrei sterminato con un fucile a pompa. Per l’ultima volta ho attraversato a piedi le solite strade e sono arrivata nel rifugio di casa mia. L’unica sensazione che provavo in quel momento era la nausea e desideravo solo staccare col passato. E non vedere più quelle facce di merda. Non dico per sempre, ma almeno per un congruo periodo di tempo.
Un amico mi aveva offerto l’uso di una vecchia casa di montagna che era stata dei nonni, talmente isolata da non invogliarlo neppure a passarci le vacanze. Mi sembrava il posto adatto per raccogliere le idee, così ho deciso di passarci l’inverno, armata di una robusta provvista di libri. Era talmente isolata che con la neve le strade si bloccavano, e lassù nevicava da novembre a marzo. Per raggiungere il paese avevo solo le racchette da neve, gli sci da fondo, un bobcat per trasportare le provviste e la benzina per il generatore. Niente telefono, né internet, né televisione: mi sarei fatta bastare la lettura e le camminate, intanto che cercavo di fare pace col mondo.
Quando è arrivata la neve alta, ho passato giorni interi a contemplare il paesaggio fatato e a camminare nel bosco sperando di incontrare Aslan o la Strega Bianca. Non mi stancavo mai di esplorare e spesso riflettevo sul concetto di neve, perché mi caricava come la cocaina. È stato in uno di quei pellegrinaggi che ho sentito piangere i cuccioli. Li ho trovati rannicchiati dietro a un masso, stretti l’un l’altro per scaldarsi, e ormai quasi morti. Erano due lupacchiotti la cui mamma probabilmente si era allontanata per cercare un po’ di cibo ed era servita da bersaglio per gli idioti che giocano a fare Rambo in mezzo alle nostre montagne.
Senza pensarci neanche un attimo, li ho avvolti nella giacca a vento e sono corsa a prendere il bobcat per raggiungere il veterinario del paese. Non sono mai riuscita a rimanere indifferente davanti alle creature indifese e in pericolo, così quando il tipo mi ha consigliato di sopprimere i piccoli perché “il lupo non si addomestica” gli ho fatto la classica proposta che non si può rifiutare, anzi, gliene ho fatte due. Non so cosa sia stata più convincente, la mazzetta di soldi che gli ho sbattuto sulla scrivania o la canna della pistola che gli ho piantato in mezzo agli occhi, ma i piccoli hanno ricevuto le cure migliori e io ho avuto il permesso di accamparmi nell’ambulatorio finché non sono stati nella condizione di essere nutriti a casa.
L’arrivo dei cuccioli ha reso la mia vita, se possibile, ancora più felice. All’incanto del silenzio e della neve si era unita la magia della vita e della crescita. I miei ragazzi venivano su grandi e forti, e appena diventati saldi sulle zampette, hanno cominciato ad accompagnarmi in qualche timido giretto intorno alla casa. Però la maggior parte del tempo la trascorrevamo vicino al fuoco, al caldo, a cantare. Io sono stonata, loro sono lupi, ed eravamo fortunati perché non c’erano orecchie umane a sentire lo strazio di quelle povere canzoni fatte a pezzi. Avevo scoperto che ai piccoli piaceva anche sentirmi leggere a voce alta e ho trascorso tante sere invernali a recitare per loro la Divina Commedia; sono sempre stata un’amante del Sommo Poeta e visto che i due cucciolotti erano maschi, li avevo chiamati Dante e Virgilio.
Quando è arrivata la primavera, il nostro raggio di esplorazione si è ampliato e ho deciso di cominciare a far conoscere loro anche il genere umano, perché purtroppo in paese ogni tanto ci toccava di andarci, per la benzina e il cibo. I lupacchiotti erano disciplinati come soldatini e mi ubbidivano sempre, però mi sono accorta presto che la gente mi guardava male. Che erano lupi, e non cani, doveva rimanere un segreto tra me e il veterinario, ma si vede che il ricordo della mazzetta di soldi era svanito più in fretta di quello della canna della pistola, e in qualche modo il tizio si voleva vendicare. Converrete con me, spero, sul fatto che una signora non può girare disarmata, specialmente se vive da sola in montagna, e poi quella pistola era la mia compagna da tanti anni, andavamo insieme al poligono e ci facevamo tanta compagnia, ma pare che il veterinario si sia offeso, chissà perché. Tuttavia per colpa della sua lingua lunga in paese guardavano i miei cuccioli con sospetto, e i ragazzini ci avevano preso di mira. Hanno cominciato con qualche innocuo scherzo, ululati intorno a casa, sassi lanciati alle finestre, un pupazzo a forma di scheletro. Non me la sono presa, passare il sabato sera in un paesino di montagna è una gara dura, però quando mi hanno fatto trovare il cadavere di un gatto impiccato all’architrave della porta, ho deciso che era ora di darci un taglio.
I piccoli cerebrolesi percorrevano la strada carrozzabile con il SUV del babbo, poi per raggiungere la casa seguivano sempre lo stesso sentiero, il più facile, quello che termina col piccolo ponte sul crepaccio scavato da un ruscello minuscolo ma tenace. Non dovevo fare molta fatica, mi bastava segare le assi centrali quasi fino alla fine, ma non del tutto, in modo che il ponticello apparisse solido come sempre. Io e i cuccioli non usavamo mai quel percorso, era troppo lungo, preferivamo scendere a valle attraverso il bosco. Il sabato sera avevamo preparato tutto e ci siamo seduti, buoni buoni, tra gli alberi, con una bottiglia di vodka per me e un paio di cosciotti di cinghiale per loro. Verso mezzanotte è arrivato il SUV, che ha vomitato ben cinque adolescenti annoiati in crisi ormonale, tre maschi e due femmine. Ho imparato dai lupi ad aspettare la preda in perfetto silenzio, e a confondermi tra le ombre degli alberi. La compagnia di stronzetti è arrivata già ubriaca, ma purtroppo non abbastanza per uscire fuori strada nei tornanti con cui termina la strada che arriva dal paese. Purtroppo per loro, naturalmente.
Li abbiamo visti uscire dal SUV con le bottiglie in mano e percorrere barcollando il sentiero fino al ponte, che hanno affrontato tutti insieme, saltando. Non avrei mai osato sperare in tanta fortuna: le assi di legno, segate quasi fino alla fine, si sono spaccate tutte insieme e l’allegra compagnia è precipitata nel crepaccio sottostante. Io e i cucciolotti siamo scesi nel massimo silenzio, ma non ce n’era bisogno. Dei cinque idioti, uno era già morto e gli altri quattro, che stavano agonizzando, li ho finiti con un colpo in testa e uno al cuore, come mi hanno insegnato ai corsi di tiro. Poi ci è toccato fare le pulizie, ma è sempre così, dopo le feste bisogna mettere in ordine. Col bobcat ho portato via i cadaveri. Ho caricato nel SUV quello morto sul colpo, ho guidato fino allo strapiombo, ho cosparso il veicolo di benzina e l’ho fatto precipitare a valle. Ha preso fuoco così bene che sembrava la Festa dei Falò. Invece gli altri quattro li ho nascosti in cantina; c’era un bel po’ di lavoro da fare e avevo bisogno di tempo.
Mentre tutto il paese celebrava i funerali del povero ragazzo che aveva sbagliato una curva col SUV del babbo, e i carabinieri diramavano foto segnaletiche degli altri quattro amici, di cui si erano perse le tracce, io ho messo a frutto l’arte che avevo imparato da mio zio quando ero ragazza e lo aiutavo in macelleria. Con pazienza ho sezionato e impacchettato la carne da conservare nel congelatore, in attesa di essere macinata nelle pappe dei cuccioli. I vestiti li ho bruciati e la cenere l’ho gettata nel ruscello. Nessuno li ha mai cercati nel bosco, ma in queste circostanze è bene essere prudenti. E poi è noto che i serial killer, da piccoli, cominciano sempre la loro carriera seviziando piccoli animali. In paese mi dovreste ringraziare, vi ho liberato da una minaccia.
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