Addormentarsi sul lavoro porta sempre male, ma porta ancora peggio se per guadagnarvi da vivere fate le pulizie all’obitorio. Però a volte succede, perché quando inizi il turno alle quattro del mattino sei lessato come una sogliola e ti sembrano comodi e invitanti perfino i letti in acciaio per le autopsie. Così una notte non ho resistito e ho formulato il pensiero nefasto, “solo cinque minuti”. Naturalmente, quando i medici hanno preso servizio, alle otto del mattino, io stavo ronfando beata, avvolta in un lenzuolo a mo’ di sudario.
Dovete sapere che gli addetti alle autopsie sono dei gran burloni. Il loro senso dell’umorismo può apparire discutibile, se non si è del ramo, ma quando si passa la vita a sezionare cadaveri è importante non deprimersi. Se poi sta arrivando il primo aprile, si sentono in obbligo di combinarne una ancora più grossa dell’anno precedente, e non gli è parso vero di cogliere l’occasione che gli avevo offerto così incautamente. Me ne sono accorta al risveglio, quando mi sono ritrovata aperta come una rana, sul lettino, con uno dei medici che scrutava con interesse il mio fegato.
Inutile dire che mi sono incazzata come un puma. Sì, è vero, mi piace bere, ma vorrei vedere a chi non piace, quando si arriva al momento della pensione e qualche acida professoressa incartapecorita al governo ti dice che la rendita maturata coi tuoi contributi è andata a puttane e devi continuare a lavorare fino alla morte, però non rendi più come un giovane e ti deportano a fare i “lavori socialmente utili”, pagati una miseria, e pure schifosi, ma sempre quella professoressa dice che non ci possiamo permettere di essere “choosy”… E cosa bevi con una paga di quattrocento euro al mese? La grappa che ci distilliamo da soli nelle fogne, condita coi funghi fosforescenti che crescono sulle pareti muffose. E dopo tutto ciò mi devo trovare pure un mediconzolo col mio fegato in mano, che lo mette a verbale come “ingrossato”? Ingrossato ‘sti due maroni, ragazzino! Gliel’ho strappato dalle mani con le cattive, e poi, ci ho tenuto a puntualizzare, chi cacchio lo aveva autorizzato a farmi l’autopsia? Mica sono morta!
Il ragazzo non si è scomposto più di tanto. Pare che lui sia autorizzato a sezionare qualunque cosa si trovi sui lettini, e in quanto a non essere morta, dal suo punto di vista ero io nel torto, perché mi aveva già estirpato il cuore. E me l’ha pure mostrato, in una vaschetta d’acciaio, a mollo con il resto delle mie frattaglie. A questo punto non ci ho visto più e gli ho fatto una tale piazzata che il giovane si è convinto a rimettere tutti i miei organi nel posto a loro assegnato da madre natura, e a ricucirmi con una bella fila di punti dati a regola d’arte. Quando sono stata soddisfatta del rammendo – un paio di cuciture me le sono dovute far rifare tre volte – sono andata a recuperare i miei abiti e ho cercato consolazione da Domenico, nel bar di Piazza delle Erbe.
Ho ordinato un cappuccino e intanto che addentavo il cornetto d’ordinanza, mi sono riunita alla solita comitiva di anziani rincoglioniti con cui mi trovo tutti i giorni in questo reperto storico di bar per sconfitti dal “nuovo che avanza”. Non vedevo l’ora di raccontare la disavventura che mi era capitata, a costo di distrarli dalla devota lettura della Gazzetta dello Sport. Oh, lo sapete che quegli stronzi mi hanno riso in faccia? Pare che l’autopsia a cui sono stata sottoposta senza il mio consenso sia una “leggenda metropolitana”, una di quelle storie che si raccontano nei bar per passare il tempo. C’è quella del tipo che si addormenta all’obitorio e si ritrova sezionato, e di quell’altro che passa la notte con una sconosciuta e si sveglia senza un rene. Ci sono le storie dei coccodrilli albini nelle fogne, e quelle della ragazza che fa l’autostop di notte e si fa lasciare davanti al cimitero dove è sepolta. Insomma, tutti giù a prendermi in giro e a criticare la scarsa originalità del mio racconto.
Mi è venuto un travaso di bile, anche se non sono sicura che quel medico da strapazzo si sia ricordato di ricucirmi anche il fegato, così ho mostrato i rammendi a tutto il bar, ma non è bastato. Dicevano che erano cicatrici di vecchie operazioni. Ma branco di idioti, se l’unico intervento che ho subito in vita mia è stato quello delle tonsille… Mi sono rifugiata in un tavolino d’angolo a leggere la cronaca locale e a meditare la vendetta. Non ero mai stata così offesa in vita mia, nemmeno quando lavoravo ancora nel Palazzaccio ed ero la vittima prediletta delle gare di mobbing.
La giornata è passata così, in amarezza. Non avevo fame, non avevo nemmeno sonno, e ho fatto due passi giù nelle fogne per dare una mano ai distillatori clandestini. Li ho trovati tutti allegri, che attaccavano fiocchi rosa ovunque. La nostra Guendalina, la coccodrilla albina che vive nei canali sotto la città, è finalmente diventata mamma di una deliziosa cucciola. Del papà purtroppo non si avevano notizie, questi maschi di coccodrilli albini sono come gli umani, una volta tirata su la cerniera della patta chi si è visto si è visto… Ma non ha importanza, Guendalina ha noi come famiglia e la piccina avrà tutti gli zii che vuole. Ci siamo un po’ persi in discussioni sul nome da darle, così mi si è fatto tardi per andare al lavoro. In bicicletta non facevo più in tempo e mi è toccato fare l’autostop; con quattrocento euro al mese è difficile permettersi la macchina.
Mi ha raccolto un motociclista gentilissimo, così disponibile che mi sono permessa di farlo passare un attimo da casa, però mentre si fermava di fronte al cimitero dove abito, è scivolato su una macchia d’olio. Per fortuna che aveva il casco, e non si è fatto niente. Ho raccolto in fretta e furia due cose nel mio loculo e il giovanotto è stato un vero signore, mi ha aspettato, e arrivati davanti all’obitorio si è tolto il casco per salutarmi. Lì ho visto che avevamo fatto un guaio, nella caduta il casco non si era rotto ma la testa si era aperta in due e il cervello schiumava fuori come una birra alla spina. L’ho fatto presente al caro ragazzo, era stato così gentile che mi sentivo in dovere di fargli dare un paio di punti dagli addetti alle autopsie, ma lui ha insistito, stava benissimo anche così. Si è rimesso il casco ed è ripartito per la sua strada.
Ma purtroppo la mia catena di sfighe non era ancora finita. Come ho aperto la porta dell’obitorio, dentro ci ho trovato un altro “lavoratore socialmente utile” che aveva preso il mio posto. Sentite questa che è grossa. Mi avevano sostituito, perché io ero morta! Ultimamente mi sembra di stare al manicomio… Mi è toccato aspettare le otto e aggredire la direttrice, quella stronza che si permette di cacciare la gente con le scuse più assurde, ma a ogni disavventura che le raccontavo, la strega rideva sempre di più. Secondo questa minus habens, tutti gli episodi accaduti durante la mia infausta giornata erano “leggende metropolitane”, e pure trite e ritrite, secondo lei, storie vecchie di secoli, che viaggiavano da un bar all’altro in condizioni di ubriachezza avanzata. Ma insomma, dimmelo in faccia, maiala maledetta, che non mi vuoi ridare il mio vecchio lavoro perché hai trovato un disperato che lo fa per meno!
Basta, mi ero stancata. Non avevo neppure voglia di fare l’autostop fino al mio cimitero, ho preferito fare due passi, avevo bisogno d’aria. E ho fatto bene, perché vicino ai bidoni della spazzatura ho trovato una specie di piccolo criceto tenerissimo, che piangeva. Pare che una tipa lo abbia trovato durante un viaggio in Messico e se lo sia portato a casa di nascosto, poi arrivata in Italia, naturalmente, si è stancata del giocattolo e lo ha buttato tra i rifiuti. Il povero animaletto piangeva e chiamava la mamma… Come facevo a lasciarlo lì? Mentre lo portavo con me al cimitero, gli ho chiesto che cosa gli piaceva mangiare. Il piccolino era ancora ingenuo, senza malizia, e mi ha detto la verità. Non è un criceto, ma una belva mostruosa che si nutre di carne umana e cresce a dismisura a ogni cadavere che ingurgita. Ottimo! Mi è sembrata la degna conclusione di una giornata di merda.
Conosco bene i tombini sotto la piazza e mi sono introdotta in quello che porta al Palazzo dei Veleni, il luogo di pianto e stridor di denti in cui mi sono guadagnata da vivere per tanti anni, prima di essere buttata fuori come un rifiuto, senza stipendio e senza pensione. Ho chiesto al piccolo se soffre di allergie e se è intollerante a qualche alimento, perché digerire i miei ex colleghi non è facile, ci vuole uno stomaco d’acciaio, ma il ragazzo mi ha assicurato di essere indifferente ai veleni umani. Si nutre di sangue e di interiora, e cresce fino a raggiungere i cinque o sei metri di altezza. L’ho depositato delicatamente sulla poltrona del mio ex kapetto, un aspirante managerino col fisico da lanciatore di stuzzicadenti e la morale di una spia della STASI. La mia bestiola domattina farà una colazione sostanziosa e poi si lancerà alla scoperta dei corridoi di quell’antro infernale, pasteggiando come meglio crede. Tanto, mi ha detto, è uno scherzo, perché anche lui sarebbe una “leggenda metropolitana”… Da come ha sgozzato il custode lo scherzo mi è sembrato assai realistico, ma siamo in tema. È il primo aprile.
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