Decisi di conoscere gli abitanti della terra che avevamo vicino e, la mattina dell’indomani, con la mia nave feci vela verso il porto naturale che avevo visto dall’alto della collina. Fu un breve viaggio. Approdati, presi con me dodici uomini e gli altri li lasciai a guardia della nave. E cominciammo la dura salita.
Avevamo con noi un otre del vino che Marone, sacerdote di Apollo, ci aveva donato in Ismaro. Era un vino preziosissimo, una sua tazza mischiata a ben venti tazze di acqua, dava una dolcissima bevanda. Da quando lo avevo assaggiato avevo deciso di serbarlo per il mio ritorno a Itaca, come bene prezioso da gustare con i miei amici davanti al fuoco nelle serate del ventoso e freddo inverno.
Non so perché avessi deciso di portarlo con me, avevo sulla nave altri preziosi beni a me meno cari; mi accade a volte di compiere un atto la cui motivazione mi è ignota al momento ma poi quell’atto si rivela prezioso nello svolgersi degli avvenimenti. Non parlerei di premonizione, perché al momento dell’atto nessuna immagine del futuro mi appare per indurmi a comportarmi in quel modo, ma credo che sia un dono che qualche Dio benevolo mi abbia dispensato, magari per i meriti dei miei avi.
Camminammo per la metà di un’ora, faticando sulla salita sotto il sole, poi una grande caverna ci apparve. Dentro delle greggi, ben divise per età da steccati di legno. C’erano pure altri recinti vuoti. E formaggi e grandi ciotole per mungere con tracce ancora di panna e utensili che erano come gli utensili che nella mia isola si trovano nelle capanne dei pastori ma era come se in confronto gli utensili dei nostri pastori fossero delle copie minuscole fatte per fare giocare i fanciulli. Tutto era molto più grande del normale.
I miei uomini erano atterriti e mi pregarono di scappare via, dopo avere preso con noi i formaggi. Ma io non volli. Volevo avere conoscenza, correndo i miei rischi, dell’essere che abitava la caverna. Il buonsenso mi suggeriva di accettare il consiglio dei miei uomini, ma la mia sete di… sapere… di vedere con i miei occhi qualcosa che se fossi andato via, come la saggezza mi suggeriva, non avrei mai più potuto vedere, mi induceva a restare anche se conscio del pericolo che l’ignoto sempre presenta.
Ma per me l’ignoto aveva un fascino che vinceva sul timore.
Ci cibammo dei formaggi e poi restammo in attesa. Vedevo l’angoscia sul volto dei miei compagni mentre il giorno avanzava.
A un certo punto la caverna si oscurò come se una grande nuvola avesse coperto il sole che calava, impedendo alla luce di penetrare nell’antro.
Una montagna in forma umana fece il suo ingresso ma a differenza degli umani quell’essere gigantesco aveva un solo occhio, posto più in alto nel suo viso di quanto fossero i nostri occhi. Il suo unico grande occhio era posto all’inizio della fronte. Portava sotto il braccio una grande fascina di legna per il fuoco e entrando la scagliò per terra. Tutti cercammo riparo negli angoli più bui. Davanti a lui erano le pecore da mungere, che spinse verso il fondo della caverna, mentre i maschi li fece entrare in un recinto che era vicino all’ingresso. Poi prese un grande masso, che cento uomini avrebbero smosso a fatica e lo pose come porta davanti all’entrata, coprendola quasi completamente. Solo poca luce passava da là, ma ancora qualcosa si vedeva perché altra luce filtrava da una apertura al centro del soffitto della caverna, che non avevo notato prima, tanto era grande la luce che veniva da fuori.
Il gigante prese, con gesti assurdamente teneri per le sue grandi mani, a mungere le bestie, poi unì ogni agnellino alla madre. Quindi accese un fuoco, sfregando due pietre tra di loro, per cucinare al centro della caverna. La luce del fuoco ci svelò ai suoi occhi, minuscoli esseri nascosti maldestramente nel fondo della grotta.
“Ma guarda cosa abbiamo qua! Dei piccoli uomini, questa razza ridicola. Che cosa vi ha spinto, non invitati, fino alla nostra terra? La brama di commerciare o il desiderio di avventura? Da quale terra venite?”
La sua voce era come il soffio cupo del vento in una gola di montagna e ci atterrì quanto ci aveva atterrito il suo aspetto.
Mi feci avanti e gli risposi:
“Siamo achei e torniamo alle nostre case dopo una grande guerra vittoriosa. In battaglia il grande Agamennone era il nostro condottiero e sotto la sua guida abbiamo raso al suolo una superba città. Abbiamo smarrito la nostra rotta e gli Dei, usando i venti e le onde, ci hanno condotti, per loro volere, in questa terra.
Ora che siamo qui, umilmente ti chiediamo asilo, ricordandoti i voleri di Zeus riguardo alle leggi dell’ospitalità, affinché il grande padre degli Dei non si adiri con te.”
Tuonò, rimbombando per tutta la caverna, la sua risata.
“Sei impudente e privo di senno. Vieni da tanto lontano e credi di potermi intimorire parlando di Zeus e dei suoi voleri.
Io sono Polifemo e noi siamo i Ciclopi e non temiamo il tuo Zeus e neppure gli altri dei. Noi Ciclopi ci consideriamo superiori agli dei in cui tu credi. Anzi, parlandomi dei tuoi dei, mi fai venire la voglia di schiacciarvi tutti e poi sfidarli, questi miseri dei, se me ne chiedessero conto.
Ma dimmi, dove avete ormeggiato la vostra nave?”
Naturalmente mentii a quel gigante, che ci era chiaramente ostile.
“Ahimè, la nostra nave è andata a pezzi contro le scogliere dell’isola vicina la notte scorsa, e noi soli siamo sopravvissuti. Il mare ci ha privato dei nostri compagni e siamo arrivati in questa terra trasportati dalla corrente.”
La sensazione di pericolo ci aveva pervasi da quando eravamo entrati nella grotta e si era resa più acuta alla vista del ciclope, ma non sapevamo ancora che questo pericolo si sarebbe tramutato in morte, senza nessun preavviso.
Il ciclope, appena io finii di parlare, prese due dei miei uomini con le sue grandi mani e li sbatté al suolo fracassando orribilmente le loro teste. Parti del loro cervello si mischiarono alla terra del pavimento della grotta.
Poi ignorando completamente gli altri, come se fossimo delle insignificanti formiche, li liberò delle vesti e pose i loro corpi su un grande tagliere di legno e con una gigantesca accetta li smembrò per porre poi i pezzi sulle braci ardenti del fuoco che aveva acceso prima.
E noi percepimmo l’odore atroce dei nostri amici che si cuocevano, sfrigolando sul fuoco, per servire da pasto a quel mostro.
Si limitò a scottarli leggermente e poi si cibò di quei poveri resti che ancora grondavano sangue. Mangiò tutto, anche le ossa, triturate con un osceno e raggelante rumore delle fauci. Poi, sempre ignorandoci… chi si cura mai delle formiche?… si stese sul suo giaciglio e si addormentò.
Il mio primo pensiero fu di aggredirlo durante il sonno e di provare a far giungere le lame delle nostre spade fino al suo cuore. Ma mi resi subito conto che così la sua morte, se fossimo riusciti a ucciderlo, cosa di cui dubitavo, avrebbe coinciso con la nostra. Non c’era alcuna possibilità che noi riuscissimo a spostare il masso con cui aveva chiuso l’apertura della grotta. E rimanendo prigionieri avremmo prima o poi esaurito le riserve di acqua. Naturalmente visto che dovevamo morire, poiché non c’era nessun dubbio che prima o poi si sarebbe cibato dei corpi di noi tutti, era desiderabile portarlo con noi oltre le oscure porte della Morte, ma prima di fare il passo da cui non mi sarei potuto ritrarre, decisi di aspettare per vedere se gli eventi mi avessero suggerito una soluzione che rendesse possibile la nostra salvezza. E lo dissi ai miei compagni.
Nessuno di noi dormì in quella notte d’angoscia.
Quando il ciclope si svegliò munse gli armenti sempre con la stessa incredibile delicatezza quindi accostò ogni agnellino alla propria madre, poi si volse verso di noi e a caso afferrò altri due uomini e ripeté l’orrendo pasto della sera prima.
Finito di mangiare spostò il grande masso, sospinse le greggi fuori dalla grotta e poi dall’esterno richiuse con un altro masso altrettanto grande la caverna, sollevandolo come se non avesse quasi peso. Lo sentimmo allontanarsi, incitando con urla le greggi a muoversi. Proprio come facevano i pastori nella nostra isola.
Cominciai a esplorare con cura la grotta. Vidi appoggiato alla parete un lungo albero ancora verde, spogliato quasi interamente dei rami e delle fronde, evidentemente il ciclope aspettava che fosse secco per bruciarlo. L’albero era grande, più lungo degli alberi delle mie navi. Usando la spada ricavai dalla sua parte più sottile un palo lungo un paio di metri. Diedi ordine ai miei uomini di ripulirlo completamente rendendolo liscio, poi appuntii la sua cima. Feci rimettere a posto l’albero e nascondemmo il palo sotto il grande mucchio di letame che c’era in una parte della grotta. Quindi decidemmo insieme quali sarebbero stati i quattro uomini che mi avrebbero aiutato a usare il palo per accecare il ciclope. Con la morte nel cuore decidemmo pure quali altri due uomini avrebbero dovuto sostituire i prescelti nel caso quella sera il mostro li avesse divorati. E anche io potevo essere il pasto del mostro quella sera.
Il ciclope tornò al tramonto. Tutto si ripeté. Chiuse con il grande masso la grotta, munse le pecore e pose gli agnellini sotto le madri, accese il fuoco e poi si volse verso di noi per scegliere il suo pasto. Senza che l’avessimo concordato due degli uomini che non erano stati scelti per il tentativo di attaccare il mostro, balzarono in avanti e il mostro scelse proprio loro che erano vicini alle sue grandi mani.
Miei eroici compagni, ancora oggi non riesco a trattenere il pianto pensando al vostro sacrificio!
Mentre terminava l’atroce cena io presi una grande coppa, versai parte del vino che avevo portato con me e mi feci avanti:
“Odimi, o Polifemo. Visto che non ti posso convincere con la paura degli Dei, che tu non temi, ho deciso, per avere la tua benevolenza, di offrirti un dono degno di quegli stessi Dei, affinché tu risparmi le nostre vite e ci permetta di andarcene liberi. Assaggia questo vino che non ha eguali al mondo.”
Polifemo si degnò di bere il vino e sul suo viso comparve un’espressione compiaciuta.
“Non essere avaro, piccolo insignificante essere. Il tuo dono è veramente notevole. Anche qui nella terra dei Ciclopi traiamo dalle nostri viti rese rigogliose dal caldo sole un vino apprezzabile, ma il gusto del tuo fa diventare il nostro vino un mediocre aceto.
Dammene ancora e dimmi il tuo nome ed io ti farò a mia volta un dono per ricambiare il tuo.”
Gliene versai ancora e poi ancora e il suo sguardo divenne obliquo e appannato e mentre versavo gli dissi:
“Anche se tu forse non lo hai mai sentito, lontano come sei dal mondo degli uomini, il mio nome in quello stesso mondo è famoso. Il mio nome è Nessuno, così mi chiamo, Nessuno è il nome che i miei genitori mi diedero e Nessuno è famoso tra le genti, se mi è permesso di parlare di me senza modestia.”
Il mostro ruttò rumorosamente, poi la sua bocca assunse un ghigno crudele.
“Bravo Nessuno, mi fa piacere che tu sia famoso tra gli esseri miserrimi come te.
E come ho promesso ti farò un dono. Tu, Nessuno, sarai l’ultimo a essere mangiato, prima mangerò i tuoi uomini. Vedi che bel dono che ti faccio!”
Dette queste parole con la sua voce da ubriaco, crollò di fianco addormentato, facendo vibrare il pavimento della caverna e cominciò a russare oscenamente.
Subito corremmo a trarre fuori il palo dal mucchio di letame, e lo ponemmo sul fuoco che ancora ardeva, bruciando la punta fino a renderla incandescente, poi decisi, ma tremanti per la paura e l’emozione, ci arrampicammo sulle membra del ciclope fino a raggiungere la fronte e, trapassandogli la palpebra con forza, colpimmo al centro il suo unico occhio facendo peso con i nostri corpi sul palo.
Sfrigolando nell’umore vitreo dell’occhio, il legno ardente penetrò con lo stesso sibilo che emette il ferro incandescente quando il fabbro lo immerge nell’acqua.
Polifemo con urlo inumano balzò in piedi un secondo dopo che ci eravamo lanciati in terra, e disperato cominciò a girare su se stesso sempre urlando, si tolse il palo dall’occhio e lo scagliò lontano.
Alternava urla senza senso a grida di aiuto rivolte ai compagni, chiamandoli per nome. E gli altri Ciclopi accorsero fuori dalla caverna e sentimmo le loro voci.
“Che succede Polifemo, quale nemico ha osato attaccarti?”
“Nessuno mi sta facendo del male, Nessuno mi vuole uccidere.”
“Allora se nessuno ti è nemico, niente noi possiamo fare per il tuo male. Rivolgiti a nostro padre Poseidone e non disturbare il nostro sonno.”
E si allontanarono, mentre io dentro di me ridevo, godendo della mia astuzia.
Il ciclope spostò il grande masso, gridando:
“Vi schiaccerò come insetti, maledetti omuncoli!”
E si pose davanti all’ingresso allargando le braccia per fermarci mentre scappavamo fuori. Ma io trattenni i miei uomini impazienti, non aveva senso morire per affrettare la nostra uscita. Diedi ordine che con i giunchi che c’erano nella grotta e che servivano da giaciglio a Polifemo, i montoni venissero legati a tre a tre e che ogni uomo si avvinghiasse ai giunchi che passavano sotto il ventre del montone che stava al centro. Io per me scelsi il montone più grande e preparai l’imbracatura.
Appena giunta l’alba spinsi il gregge verso l’uscita e gli animali si avviarono per andare a pascolare come d’abitudine, mentre le pecore gemevano perché non erano state munte.
Polifemo tastava i dorsi degli animali e li lasciava passare. Quando per ultimo arrivò il montone sotto cui io ero nascosto, lo trattenne.
“Oh, amico mio, come mai sei l’ultimo ad uscire? Tu che sempre guidi fiero il gregge. Tu, che sei il primo a saltare i ruscelli e a correre nelle vallate. Forse anche tu soffri per la mia pena.
Come vorrei che i tuoi occhi fossero i miei occhi per trovare quelli che mi hanno inflitto questo grande dolore.
Ma adesso vai, libero, verso i nostri pascoli.”
E lo fece passare, poi richiuse la caverna convinto che fossimo ancora là dentro.
Noi, invece, ci rimettemmo in piedi e spingemmo quel bellissimo gregge verso la nostra nave giù per la discesa, correndo per timore che giungessero altri Ciclopi, ma non eravamo tutti. Achemenide uno dei miei uomini, il primo a uscire, appena rialzato era corso in un’altra direzione. E noi non potevamo certamente chiamarlo e neppure correre il rischio di raggiungerlo imbattendoci magari negli altri Ciclopi. Subito sparì in un bosco.
I nostri compagni della nave ci accolsero con urla di gioia, ma rimandammo a dopo i racconti e prendemmo subito il largo. Io andai a prora e vidi in alto il ciclope cieco che scrutava il suo definitivo nulla. Urlai:
“Mi senti, Polifemo? Ti credevi sicuro nella tua prepotenza. Noi siamo uomini e siamo piccoli di grandezza in confronto a te. Ma questi piccoli uomini hanno avuto il coraggio di affrontarti e di vincerti.
Questa è la giusta punizione per il tuo irriderti degli Dei. Io, per loro conto, ti ho castigato…”
Polifemo sentendomi si volse e prese il grande masso che serviva da porta della sua caverna, lo issò in alto sopra la sua testa con le sue possenti braccia, e lo scagliò nella direzione da cui veniva la mia voce.
Il masso mancò per poco la nostra nave e con grande fragore si inabissò vicino alla fiancata destra. Una grande onda nacque e ci risospinse verso riva. I miei compagni accorsero da me per pregarmi di tacere ma io non ero ancora soddisfatto. Lasciai che la nave si allontanasse dalla riva e poi:
“Voglio che tu sappia, Polifemo, il vero nome di chi ti ha accecato e poi si è fatto gioco di te per fuggire. E per sempre lo ricordi nel tuo buio.
Il mio nome è Odisseo, figlio di Laerte e re di Itaca.”
Vidi il ciclope prendersi la testa tra le mani.
“Tu… tu… sei Odisseo…
Un indovino, che a lungo ha vissuto tra di noi, ha guardato nel mio futuro e mi ha predetto, anni fa, che sarei stato accecato da Odisseo. Ma io, stolto, credevo che questo Odisseo, da cui dovevo guardarmi, fosse un mio pari e non un omuncolo insignificante. Qualcuno che poteva rivaleggiare con la mia forza e non battermi solo con la sua astuzia.” E a questo punto cercò di assumere un tono di voce conciliante, “Ma forse tutto può essere aggiustato. Torna qua e ti farò doni degni di te e pregherò Poseidone, mio padre, affinché ti assicuri su onde benevoli un facile ritorno alla tua casa, nello stesso tempo che lo prego di sanarmi la ferita che tu mi hai inflitto per salvarti e di ridarmi la vista.”
“Sì, un grande Dio è tuo padre ma nemmeno lui, io credo, può ridare la luce al tuo unico grande occhio. E poi che fai, Polifemo? Cerchi di rivaleggiare con me in astuzia? Io non tornerò da te e mai ci sarà amicizia tra di noi. Certo, se potessi tornerei, ma solo per compire l’opera e ucciderti mandandoti agli Inferi.”
Allora il ciclope si rivolse a suo padre:
“Ascoltami, oh Poseidone, se tu veramente mi sei padre, vendicami. Fai che questo uomo non possa ritornare mai alla sua casa. Oppure se il Destino ha deciso che ci torni e le sue decisioni non possono essere cambiate, che ci giunga dopo lunghe e crudeli peregrinazioni, privato dalla Morte di tutti i suoi uomini e privato anche di tutte le sue navi, su un vascello altrui. E poi, giunto infine, dopo un tempo che io mi auguro sia il più lungo possibile, alla sua terra, là debba affrontare un’altra guerra. Questo ti chiedo, o padre mio.”
E non pago delle sue maledizioni, prese un altro grande masso e lo scagliò verso la nave. Il masso volò fino a noi e affondò davanti alla nostra prora. Ancora una volta l’onda generata ci risospinse verso terra, ma riuscimmo a riprendere il controllo della nave e stavolta in silenzio raggiungemmo l’isola dove ci attendevano i nostri compagni.
Dividemmo il gregge tra le navi ed io sacrificai a Zeus il grande montone prediletto da Polifemo, affinché ci fosse benevolo nel nostro viaggio ma, anche se io allora non lo sapevo, fu un sacrificio inutile. Zeus non era ben disposto nei nostri confronti.
da Il mio nome è Odisseo (inedito)
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Editing by Gamy Moore
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