Ne vogliamo parlare?

 

di Enzo Buscemi

 

Stiamo insieme da più di tre anni. Gli osservatori distratti ci definirebbero ‘una coppia’.

Non certo biblica. Ma in certo senso molto di più. Inutile negare quanto siamo simili. Ambedue ansiosi, grandi osservatori e insofferenti.

Io lo sono di più. Tu, per la verità, soffri di gelosia e pretendi l’esclusività più assoluta. Di certo mi fa piacere. Ma a tuo modo, vuoi il massimo. Non deroghi dai tuoi desideri, e ottieni sempre quanto ti aggrada.

Niente di male. Sono sempre felice di accontentarti. Tu accetti, ma non fai mai i fuochi d’artificio per ricambiare. E io ti apprezzo, ché altrimenti saresti oltremodo convenzionale. Ormai mi conosci e sai quanto, quando e come, darmi dimostrazioni d’affetto.

Non sprechi mai più di qualche ermetico monosillabo. I discorsi non sono il tuo forte. Ma sai ascoltare con attenzione. Sei stato forse più generoso, quando nei mesi scorsi hai rischiato di morire. Hai addirittura messo da parte la tua innata riservatezza, e hai pianto.

Ci sono stati momenti in cui eri disperato. Come me. Cercavi conforto. Soprattutto per l’ambiente sconosciuto, costellato da camici verdi, nel quale eri costretto, e per gli inspiegabili tormenti che dovevi subire.

Io, confesso, ho sofferto forse più di te, nel continuo timore che quanto ti stessero facendo, non sortisse l’effetto sperato. Poi, superata la fase più acuta, sei finalmente, tornato nei tuoi siti. E solo con me ad accudirti.

Ma non riuscivi a spiegarti come anch’io, ti obbligassi ancora a sopportare certe pesanti, ma necessarie, imposizioni terapeutiche. Ti lasciavi imboccare. Era per il tuo bene. Alla fine te ne sei reso conto, e hai ricambiato, a modo tuo, sentendoti finalmente libero, stringendoti a me ogni notte, e di nuovo principe del tuo regno.

Ma via, mi lasci parlare senza “proferire verbo” (per usare linguaggio da testo classico), ti limiti soltanto ad accennare qualcuno dei tuoi, silenziosi, ineffabili sorrisi condensati in una strizzatina d’occhi.

D’accordo, conosco bene i tuoi atteggiamenti. Ma un suono di compiacenza potresti anche spenderlo. Ne sei prodigo solo quando pretendi qualcosa di ludico, con i tuoi tanti giocattoli. E non smetti finché non ti accontento.

Adesso che stai bene, le parti si sono invertite. Adesso sono io ad avere nuovamente problemi. Ma farò di tutto perché tu non ne soffra. No, non spiego nulla. I pensieri che frullano in quel che resta del mio antico cervello ti farebbero rabbrividire.

Non insistere. Meglio soprassedere. Anzi, considerate certe eventualità che mi costringerebbero, mio malgrado, ad allontanarmi, sto programmando il tuo futuro. E non è certo semplice, per via della tua ‘estrosità’, e uso le virgolette. Poiché il termine, in questo caso, è piuttosto riduttivo. Se le cose mi andranno male, prima o poi dovrai staccarti da me.

Non sarà facilissimo, ma non potrai restare da solo, e dovrai cambiare atteggiamento. Punto primo, imparare a viaggiare. Non dovrai certo andare dall’altra parte del mondo. Il tutto si ridurrà a qualche decina di minuti. Ma dovrai accettare il trasferimento senza timore e, soprattutto, senza far male a chi sceglierò per adottarti.

Di sicuro non ricorderai, ma quel terribile pomeriggio, quando sei stato male, e ho dovuto portarti in clinica, anche con me hai fatto il solito selvaggio e mi hai praticamente dilaniato. No, non sto rimproverandoti. Non oserei. Era un’emergenza: soffrivi tanto, e rischiavi la vita.

Per fortuna è tutto passato ma, al mio solito, ti osservo continuamente sperando di non cogliere, mai, qualcosa di anormale.

Mi sei troppo caro. Fai parte dei miei affetti più sacri, e quindi delle mie ansie. Sono un rompicoglioni. Lo so. Ma non riesco a non preoccuparmi per chi voglio bene. Oh! finalmente una grande concessione. Sorridi.

Al tuo solito, certo, ma è già tanto. Davvero non immagino che cosa potresti dirmi.

Ma è impossibile. Sei il mio gatto.

 

Torino, settembre 2017

Gamy Moore
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