di Enzo Buscemi
Continuo a pensarci anche se è accaduto molti anni fa. Negli ultimi giorni di settembre del 1965.
Marco aveva 13 anni. Da uno, era in una camera dello Sloan Kettering Memorial Hospital, di New York. Lo curavano per una rara forma di leucemia. Era l’ultimo dei miei cugini, unico figlio della bellissima Ada, la più giovane delle sorelle di mia madre.
Molti mesi prima, quando nulla lasciava presagire la tragedia, dalla Rizzoli avevo ottenuto il trasferimento da Milano a Roma. Lasciata la scrivania da caporedattore, con il mitico Giorgio Scerbanenco, ebbi l’incarico da inviato alla Settimana Incom, un famoso rotocalco dell’epoca.
Così fui vicino a Marco che adoravo. Suo padre Alberto Gemini, ingegnere, era un noto costruttore. La sua bella casa, all’EUR, era regolarmente frequentata da tanti amici. Molti famosi, che anch’io ebbi il piacere di conoscere. Alcuni venivano anche a cena. Come Marcello Mastroianni che adorava la pasta e fagioli alla sicula, cucinata da mia zia, o Roberto Capucci, l’artista dello stile, implacabile inventore di scherzi telefonici. I legatissimi Paolo Panelli e Bice Valori, Lina Wertmüller, regina, ineguagliabile, di caustica ironia con suo marito, il raffinato Enrico Job, e il geniale Antonello Falqui, e Giulio Coltellacci, inventore del palcoscenico girevole e di scene e costumi di tutta la serie teatrale di Garinei e Giovannini. E, quando capitava a Roma, Giorgio Fattori, allora direttore dell’Europeo e patriarca di giornalismo. Ed altri ancora.
Personaggi che, sinceramente, hanno arricchito la mia conoscenza in molteplici direzioni.
Torno all’argomento principale. Da giorni si parlava del film che Fellini stava preparando. Titolo, ancora da definire. Si sarebbe poi chiamato 8 1/2. Mastroianni ne era l’interprete designato e, a Fellini, propose Marco, per il ruolo di ‘lui’ piccolo.
Mio zio Alberto non ne fu entusiasta. Poi, all’ennesima richiesta del regista, si convinse. Come unico compenso, Marco scelse una divisa da calciatore della Lazio. La sua squadra del cuore. Cominciarono le riprese. Quando possibile, lo accompagnavo sul set. Potei così apprezzarne la naturale e, per certi versi, incredibile bravura. Tutti gli attori, chi più chi meno, dovevano ripetere più volte la stessa scena prima che Fellini ne fosse soddisfatto. A Marco capitò solo una volta. E non per colpa sua.
Era sempre: “Buona la prima”. E io, che riuscivo a piazzarmi alle spalle del grande regista ne ascoltavo i commenti: “favoloso, meraviglioso, eccezionale”, sentivo dire a Fellini. Perché Marco eseguiva come se non avesse mai fatto altro. Il clou fu esaltato dalla laboriosa scena finale, girata su una spiaggia, dalle parti di Fregene, davanti a tre altissimi intrecci di tubi, a raffigurare una improbabile astronave.
Era un lungo carosello con tutti gli interpreti del film che si tenevano per mano. Era guidato, in continue giravolte, da Marco con una divisa candida che mimava di suonare un flauto. Si doveva girare in tempi quasi reali poiché “a cavallo”. Ovvero, oltre all’ovvio supporto delle luci di scena, la ripresa doveva profittare del chiarore morente del tramonto. Il tutto seguendo i tempi del playback del celebre motivo di Nino Rota.
Una scena ultra-complessa per i continui cambi di direzione. Marco li aveva imparati solo il giorno prima, e li mise in pratica senza sbagliare un passo, meritandosi, una serie di “favoloso” dal grande Federico. Purtroppo, in montaggio furono costretti a tagliare tutti i numerosissimi primi piani di Marco. ‘Era troppo bello, e faceva personaggio a sé, poiché non somigliava a Mastroianni’. Peccato.
Questa, in sintesi, la storia fino a quel momento meravigliosa, di Marco e della sua famiglia, che un amico aveva definito perfetta: “come un uovo”.
Era adorato da tutti. Poco più di un anno dopo, a novembre del ’64, il piccolo aveva accusato qualche linea di febbre, poi, rapidamente, scomparsa. Ada, ansiosa come sempre, pretese un’analisi del sangue. Il responso arrivò con l’orribile crudeltà di una rarissima forma di Leucemia.
Quella sera, alcuni tra gli amici più cari, che godevano di buone conoscenze negli States, furono in casa Gemini, per individuare la migliore struttura oltreoceano, per l’immediato ricovero del piccolo.
Io ebbi il compito di allontanare Marco portandolo a cinema. Lui scelse un western. Per un pugno di dollari, appena programmato in una sala di fronte al ministero dell’Interno.
Partì, subito, per New York. Con mamma e papà che sarebbero sempre rimasti con lui. Rientrarono a Roma alla fine di settembre del ’65. E Marco viaggiò in una bara bianca.
Da qualche giorno ero andato a trovare i miei genitori, in Sicilia. Ricevetti la terribile notizia e ne scrissi su un quotidiano. Ancora oggi non so spiegarmelo, ma conclusi il pezzo con certe parole che poi, seppi da mia zia, erano state proprio le ultime pronunciate da mio cugino.
Nei mesi che seguirono, il dolore continuò a scavare voragini nell’anima dei suoi genitori. Mia zia tentò di alleviarlo recandosi ogni giorno in ospedale ad assistere i piccoli degenti, colpiti dallo stesso mostro che le aveva ucciso il figlio. Spesso l’accompagnavo.
Mi colpì particolarmente l’incontro con una bambina. Ne condensai le impressioni in un racconto che intitolai: “Quel sorriso”.
Molti anni dopo, lo lessi durante una trasmissione di Noi e gli ufo. La mia fortunata serie che andò in onda dal ’76 all’83 su Italia 1.
Era la sera del rientro in studio, ancora con le stampelle, dopo mesi di forzata interruzione della messa in onda, per la riabilitazione da uno spaventoso incidente motociclistico.
Era il 1977. “Quel sorriso” fu candidato al premio letterario ‘Il domani’ e ne vinse il primo premio. Opera di Marco?
Immagine di copertina: Marco Gemini nello scatto di Tazio Secchiaroli (foto di scena del film 8 1/2).
Per gentile concessione di Enzo Buscemi.
Sotto: Ada e Alberto Gemini, col figlio Marco.
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