Note personali del dott. Hodler
<<Invertire la proporzione era da tempo il segreto proposito di Igwald; fare in modo che quel 10 per cento di sublime felicità con Elke si allargasse oltre confine fino a spezzare gli innumerevoli traumi e gli oscuri paesaggi della sua mente, illuminando una volta per tutte il passo nella regione fitta ed intricata del ricordo, della or sbiadita or vivida memoria; allargare le maglie e vivisezionarle con la perizia che un dottore riserverebbe alla ricerca dell’origine del male, un cancro che lo aveva invaso e devastato nel corpo e nello spirito; e sgranando operare i dolorosi tagli tra i fili sottili.
Da quella interna pulizia dipendeva la qualità di una sua nuova esistenza, il fondamento di una rinnovata consapevolezza di sé e degli altri, nonché l’attesa di una possibile felicità.>>
Prostrato dall’età e da “incomprensibili” malanni il dott. L.A. Hodler rifiutò di ricevermi adducendo una profonda stanchezza ed uno stato di choc conseguente alla tragica notizia che lo aveva sorpreso durante un Congresso della Società di Medicina Psicosomatica Viennese.
Da quel giorno ho atteso invano dietro la porta del suo studio-abitazione. Avevo un gran bisogno di parlare con lui, sia pure in veste informale, ma ogni volta la sua vecchia segretaria mi congedava con ferma gentilezza, pregandomi di non insistere. Finché alla fine, stanco di tanta “solerzia” da parte mia, il dott. Hodler si sentì costretto a liquidarmi con le poche righe di commento, invero molto nebulose, che avete appena letto. Nient’altro mai uscì dalla sua bocca.
Il dottor Ludwig Alfonsus Hodler, classe 1922, aveva conosciuto Igwald una decina d’anni prima della tragica scomparsa del giovane, e per un certo periodo i loro rapporti erano stati frequenti anche in ragione di un’indagine psicologica che il luminare andava svolgendo in quegli anni fra la gioventù cittadina alle prese con la scelta del corso universitario da seguire al termine dell’esperienza liceale.
Igwald, insieme ai suoi compagni di scuola, aveva fornito indicazioni sulle proprie attitudini e aspirazioni, senza peraltro lasciar trasparire un aspetto che in seguito divenne decisivo per la sua formazione: una spiccata tendenza a lasciarsi coinvolgere dall’alterità.
Al dott. Hodler certamente Igwald, il cui vero nome era Daniel Mayerling, doveva avere raccontato molto più di quanto io sappia e di quanto mi è stato possibile ricostruire attraverso alcune fugaci testimonianze durante, e dopo, i suoi funerali. Qualcuno, forse, aveva intuito che si trattava di un suicidio, ma nessuno si offrì spontaneamente di parlare, di spiegare, o almeno tentare di farlo, le ragioni di un gesto che sembrava del tutto incomprensibile, dal momento che Igwald non aveva mai fino a quel momento manifestato visibilmente i segni di un malessere, di uno scompenso di qualunque natura, a nessuno dei suoi amici più prossimi. Erano tutti là, amici, parenti, colleghi di corso; i suoi tre fratelli, Rudolph, Edwin e Stephen ed infine suo padre, al braccio del figlio minore, assente nello sguardo tanto da sembrare assorto nella contemplazione di un reame ultraterreno.
Mancava Elke e al suo posto si schierava la famiglia Weiss, Paul Weiss, il padre, Rose Kuttner, la madre e Giulia, la loro figlia minore.
Ma più che di Elke si notò l’assenza di Louise Mayerling, la madre di Igwald, allontanata in quel momento dalla famiglia perché preda di un’incontenibile (e allora giustificata) crisi depressiva.
Quel pomeriggio nella piccola cappella dell’ospedale si svolgevano i funerali di un noto esponente della destra austriaca, giunto in condizioni disperate a seguito di un incidente stradale che aveva coinvolto alcune auto, appena fuori città, e nello stesso tempo quelli del giovane Mayerling, deceduto, così avevano detto, per un arresto cardiaco, poco dopo la mezzanotte.
Si percepiva un clima di freddezza e ostilità soprattutto nei confronti della stampa e dei fotografi giunti da più parti per carpire chissà quali segreti o risvolti e infarcire così le scarne cronache sulle pagine locali. Avevo preso di corsa il primo aereo non appena giunta in redazione la notizia di un presunto attentato all’esponente politico, che era stato, invece, vittima solo della cattiva sorte; ma presto il mio interesse si appuntò al giovane Mayerling, scomparso senza alcun clamore.
Fu per questo che pensai di fingere di essere un’amica straniera di Igwald, approfittando, benché cittadina americana, anche delle origini teutoniche del mio cognome. In realtà conoscevo vagamente Manuel, con il quale avevo frequentato un corso di apprendistato per praticanti giornalisti tenutosi a Londra qualche anno prima. Avevamo passato qualche serata insieme ad altri amici comuni, niente di più. Al funerale mi aveva riconosciuta e fu l’unico a parlare con me del suo amico Danny e di Elke.
Devo essere sincera: tutto ciò che vedevo mi incuriosiva. Non avevo mai sentito parlare di Daniel Mayerling né mai l’avevo visto di persona, ma la sua foto, e poi quelle insieme ad Elke, mi riempirono di una strana apprensione, come se sentissi, in qualche modo, che la cosa non sarebbe finita lì. È passato del tempo, e non è escluso che anch’io, da allora, travisi i miei ricordi.
Era tra i suoi fratelli quello a cui Daniel era più legato. Timido ma apparentemente estroverso, Edwin fin da piccolo aveva sofferto una profonda ed incolmabile solitudine. Forse più degli altri aveva ricercato un affetto profondo e totale, ma lo spettro della scomparsa della presenza fisica di cui aveva tanto bisogno lo aveva spinto troppo presto a cercare sicuro rifugio nel matrimonio.
Si capiva che Edwin non era oggi a venticinque anni esattamente un uomo felice, ma almeno si diceva contento. La sua compagna, Dora, era una donna gentile e premurosa, con le idee chiare e decisa a vivere giorno per giorno e con meno problemi possibile. Anche lei aveva sofferto nell’infanzia e nell’adolescenza per l’assenza del conforto materno; e dunque per molti versi Edwin e Dora si capivano immediatamente.
Edwin però era curioso e amava girare, vedere, stupirsi, odiava il sonnecchiamento psicologico e godeva di nuovi stimoli; leggeva e studiava nei ritagli di tempo sottratti al lavoro spingendosi con l’immaginazione in situazioni a venire che dovevano coinvolgerlo dandogli carica e speranza. Per questo non soffriva più di tanto dei piccoli quotidiani sacrifici che doveva programmare in vista di una meritata vacanza estiva, e godeva delle piccole conquiste o di quei doni che ogni tanto per altrui volontà gli piovevano addosso.
Edwin pure era legato a Daniel da un affetto sentito e lo considerava sua guida, un padre sublime più che un fratello maggiore, al tempo stesso complice e amico, l’unico al quale avrebbe svelato ogni più ardito desiderio o oscuro segreto. Edwin ne ammirava la pacata bellezza e dolcezza degli sguardi, la capacità di comprensione, quel suo giungere al cuore del problema dando parole alle cose difficili. Lo ascoltava attento ed estatico, rapito dalla sua intelligente sensibilità; e avrebbe lottato a suo modo con ogni mezzo per tentare di preservarlo dal male, del mondo o degli uomini.
(continua)
Paola Cimmino, Storia di Igwald, 1993 (rev. 2012)
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