di Maria Cristina Impagnatiello
La luce piove dal cielo in piccoli frammenti luccicanti, che lentamente scendono e si consumano fino a spegnersi non appena toccano l’erba del gigantesco campo da calcio. Ho gli occhi aperti, ma essi percepiscono solo questa luce segmentata, nemmeno un respiro vivente, o una voce pulsante; c’è quest’insolita pioggia e la sensazione dell’erba sintetica sotto il mio corpo. Il mio corpo, così pesante in ogni sua cellula che mi sembra impossibile essere in grado di compiere anche un minimo movimento, come alzare l’indice della mano sinistra, o la punta leggermente storta del naso.
Ancorato alla terra.
Vai a quattro ore fa.
Il nome di Barbara lampeggia sul mio iPhone, non ci sentiamo da quattro o cinque mesi. Se mi chiama deve esserci un motivo, penso, mentre smetto di lavarmi i denti e velocemente riempio la bocca d’acqua per evitare di rispondere con la voce impastata, che poi chissà che cosa si metterebbe a pensare.
“Pronto” le dico, con la voce più etero possibile.
“Ciao Ivan, come stai?” e il suo come stai suona come una fregatura scrosciante.
“Sto bene Barbara, cosa c’è?”, non voglio sembrare insensibile ma non ho voglia di perdere tempo con Barbara-facciadibronzo, soprattutto dopo che mi ha piantato per cercare se stessa.
“Ivan, senti… Potresti passare da me, appena puoi? È una cosa importante. Davvero. Lo sai che se non fosse importante non ti chiamerei. Ma ci sei solo te, e io, e solo tu puoi aiutarmi”.
La sua voce sa di rubinetto rotto e gocciolante, sa di ossa spezzate e lacrime nascoste, la sua voce sa di menzogne e ora più che mai di fregatura, fregatura aleggiante.
Eppure, non riesco a dirle di no. Per quel potere tutto speciale che solo le donne hanno senza sapere di averlo. Le dico che sì, andrò da lei, il tempo di vestirmi e arrivare, mezz’ora, quaranta minuti al massimo.
Mi sento un idiota mentre mi metto i jeans, un automa mentre indosso la mia giacca in tweed, uno stupido mentre infilo le chiavi e avvio la mia Audi, pronto ad obbedire al richiamo della femmina del branco.
Ti odio Barbara dai capelli di paglia.
Vai a tre ore fa.
Suono al citofono ma non risponde nessuno, devo fingermi un pizza-express per farmi aprire dal vicino.
Fregatura, fregatura incalzante.
Arrivo alla porta del suo appartamento prevedibilmente aperta, entro fra l’incazzato e l’impaziente, mi sembra di perdere tempo in questa mia vita che in fondo non vale poi molto. Entro e l’ingresso sembra in ordine, come pure la cucina e la camera da letto. Il bagno, è dove mi aspetto di trovarla. E infatti è lì, sospesa come una piuma nell’aria, nel suo vestito fatto di bianca seta e bianche scarpe senza tacco e una bianca sciarpa a incoronare i suoi capelli dorati. Bianco è il pavimento, così come il cesso e la doccia, la cui tenda bianca è strappata e sradicata e accartocciata nella vasca da bagno. Barbara, la candida principessa d’avorio, ha una gamba spezzata piegata all’indietro, e galleggia come una ninfea in una rossa pozza di sangue. Barbara ha il cellulare in una mano e l’altra penzoloni sul bordo della vasca e per terra, col suo stesso sangue, ha scritto Salvami.
Non voglio toccarla, non voglio invischiarmi in questa storia, ma le mie impronte sono già dappertutto; fregatura, fregatura inevitabile. La sollevo da terra, il suo corpo è leggero e magro e ossuto, odora di sangue e lavanda, la stendo sul divano le tolgo i vestiti, ritorno a venti anni fa quando di nascosto giocavo a spogliare le barbie di mia sorella, e toccavo le loro gambe e mi eccitavo. E mi eccita l’immagine di Barbara in mutandine di pizzo e reggiseno push-up, con una gamba spezzata e la voglia, la necessità di riuscire a trovare se stessa. Mi eccita che sia inerme come una bambola e che io possa toccare la sua pelle liscia e plasticata. Salvami. Il suo messaggio rotto mi rimbomba nella testa. Afferro il suo lungo cappotto blu appeso all’attaccapanni e la copro. Sono mia sorella che riveste la sua barbie.
Sono un giocattolo nelle mani di una bambola senz’anima.
Vai a due ore fa.
Infilo la mia barbie in macchina e metto in moto. Non so bene dove portarla ma dopo pochi minuti decido di scaricarla ai suoi genitori; io, non c’entro niente in questa storia. Barbara pelle d’osso è seduta accanto a me, con la testa leggermente reclinata verso il finestrino, sembra che dorma. È bella anche con gli occhi chiusi e il respiro mozzato. I suoi grossi occhi blu oceano, come il soprabito. Barbara-facciadibronzo ha una gamba rotta ed è nuda, sotto il cappotto.
“È che con te mi sento soffocare, imprigionata, lo capisci? Non diventerò mai nessuno se continuo a stare con te. Non voglio accontentarmi. Devo trovare me stessa, il mio futuro. Non è che non ti amo, lo capisci questo, Ivan caro? Io ti amo, ma tu, tu non mi fai respirare!”
E ora l’aria te la sei tolta da sola. Cosa vuoi da me? Penso, mentre finalmente ci avviciniamo alla villa dei suoi, tutta luci lampeggianti e macchine della polizia. C’è qualcosa che non riesco a capire. Evidentemente. La luna è quasi piena ma ancora trasparente, nel cielo che si volge al crepuscolo.
Fregatura, fregatura imminente.
Raddrizzo la testa di Barbara e le infilo i miei occhiali da sole a specchio, avanzo lentamente fino a superare la casa lampeggiante e i genitori in vestaglia a piedi nudi nel giardino.
Faccio finta di niente e nessuno mi nota mentre mi allontano e nemmeno quando fermo un bambino in bicicletta e gli chiedo cos’è successo.
“I genitori di Barbara hanno ricevuto una telefonata. Qualcuno ha rapito la loro figlia e ha chiesto il riscatto”. Ma Barbara è qui, accanto a me, è davvero possibile che tu non la riconosca? La pelle e le labbra sono diventate troppo pallide e spente per poter essere sue? Barbara bocca di rosa e pelle di crema.
Vai a un’ora fa.
Imbocco la strada statale consapevole di non aver chiesto nessun riscatto. La barbie respira ma non si sveglia. Le automobili sono come lucciole al bordo della strada. Siamo esseri invisibili in scatole di lamiera e carburante. Corpi in cerca di qualcosa di meglio di una vita da burattini nelle mani di qualcun altro. Ma quando siamo noi stessi ad impugnare i nostri fili, cosa succede? Usciamo dal ciglio della strada, come banali insetti ci spezziamo contro il primo ostacolo. Senza luce. Perché da soli non valiamo un bel niente. È una gigantesca macchina e ognuno è un pezzo uguale ad un altro, in una catena di montaggio senza inizio e senza fine. È nell’ingranaggio la nostra salvezza.
“Solo tu puoi aiutarmi”. Perché io? Vuoi forse farmi l’ultima lezione saccente ragazzina?
Una nuova città si delinea sullo sfondo di un film già visto, già proiettato. E nello specchietto retrovisore due luci abbagliano e si avvicinano; un’altra auto, un’altra lucciola. Che mi insegue. Fregatura, fregatura incessante.
Vai a quindici minuti fa.
Corro, fuggo e non so da chi o da cosa, ho questa bambola nuda sotto il cappotto e me stesso inutile che guida la sua scatola. L’automobile mi affianca, ha i vetri oscurati, è nera come il buio; cerco di seminarla, mi allontano e mi raggiunge, è una molla senza sosta, non si ferma mai. La luna si è fatta bianca, come la pelle di Barbara, mi fisso a guardarla per un istante, l’istante più importante di tutta questa faccenda.
Vai a ora.
Una pioggia di scintille è sopra la mia testa. La mia auto ha sfondato il guardrail ed è volata, ha oscurato per un attimo la sua luce e come un insetto si è spiaccicata contro un enorme riflettore spento ed è rimasta appesa lì, detriti incandescenti sopra la mia testa, il corpo di Barbara sospeso all’auto per quella sua gamba rotta, il mio sul manto di erba sintetica di un campo da calcio, costruito sotto la sopraelevata. Immobile resto come un burattino senza più fili. Salvami. La bambola di carne apre gli occhi e mi guarda, sembra sorridere. La sua gamba si stacca dall’auto e lei, a braccia aperte, precipita su di me, schiacciata su di me. Sangue, carne ed ossa.
Salvami.
Editing by Maria Montefrancesco and G.M.
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