Oh, Adèle!

– racconto e illustrazioni di Mauro Cristofani –

 

Direzioni diversificate

di sollecite voglie

tu di famiglia

io di te

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Lo leggo e lo rileggo. È un capolavoro di sintesi è il massimo che si può esprimere col minimo è un grido un lamento forse una supplica, o forse solo versi sciolti ben allineati così da essere geometricamente riposanti e quindi piacevoli a vedersi. È comunque il mio messaggio, chi vuole intendere intenderà.

La lampada illumina i ridicoli voli d’una falena ballerina, si dibattono incerte le ali cercando armonie di movenze su ondate sublimi, e continua a girare a girare…

 La sua risposta non si fa attendere: “o mio Dio”

 …e continua a girare nella luce abbagliante prima di cadere finita dal miraggio stupendo…

 Sono tre parole proprio come il titolo d’una vecchia canzone, tre paroline messe in fila che fanno un certo effetto (a me un brutto effetto). Replico a gozzo stretto: o mio Dio è un’esclamazione un’interrogazione una richiesta d’aiuto un gesto di terrore una frase che indica sgomento un grido di paura …o cosa?

 …sbocciano i ciclamini nei giardini di gennaio la ciminiera spande coriandoli sulla città felice una foglia compone l’aereo passo di danza, il sole asciuga una lacrima. Per una frazione di secondo sono nell’eternità, il mondo è in me e ne sono il vero padrone…

 Ti leggo tutto d’un fiato:

vorrei capire in quale modo l’espressione o mio Dio diventa un’esclamazione offensiva, al mio paese viene usata per esprimere meraviglia. Non lo dico per fare del sarcasmo, magari può sfuggirmi il significato che voi le attribuite. Le frasi affettuose e le tue poesie non mi creano imbarazzo, anzi ne resto affascinato. Ma anche spiazzato, e dispiaciuto di risultare sfuggente e freddo ma è che non so cosa rispondere. Fin dall’inizio, credo di averti fatto capire chiaramente quali siano per me i limiti dell’amicizia. Sono sicuro che li hai bene intesi, perché ti stimo veramente tanto e ti ritengo una persona dall’intelletto raffinato; di conseguenza mi è parso inopportuno ribadirlo dopo ogni sonetto ricevuto o tue bellissime dichiarazioni d’affetto… E converrai con me che è insolito scrivere a un amico, per quanto bene gli si possa volere, in un modo così pieno di trasporto. Mi affligge il pensiero di diventare io un tuo problema, che tu possa soffrire per le mie reazioni inadeguate alle tue aspettative. Ma voglio essere chiaro e cristallino come le acque della fonte Aretusa, in modo che nessuno possa farsi male

 …il fumo nero delle ciminiere fa appassire i ciclamini che si piegano sugli steli una foglia secca imputridisce sul selciato il sole si rifugia fra le nubi, oscurandosi…

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Un messaggio che più politically correct non si può, un vero campione di diplomazia. Come se per tutta la vita ti fossi esercitato in tatticismi interpersonali sul tema “come prendere le distanze con acutezza e tatto verso chi attenti alla mia privacy o verso gli eventuali avvicinamenti progressivi di passi inopportuni”

Chapeau, onore al merito: bersaglio centrato, cuori in saldo

 E se gli incontri digestivi e rapidi non consolano e il solo amore possibile è quello non ricambiato, non c’è scampo. Rifugiarsi nell’arte nella musica sublimare tutto in poesia… Bello, me lo ripeto all’infinito fin che il suono acquisti un sapore zuccherino e scenda giù morbidamente creando nell’anima ingorghi voluttuosi. E sul cuore una pàtina impermeabile anti-sentimental infection.

Sciocchezzaio in una mente ballerina

 …vagavo nel giardino della mia solitudine mi accompagnavano anonime ombre mani protese come rami scheletrici nel freddo dell’inverno, improvviso il calore di un’anima palpitante. Le parole sono bolle di sapone che s’infrangono sul viso come una carezza sono pietre multicolori che cadono ai tuoi piedi, mi chino le raccolgo compongo seducente mosaico… Stillicidio di emozioni furti di sguardi assetati i desideri si sbrigliano come i sogni, stasera sarà domani il mio rimpianto la mia nostalgia

Lontananza, ritrovarsi

Notte diglielo tu, mi sono affogate alla gola parole dolcissime

Poi un lungo distacco, finirò per non ricordare il tuo viso. Come Adèle Hugo attraverserò gli oceani per riconquistarti e quando tu mi scorgerai per strada e impietosito mi seguirai nel bianco labirinto di viuzze indigene, quando tu inseguito diventato inseguitore mi raggiungerai chiamandomi per nome io passerò oltre, lo sguardo perduto negli spazi allucinati della mia follìa

…ti stringo disperatamente e so che non posso tenerti mi sfuggi dalle mani in un gioco esasperante, la tua ombra mi segue mi guida ma non camminiamo insieme.    

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La storia di Adèle H., seconda figlia dello scrittore francese Victor Hugo, è la storia di una vertigine.

Nel 1851, Adèle si trasferisce con la famiglia nell’isola di Guernsey, nell’Atlantico tra Francia e Inghilterra, dove il padre viene esiliato per motivi politici. Qui conosce Albert Pinson, un vanesio ufficiale inglese che si diverte con lei. La corteggia e la seduce promettendole di sposarla, ma poi indifferente l’abbandona quando sarà trasferito ad Halifax, nella Nuova Scozia.

Adèle fugge di casa e lo raggiunge, ma viene respinta dall’amante. Al padre e a tutti quelli che conosce fa credere d’essersi sposata, vivendo in una continua e umiliante menzogna.

Oramai prigioniera della sua follìa insegue l’ufficiale fino alle isole Barbados, dove per stradine deserte vagherà come una sonnambula.

Quando, oramai distrutta nell’anima e nel corpo finalmente lo incontrerà, non avrà più la capacità di riconoscerlo.

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