– racconto e illustrazioni di Mauro Cristofani –
Ecco un luogo lontanissimo fitto di boscaglia e alberi giganteschi, ecco l’improvvisa radura. Fra grovigli di sterpi rinsecchiti come eserciti di bisce incenerite dai fulmini s’alza a stento il rudere d’una casa.
Ci fu un tempo in cui tutto risplendeva e quell’angolo di mondo era ammirato per i fiori che vi crescevano incantevoli. Solidago era il sovrano del regno profumato.
Abitanti del borgo si fermavano a discorrer nella via che costeggiava la siepe fingendo d’osservare le coltivazioni, in realtà sbirciando per scoprire chissà quali segreti. E quando Solidago scendeva a valle a far provviste, la gente correva a vederlo piombare in piazza a bordo del calesse cigolante trainato da un decrepito cavallo baio, ed era sempre un grande avvenimento. Scambiava poche frasi con i bottegai e dopo aver caricato la sua merce ripartiva con un “Eeh!” d’incitamento al ronzino che arrancava a fatica nella polvere.
Leggende astruse ch’eran cresciute a dismisura nel tempo amplificate fino all’esagerazione turbinavano intorno al giardiniere.
La sua casa era una solida costruzione su due piani terminante con torretta belvedere innalzata sul panorama circostante da un lato, dall’altro con rimessa per cavallo e attrezzi; pochi oggetti all’interno: un tavolo, due sedie e dispensa a pianterreno, un lettone e un comò al piano di sopra.
Solidago possedeva un abito per tutte le stagioni che riparava sia dal freddo che dal caldo. Glielo regalò una tessitrice dagli occhi viola sognanti e molto languidi; lo porse vincendo la propria timidezza, ma negli occhi dell’uomo lesse l’impossibilità del proprio amore.
Sparì dal borgo poco tempo dopo suscitando maligne dicerìe, e nessuno mai più conobbe il suo destino.
Un muro di pietra coperto di glicini e caprifoglio proteggeva il riserbo di Solidago, al contempo riparando il giardino dalla furia dei cicloni che di tanto in tanto fustigavano la valle.
La facciata della casa aveva sei finestre incorniciate da grappoli di gelsomini e una porta centrale che si spalancava sull’aia soffusa dagli aromi dell’erbe. In fondo s’apriva il giardino, trionfante.
Era formato da sette aiole chiuse da teorie di canne incrociate e in ogni aiola c’erano fiori della stessa specie a corona d’un alberello innalzato come una bandiera. Vialetti di piastrelle irregolari s’incontravano in più punti, talvolta incrociandosi o scorrendo vicini per un tratto per poi ritrovarsi alla fontana che alimentava il laghetto chiuso da bordure di felci e d’erba ruggine. Una germanella scivolava sull’acqua via via sostando all’ombra d’un boschetto di salici nani, nascondiglio del suo nido alla stagione degli amori.
L’aiola di rose scintillava di gialli soffusi di magìa, fiori semplici disposti in racèmi o radunati in corimbi interamente già sbocciati e ancora chiusi a orciòli, tutti in attesa d’un più caldo sole per aprirsi alla luce. Accanto ai calicanti c’erano le calendole invidiose, pètali robusti fittamente arricciati a corona sorretti da fusti verdolini molli. Quindi appariva l’aiola ellittica degli altezzosi tulipani, preferiti da Solidago per l’esotica bizzarrìa d’esser senza profumo.
Il vialetto girava intorno a quest’aiola circuendola a metà per chiudersi ad anello su quella più modesta delle viole, messaggere del pensiero e della lontananza; poi s’andava ad allargare nel mezzo del giardino per formare una rotonda coperta dalla folta chioma d’un alloro nella cui ombra v’era un tavolino di radica con panno ricamato, una poltrona di legno e poggiapiedi intrecciato di paglia, angolo di paradiso in cui il giardiniere poteva soavemente perdersi nell’immaginazione.
Da questo punto il viale cominciava a restringersi dilungandosi fino all’aiola degli iris dal nèttare succoso, delizia suprema delle api; procedendo a zig zag andava poi difilato all’aiola un po’ sghemba delle zinnie ed al cospetto del morbido tappeto delle margherite, linguette candide punteggiate d’oro. Per ritrovarsi infine al laghetto, centro del giardino.
Il giardino era il regno di Solidago, e il suo conforto; primo pensiero dell’alba, e l’ultimo prima di dormire.
Certe volte in piena notte andava trepidante a vedere i nuovi butti, fermandosi a tratti per lasciarsi inondare dagli effluvi profumati.
All’albeggiare, sulla porta di casa consumava focaccia di granturco spalmata di miele e una bevanda d’uva fragola macerata nei fiori dell’acacia.
Mangiava lento gustando ogni boccone mentre con sguardo carezzevole passava in rassegna la bordura delle piante aromatiche. Finita la colazione, disperdeva la malinconia del nuovo giorno togliendo dall’origano i fiori appassiti, le foglie secche dalla cedronella e i rametti caduti dal prezzemolo, condividendo d’ogni pianta la crescita e d’ogni fiore la vita. Sapeva il giusto tempo della semina e quello più adatto per le potature, il necessario nutrimento e l’ombra utile per un buon rigoglio, quali coltivazioni cominciare al sole e quali al lume della luna o nel chiarore incerto dell’autunno. Prima che appassisse ogni fiore era reciso e ogni pianta rimpiazzata avanti la caduta.
Se nel giardino s’intrufolava la volpe dispettosa a spezzar rami e sparpagliare fiori, il giardiniere la rincorreva minaccioso fino alla collina situata proprio di fronte alla sua casa. Però, quando la raminga restava a fargli quieta compagnia, Solidago le riservava bocconcini saporiti.
Fu in un pomeriggio nuvoloso foriero di tempesta che una macchia bianca apparve nella siepe. Attòniti occhietti rosa lo fissarono: era un coniglietto sperduto che per qualche istante si fece lisciare per poi scappar subito via.
Fu allora che uno struggimento doloroso lo assalì, e il giardiniere solitario desiderò ardentemente avere un amico accanto a sé.
Vinto il passato avverso, egli s’era depurato d’ogni scoria. Estirpati con forza i sapori attraenti ma venefici, scansati i piaceri più pericolosi, le immagini illusorie e le emozioni ingannevoli, finalmente era rinato a nuova vita. Via da percorsi impervi, da strade accidentate e da navigazioni burrascose, via dalle spiagge nàufraghe, via da tutto ciò ch’era al di là della collina. Dell’antica esistenza era riuscito a distillare essenze sospese in ampolle d’oblìo per darsi tutto alla ricerca della perfezione in soave sintonia con l’universo, còmpito tanto arduo che abbisognava d’ogni sua energia e della più assoluta dedizione ma che gli procurava gioia fremente e impetuosa.
Ora non aspettava che di darsi a piene mani, nella generosità arricchendosi.
Nel crepuscolo d’ombre la pioggia è sferzante, le creature amiche della luna cercano rifugio. Il cùculo strilla singhiozzando, il pavone si chiude e grida rauco, l’upupa stride e rizza la cresta. Solidago impietrito e gonfio di pena guarda il suo povero regno martoriato, seguitando però a vibrare nell’attesa indefinita…
Lo sconquasso passa, riprende a morir lenta la stagione d’azzurro in giorni limpidi e assolati. Il tempo del giardiniere s’assottiglia e nei profumi invano continua a cercare il segreto della vita.
Muore il giardino. Gli abitanti del borgo ci passano davanti senza più guardare, indispettiti da tanta decadenza.
Provando e riprovando innesti arditi, il giardiniere ottiene una varietà di pianta dalle infiorescenze cinerine: le dà il nome di nemèsia, perché lenisce i mali del cuore e della mente. Rapito dal fascino che l’erba emana e dal suo odore acre e seducente, nella sua ombra giace a lungo senza mangiare né dormire e senza più desideri né bisogni, sospeso su scìe astratte ed irreali.
Gli fa spesso compagnia un altro coniglietto bianco sceso giù dalla collina e càpitato lì per caso, ma il giardiniere ora ha bisogno di un amico umano e più che mai soffre di solitudine.
…Ecco che le stelle, confidenti di malinconie, gli vengono in aiuto.
È un giorno d’Aprile terso e luminoso, miriadi d’insetti ronzano fra l’erba e il fischio d’un fanello cadenza divertito il coro.
La testa errante in labirinti senza via di scampo, Solidago giace presso la nemèsia che, dopo essere stata saccheggiata, è secca. Il coniglio bianco è sparito su per la collina e tutto è abbandonato e langue, regna il silenzio.
Ma ecco irrompere ad un tratto nel giardino un drappello di rumorose ghiandaie che si schierano in fila su un ramo d’alloro dopo aver scompigliato la quiete degli animali intorno; i soldatini messaggeri puntano gli occhietti azzurri verso il giardiniere, che dal torpore si scuote e torna alla realtà. Uno sfacelo lo circonda. Piante ridotte a intricati rovai, fiori secchi appassiti piegati sugli steli, aiole di poltiglie maleodoranti. Allora s’accascia su se stesso, disperato sovrano senza più scettro né corona, mentre le ghiandaie lasciano i rami e volano via ordinate così com’eran giunte, soddisfatte d’aver assolto il loro misterioso còmpito annunciante.
…E l’evento s’avvera.
Scricchiolìo di passi incerti sulle foglie secche, ecco un giovane bruno. Abiti sbrindellati e occhi smarriti, un animale appena uscito da una tana troppo angusta.
L’apparizione lascia di stucco il giardiniere.
-Chi sei?
Le labbra si muovono a fatica dopo tanto tempo ch’eran state mute.
-Ho fame.
Risposta semplice e grandiosa.
(Un lampo, e appare a Solidago l’immagine d’un altro giovane errabondo ch’era egli stesso, quando in un’epoca lontana bussava invano alle porte).
Le mani svuotate e ora piene si tendono, la porta si apre. Il viandante è accolto e sfamato.
Ora la casa risuona del suo ronfare da gatto ben pasciuto che pigramente si stira le membra, nella sazietà crogiolandosi.
Si chiama Stelio, è solo al mondo. Mille maniere d’arrangiarsi son state le sue, lottando strenuamente contro le avversità e nemici sempre in agguato. Parla a stento di sé con sguardo cupo.
Ma bando alle tristezze! Il giardiniere l’abbraccia invitandolo a restare, insieme a lui anche il giardino tornerà a fiorire.
Una stretta di mano e un patto è suggellato.
Nuovi progetti fanno insieme: coltivazioni inusitate, arbusti posti ad abbellir le bordure, agli alberi saran date forme armoniche e alle siepi altezze modulate, dei rami secchi si farà un falò che illuminerà tutta la valle.
…E furon rose rosse e rose bianche, calendole d’acri gialli ebbri di luce, tulipani di variegati toni intensi, amorose viole color lilla, brillanti ciuffi di giorgine, margherite trapuntate d’oro, tutto un rinnovato trionfo!
Ora i valligiani si rifermano a guardare ammirati il giardino rifiorito, e le ragazze s’innamorano dell’operoso giovane bruno intravisto fra le aiole. Il borgo sonnacchioso si rianima, ognuno accampa aneddoti su Soligago e il suo nuovo giardiniere, la fama del regno profumato si sparge nei paesi vicini. Comitive numerose arrivano e sono esclamazioni ammirate “oooh” di meraviglia, gridolini entusiasti soffocati singulti di piacere.
Si fanno entrare i visitatori e Stelio è la guida gentile che dà ogni spiegazione e risponde a ogni domanda, malizioso sorridendo alle signore e coi cavalieri un po’ pavoneggiandosi.
Dall’Iberia lontana arriva Dona Rafaela De Sol protettrice dei giardini, accompagnata dal chico Lorenzino nipote del monaco Bart, e in loro onore viene imbastita una tavola ricca d’esotiche delizie.
Da Ville Eternelle giunge Mila de Saint Bon sovrana del Giardino Più Alto, che da grande intenditrice d’ogni pianta esamina il fiore e d’ogni fiore il profumo.
Anche la bella Alabina desidera visitare il giardino e un giorno arriva accompagnata dalle sette Ancelle. Stelio guida il corteo fra le aiole e le sue galanti attenzioni spingono le fanciulle a chiedere di restargli vicino per tre giorni e per tre notti. Solidago lietamente apre per loro l’ala degli Ospiti Graditi, dove la comitiva può estenuare l’esultanza giovanile.
Fugata la cupezza, Solidago allegro come un bambino in festa rivive gli slanci della gioventù e l’entusiasmo dei giorni lontani e luminosi.
Stelio ha la capacità di prendersi un po’ in giro e il gusto di trovare il lato buffo d’ogni cosa, qualità apprezzabili e rare che il giardiniere supremamente ammira.
L’immaginazione del ragazzo ancor più si briglia nelle sere ventose, e sono allora imitazioni irresistibili e mimiche stupefacenti. Rendendole quasi vere, nelle sere di pioggia s’immedesima in storie improbabili, commoventi o ridicole, per finir tutto con la narrazione d’un poema in cui adombra stralci della sua vita ricreati però con gesta eroiche, che è un suo modo ingegnoso per sublimare vili episodi del passato.
E quando il cielo è stellato e la sera placida e calda, i due amici si ritrovano in cima alla torretta belvedere, spesso restando in silenzio ad ammirar la luna. Ma quando Stelio erompe col suo dire esplosivo, il conversare si fa intenso e il duettare di frasi e parole assume un moto crescente e appassionato, fino a lasciare esausti i due sfidanti.
Dall’acutezza del ragazzo e dalle sue riflessioni originali e filosofiche ogni volta Solidago è sorpreso, provando un piacere intenso per aver seminato un terreno tanto fertile. E la commozione lo assale, e freme di gioia nel veder realizzato il proprio anelito a riempir le proprie mani, svuotandole.
Al termine di una di quelle sere, prima d’addormentarsi il giardiniere comincia a scrivere un sonetto…
Aprile volle farmi un dono
Ed aspettava
Ridendo all’uomo incredulo
E triste ch’io sono
Aprile aveva in serbo un dono
E lo nascose bene
Fra i prati in fiore
Nel sole buono
Aprile volle farmi un dono
Ma attese Maggio
Dalle rose rosse
Dalle rose bianche
Danzanti stanche
Nell’aria tersa
Di primavera
E l’uomo incredulo
Ch’io sono
Sorrise al dono
E salutò l’Aprile
Che se ne andava
Beffardo e senza posa
Lasciando accanto al salice
Un pètalo di rosa
Se la semina fu copiosa, i frutti furono innumerevoli. L’anima un tempo umiliata del giovane Stelio riceveva ora la linfa per schiudersi alla conoscenza e al sapere, di cui era assetata.
…E lietamente la vita scorre nel giardino, e il cancello resta sempre aperto ai visitatori.
Muore il vecchio baio e si acquista un mezzosangue dal mantello rossiccio e la criniera bionda, puledro giovane e impaziente. Stelio lo chiama Gemello, appena lo vede sa che sarebbero diventati inseparabili.
Montar Gemello, sfrenato poi correre e sparire nelle selve intorno alla collina diventa la sua nuova vita. Il giardiniere lo aspetta fino a notte fonda con tremore inspiegabile, ma quando Stelio ritorna e lo rincuora abbracciandolo, ogni ombra vien fugata.
Passa l’inverno, la stagione d’azzurro vede quello che sarà l’ultimo trionfo del giardino. Ecco i bei pètali e le belle corolle che avrebbero raggiunto i contrasti più intensi nel periodo della gran calura fino a trascolorare in fiammate rossastre, regalando un altro miracolo prima di ritornare al lungo sonno.
Stelio sembra partecipare all’esultanza ma sente crescere in sé strana inquietudine e avverte l’approssimarsi d’una nuova svolta nella vita, desiderata e temuta.
Le sue cavalcate sono sempre più frequenti, i ritorni quasi all’albeggiare. Allora rientra in casa esitante e furtivo, evitando l’insonne Solidago.
Lo sguardo del ragazzo ora è sempre rivolto alla collina che sovrasta il piccolo regno profumato e il giardiniere avverte la distanza che ora li separa.
L’ombra dell’antica solitudine gli si staglia davanti, minacciosa.
Il filo magico che lo legava all’amico piano piano s’incrina, il colloquio si spezza. Subentra il tempo dei gesti smarriti, degli sguardi fuggevoli e i gesti esitanti, il tempo del pane amaro.
Si raggranellano gelosamente i ricordi, le frasi e le risa, le tacite intese… Tutta la dolcezza passata.
Venne l’istante doloroso dell’addio.
Solidago attraversò il giardino carezzando ogni fiore, ogni foglia e ogni ramo, come a domandar conforto.
Stelio lo vide, gli si buttò fra le braccia e mescolò le sue lacrime a quelle dell’amico. Poi partì al gran galoppo su Gemello sparendo in nuvole di polvere che parvero oscurar la luna, e valicò la collina.
Il giardiniere camminò giorni e giorni come un viandante senza mèta, senza fame e senza sete e senza più voglia di vivere.
…Passarono anni e stagioni, il giardino spense tutti i colori. Solo il gelsomino seguitava a fiorire, consolazione del giardiniere fino all’estremo anelito. Con lo sguardo velato d’agonìa, egli rivolse l’ultimo saluto ai piccoli fiori bianchi e terminò il sonetto iniziato a scrivere in una sera lontana.
…Grazie giovane Aprile
E grazie Maggio per le tue rose
Ne ho colte tante
Tante
Ne voglio fare un mazzo
Per regalare a te
Soltanto a te
Ragazzo
Poi Solidago spirò, e in quell’istante il giardino improvvisamente rifiorì e fu tutto un nuovo rigoglio di fiori, tutti quelli che aveva maggiormente amati.
Un vento lieve portò via il profumo insieme al foglio coi versi del sonetto, via per i campi ed i prati fino a sorvolar la collina e fiumi e mari e deserti assolati, andando nei paesi più lontani…
…E giunse in fondo a una miniera dove uomini induriti di lavoro e di stenti squarciavano le rocce, aggirandosi come spettri emergenti da polverosi chiarori. Uno d’essi era Stelio. Dopo aver tradito tutti i sogni e sconfitto i desideri, dallo scialo della propria vita aveva con forza conservato sempre dentro sé il ricordo d’un giardiniere e d’un giardino: il solo essere umano che l’aveva amato e l’unico posto al mondo in cui conobbe la felicità.
…Raccolse il foglio che un alito gentile gli portò e risentì quel profumo, poi lesse i versi scritti da Solidago e la speranza rinacque, e con essa la volontà di seguitare a vivere.
Si ringrazia Micaela Lazzari per l’editing.
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