– racconto e illustrazioni di Mauro Cristofani –
L’eccentrico personaggio siede davanti a me, galleggiante in un horror vacui: ogni spazio invoca decorazione, ogni oggetto pretende ornamento. Il design di mobilio e arredi è in puro stile Art Nouveau: balaustrate e ferri battuti di Louis Majorelle, favrile glass di Gallé, oreficeria di Lalique e architetture dalle forme eleganti e morbose ideate da Guimard. Un paradiso artificiale, dove ogni cosa ha il suo doppio, ogni immagine una opposta significazione.
-Questa casa è stata allestita secondo i miei desideri. I colori si affermano solo alla luce fioca delle lampade, poiché io vivo di notte, quando tutto è spento, tutto è muto, tutto è morto.
-Il colore dominante è l’arancione…
-È il colore dei fittizi splendori. Ha febbri acide, per questo lo prediligo.
Gli occhi d’un freddo azzurro metallico di Des Esseintes vagano all’intorno, soffermandosi sui muri e gli oggetti senza vederli. Rigidamente seduto sul seggiolone, appoggia stancamente la mano esile alla tempia, l’intero suo corpo gravato dall’inutilità del mondo.
-Il nostro incontro fu assai singolare, Monsieur.
-Avevo appena smaltito una sbornia ed ero spossato. Imploravo una fine che solo la viltà della carne m’impediva di darmi. Fortunatamente, fu in quella sera che affiorò in me l’idea di chiudermi in un eremo, lontano dal frastuono della vita.
Nell’acquario danzano meravigliosi pesci meccanici, caricati come orologi.
-Un mirabile artifizio…
-La natura ha fatto il suo tempo. I suoi paesaggi e i suoi cieli monotoni ci hanno stancato, attingere ancora al banale emporio di mari e montagne sarebbe stucchevole.
Comincio a provare uno strano senso di soffocamento in questo opprimente paradiso artificiale colorato di tinte paradisiache, creato per una vita gaudente e pacata ma non dissimile dall’interno d’un sepolcreto. Ogni soprammobile è un emblema funereo, ogni oggetto sfarzoso è pronto ad accogliere il mesto fiore della tomba. Il gaudioso sentimento che si riflette nello specchio è offuscato da un fiato cimiteriale in cui può ammirarsi Des Esseintes.
-Nei miei ultimi giorni di Parigi, disgustato di tutto, ero giunto a una tale eccitabilità di nervi che anche solo rasentare un mio simile per la strada era diventato uno dei peggiori supplizi.
-Questa avversione la provavate per tutti, indistintamente?
-Solo alla vista di certe fisionomie, di certi visi con l’espressione arcigna o paterna. Fiutavo in essi l’ostilità per le mie idee, il disprezzo per la letteratura e l’arte e per tutto ciò che dà senso alla vita.
-Amate molto la letteratura, Monsieur?
-Adoro gli autori latini, ma alle roboanti tirate di Luciano preferisco le acute osservazioni di Petronio. Egli descrive splendidamente i vizi d’una società decrepita.
-E la pittura?
-Il solo artista che mi procura l’estasi è Gustave Moreau. Indugio intere notti a contemplare la sua Salomè.
-Siete religioso?
-Non vorrei essere Colui al quale si deve questo mondo infelice.
Le finestre dai vetri screpolati e bluastri lasciano penetrare solo una blanda luce artificiale che lambisce le pareti spandendosi sul pavimento ricoperto di pelli di bestie fulve, accarezzando i mobili talvolta semplici come quelli d’una sacrestia e talaltra complicati come quelli dell’età barocca. Un grillo è prigioniero in una gabbia di filo d’argento, una tartaruga incrostata di pietre preziose s’aggira lenta per la stanza.
Il mio ospite si alza, il nostro colloquio sta per terminare. Ma prima vuol mostrarmi la serra ove coltiva piante esotiche e rare.
-Sono la mia consolazione, le ammiro con compiacimento. Vedete, non sembrano reali, ma stoffe, carte, metalli, porcellane. Hanno i colori delle membrane interne degli animali e delle loro carni in decomposizione, e breve è la loro esistenza.
Des Esseintes resta a lungo in silenzio, rapito dal senso di dissoluzione, affascinato dalla precarietà del presente.
Uscendo, mi volto a rileggere la frase d’un poemetto inglese che appare alla porta d’ingresso del romitorio: ANY WHERE OUT OF THE WORLD… Non importa dove, fuori del mondo.
Des Esseintes è il protagonista del romanzo “À rebours” (A ritroso), scritto dal francese Joris Karl Huysmans nel 1884. Paragonato a quello de La Nausea di Sartre, è un solitario imbevuto della filosofia pessimistica di Schopenhauer (“La vita umana oscilla, come un pendolo, tra dolore e noia”). Il critico Barbey d’Aurevilly scrisse nella sua recensione: “Dopo un libro come questo, al suo autore non resta più che scegliere tra la bocca d’una pistola e i piedi della Croce”; e Guy de Maupassant: “Huysmans analizza e descrive la storia della nevrosi di un uomo; eppure, se costui esistesse, sarebbe il solo uomo intelligente, saggio e idealista, un poeta dell’universo”. Nel 1890 Paul Valéry scrive a Pierre Louÿs: “Rileggo per la quinta volta À rebours, e penso solo a rileggerlo ancora. Non disprezzarmi troppo, ma è il mio libro”; e qualche anno più tardi, ad Albert Degrip: “Torno sempre su À rebours: è la mia Bibbia, il mio libro da capezzale. In questi ultimi vent’anni nulla è stato scritto di più forte”. Illuminante e falsificante ad un tempo, perché all’interno del suo romanzo Il ritratto di Dorian Gray, Oscar Wilde così parla del protagonista di À rebours: “È un giovane parigino che cerca di riassumere in se stesso le diverse mentalità attraverso cui lo spirito umano è passato, mimando nella loro stessa artificiosità le rinunzie che gli sciocchi hanno definito virtù e che i saggi chiamano ancora peccati”.
Si ringrazia Micaela Lazzari per l’editing
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