È di sera che mi sento più depresso e sconsolato. Sono solo, proprio solo da quando Elke è partita. È passato appena un giorno e già sto facendo il conto di quante ore mi separano da lei.
Questa sera finalmente dovrebbe chiamarmi dal suo nuovo alloggio. Chissà come si sente. Certamente non può stare come me. Non sono giù di corda perché non ho con chi uscire. C’è il mio gruppo, scarno certo, ma ben affiatato. Egon, Manuel, Mark, e i miei colleghi di corso: con loro riesco in parte a rilassarmi e a distendermi. Soprattutto Mark, che è mio amico da sempre. Lui è stato fortunato nella vita, non ha mai avuto veri problemi: ha tutto ciò che desidera, bellezza, salute, affetto. Qualche volta lo invidio, ma tutt’a un tratto mi rendo conto che non vorrei per me la stessa vita che fa lui. Certe volte ho l’impressione che la sua felicità prima o poi dovrà incrinarsi, che ne so, per una specie di legge naturale.
Accidenti, facciamo gli scongiuri.
Penso troppo, dovrei cercare di distrarmi ed essere più calmo e più tranquillo. Mi rendo conto di non saper godere l’attimo, di farlo sfuggire per inseguire inutili chimere. Anche Elke, ho notato, tende a comportarsi allo stesso modo. Lei programma, guarda avanti, ha mille progetti e ambizioni. Talvolta mi chiedo se ne vale la pena, se non sarebbe più giusto abbandonarsi e lasciarsi vivere, almeno per qualche istante.
Ma come posso abbandonarmi in questa casa nella quale ogni angolo conserva la memoria di un dolore inesauribile, quello stesso dolore che ora devo fronteggiare senza l’aiuto, il conforto di nessuno. Tutti, o quasi, sono andati via. Prima Rudolph, poi Edwin e infine Stephen. Siamo rimasti in tre, io, mio padre Emile e Maior, i tre implacabili “nemici” di mia madre (così dice lei quando è preda delle crisi depressive).
Rudolph non ha mai sopportato le sue urla continue, non riusciva a studiare come avrebbe voluto. Non gli importava altro che laurearsi e affermarsi e, soprattutto, fuggire dall’inferno in cui la sua vita si era trasformata. Così ha deciso in fretta e furia di sposare una giovane ragazza della buona borghesia, non particolarmente bella, ma molto ricca, alla quale ha giurato “eterna infedeltà” (lei, naturalmente, non ne è al corrente).
Edwin è stato il secondo a lasciare la casa, in ordine di tempo. A lui sono molto affezionato perché è il più piccolo ed è lui che ha sofferto più di tutti noi. Quando è nato Louise si è ammalata, o meglio è stato allora che la sua situazione mentale è precipitata. Si sentiva già vecchia e ormai inutile, a se stessa e agli altri, e giorno dopo giorno si è lasciata andare, abusando di farmaci per dormire e sopraffare il senso di colpa per la sua incapacità di badare all’ultimo nato. Lei non l’aveva voluto, l’aveva quasi subìto, diceva lei; sosteneva che non c’era più entusiasmo (di questo non ho mai dubitato) nei rapporti con mio padre, e che era lui l’artefice della sua infelicità, anche se, non avendo il coraggio di vendicarsi di lui direttamente, aveva deciso che ci sarebbe riuscita “attraverso” di noi.
E poi c’è Stephen.
È stato l’ultimo ad abbandonare la nave in mezzo alla tempesta. A sentir lui sarebbe andato via molto prima, ma le sue intemperanze amorose non gliel’hanno permesso. Dopo svariati anni di fidanzamento “ufficiale” con una ragazza molto carina devo dire, anche se non all’altezza, l’ha piantata per sposare una ricca ereditiera. Strano destino i miei due fratelli maggiori. Entrambi sono cascati dalla padella nella brace, benché per Rudolph si possa parlare di leggerezza e perfino di ingenuità, mentre per Stephen sarebbe necessario scrivere un vero e proprio romanzo dalle tinte più strane. Se esiste una persona al mondo totalmente scissa e continuamente in frantumi dal punto di vista psicologico questa è Stephen; lui ha sempre voluto tutto e il contrario di tutto e perciò è eternamente condannato ad essere infelice. Ha perfino deciso, o forse per quanto detto sopra ha lasciato che succedesse, di mettere al mondo un figlio, dopo pochi mesi di matrimonio, ben sapendo di non amare la sua compagna, ma “costretto” a doverla “accontentare” almeno sul piano delle convenienze sociali.
In realtà Stephen sostiene di essersi accorto di non aver mai smesso di amare la sua prima ragazza, pur cosciente della profonda, forse incolmabile distanza intellettuale e sociale che esisteva fra di loro.
Sono passati dieci giorni da quando lei è partita e siamo ancora (o dovrei dire già) a un terzo del percorso. Comunque mi è arrivata la sua prima lettera. Ero ansioso di avere notizie più precise dal momento che al telefono la conversazione è sempre veloce e mi inibisce la continua, frenetica discesa dei gettoni, così che in pratica riesco a dire niente di quello che vorrei. Pazienza!
Elke si è sistemata in un mini appartamento messo a disposizione dal Dipartimento francese di Chimica per i congressisti o i professori invitati dalla facoltà. Si lamenta un poco del mangiare, perché dopo qualche giorno di potages e simili il suo stomaco austriaco sente forte il bisogno di tornare ai bei piatti “consistenti” delle nostre parti. Soffre il freddo come non mai; quest’anno sulla costa francese si stanno abbattendo terribili tempeste di vento con ripercussioni fin nell’interno. Povera piccola!!! Non so se spedirle subito un bigliettino di incoraggiamento oppure dedicarle uno scritto più lungo. Deciderò dopo cena.
Ore 21 e trenta circa. Questo orologio fa proprio schifo, o forse è solo la pila che si sta esaurendo. Non è la sola.
A quest’ora la casa è più tranquilla (si potrebbe perfino studiare per un paio d’ore, anche se riprendere Heidegger e Husserl adesso mi sembra eccessivo e quasi masochistico) perché Louise si prepara ad andare a letto, mentre mio padre indugia davanti al televisore con Maior steso placidamente sulle sue ginocchia. Ogni giorno lo stesso scenario, le stesse abitudini. Una cena frugale, il notiziario della sera, la stanchezza che si fa sentire e un sonno tranquillo: così Louise (e noi con lei) conclude la sua giornata quando sta “bene”, altrimenti per tutto il giorno (e in genere anche quello successivo) offre lo spettacolo di un volto teso e imbronciato, lo sguardo stravolto dalla rabbia o dal pianto, la voce irritata, un continuo brontolio e l’imprecare contro tutto e tutti.
Almeno una volta alla settimana si verifica questo scompiglio per i suoi e i nostri nervi, e il mio cuore è su di giri senza che io possa far nulla per rallentarlo. Un crudele meccanismo biologico sconvolge con frequenza matematica la mia esistenza da tempo immemorabile: e non è proprio vero che ci ho fatto l’abitudine. Resisto anzi sempre meno stando sempre peggio, soprattutto perché non vedo come potrà finire.
Non mi vergogno di aver spesso invocato la sua morte credendo che l’avrebbe liberata da questa continua sofferenza.
Ora però penso che servirebbe a poco, se non altro non libererebbe noi da un senso di colpa irriducibile per non aver tentato in tutti i modi di salvarla o di opporci alla malattia.
È passato molto tempo dall’ultima volta in cui ho scritto ad Elke, credo fossimo al liceo… strana la nostra amicizia di allora, o forse, a ripensarci, neanche tanto. Non andavamo in classe insieme, lei era in un’altra sezione. Però abitavamo vicini e percorrevamo la stessa strada. La conoscevo di vista da molto tempo quando un comune amico ci presentò e da allora abbiamo preso l’abitudine di aspettarci alla fine della scuola per tornare a casa insieme. Non eravamo quasi mai soli allora, c’era il solito gruppetto dei tre amiconi, Mark, Manuel e più tardi Egon.
Ogni tanto si registrava qualche nuovo acquisto attirato dall’unica e “dolce” fanciulla, contesa, si fa per dire, da tre terribili maschioni; presto però l’intruso veniva scoraggiato abilmente o intuiva una certa qual ostilità, e preferiva filarsela. In effetti Mark e Manuel ostentavano un certo interesse nei confronti di Elke, la quale, tuttavia, faceva finta di non notarlo evitando in tal modo di porsi in situazioni imbarazzanti; e aveva finito per rivolgersi a me più che agli altri, apprezzando forse la mia discrezione. Senza darlo a vedere ero io infatti il più “cotto” fra i tre, e senz’altro il più “pollo”.
Egon si aggiunse a noi quattro solo più tardi, verso la fine dell’ultimo anno quando suo padre, magistrato a Salisburgo, fu trasferito a Vienna per motivi di salute. Egon aveva perso sua madre quand’era molto piccolo, ma non sembrava averne risentito troppo. Una sorella del padre l’aveva allevato come un figlio e non gli aveva mai fatto mancare nulla. Era sì molto timido e delicato nei lineamenti (per tacere della sua salute alquanto cagionevole); frotte di ragazzine gli facevano il filo, ma invano: lui rimaneva sempre impassibile suscitando l’invidia soprattutto di Manuel che diceva di lui che era proprio imbranato. Si è laureato brillantemente in Medicina, contro il volere del padre che l’avrebbe voluto nella carriera forense.
Avevo cominciato parlando di Elke e come al solito mi sono perso; vorrei scrivere qualcosa per tirarla su, ma confesso di essere un po’ a corto di idee ultimamente. Mi viene in mente una sera che eravamo soli a casa sua (i suoi erano andati a trovare alcuni parenti che abitavano in campagna – faceva molto freddo, ricordo); mi divertii con Elke ad accendere il grande camino di mattoni del soggiorno, e stesi sul divano al calduccio cominciammo a raccontarci tante storie assurde per ridere fra noi e passare la serata, tra un abbraccio e l’altro.
Elke era un po’ su di giri per aver bevuto qualche bicchiere di troppo durante la cena, e si lasciava andare a ridere per niente. Anch’io per la verità volevo a tutti i costi rilassarmi (ero reduce da uno di quei periodi infernali dovuti a Louise…) e non pensare. Siamo stati bene insieme, in una intimità avvolgente che speravo potesse durare per sempre.
Fu allora, e per caso, che nacque Digger, forse la mia “creazione” più riuscita e divertente. Con le iniziali del mio nome, quello vero, Daniel, e quello “acquisito” Igwald, e forse anche riprendendo il suo significato di “scavatore” nella lingua inglese, prese forma la figura di un gangster temuto da tutti fuorché dalla ragazza dietro la quale questi “sbavava”. Solo pochi tratti di Digger vennero fuori quella sera ma Elke si divertì come non mai e mi fece promettere che avrei scritto almeno uno stralcio di quella storiella così che avrei potuto leggergliela di sera (nella nostra casa, quando l’avremmo avuta) per farla addormentare (Elke è proprio una bambina, da questo punto di vista).
Ho mantenuto fede all’impegno “solennemente” assunto, benché fossi quasi ubriaco, e mi accingo a conservare gelosamente questo scritto in attesa del ritorno della mia piccola.
Per fortuna solo dieci giorni ormai mi separano da Elke. Anche per lei questa separazione non deve essere stata indolore; è comunque un’esperienza importante per noi due (e non escluderei anche per i suoi). Forse le consentirà per la prima volta di diventare più “adulta” agli occhi dei suoi genitori e certamente in grado di badare a se stessa una volta tornata… Chissà, le cose potrebbero veramente cambiare in maniera radicale, come dice lei, anche se io rimango un po’ scettico.
Devo dire infatti, con un certo rammarico, che ho perfino pensato in questo periodo che se Elke avesse veramente voluto già da tempo avremmo potuto realizzare anche solo una parte dei nostri progetti. Certo i nostri mezzi economici sono sempre stati un problema, ma l’ostacolo vero era l’assenza di una volontà ferma (almeno da parte sua): certe scelte l’avrebbero portata a una maggiore autonomia. Elke, però, specie ultimamente, aggirava qualunque discorso in proposito forse per scongiurare l’idea di un confronto diretto con suo padre e sua madre o temendo di causar loro un insopportabile dispiacere. Questo atteggiamento a lungo andare ha causato più danni che altro. Ha evitato che io assumessi nei confronti dei suoi genitori una posizione precisa, intendo dire un ruolo, quello di “fidanzato” (che brutta parola!) o compagno, se preferite; ai loro occhi non avevo un’importanza diversa da quella degli altri amici che Elke aveva fatto conoscere alla famiglia. Quando loro erano in viaggio praticamente mi trasferivo da lei, ma i suoi non dovevano sospettare di nulla; né mai lei accennava alla mia presenza, seppure occasionale. In sostanza io non dovevo esistere verbalmente nei suoi discorsi perché loro non pensassero di essere “esclusi” dall’affetto di Elke: in realtà ero io l’escluso, ma lei questo non voleva capirlo.
Questa storia è andata avanti per un pezzo, e l’ho sempre sopportata. Non ho mai preteso che Elke rinunciasse per esempio a stare con i suoi a Natale, benché loro invece quasi lo esigessero. La bilancia pendeva quasi sempre dalla loro parte e non perché Elke trovasse particolarmente divertente rimanere con loro (ché anzi diceva di annoiarsi) quanto per senso del “dovere” e soprattutto, diceva lei, per abituarli gradualmente ad un inevitabile e fisiologico distacco futuro. Ne abbiamo parlato tante volte, ma la cosa la irritava a tal punto che finivamo per litigare quasi sempre (e pensare che non c’erano quasi mai altri motivi di litigio fra noi).
Ma non è solo questo che le rimprovero. Lei lamentava l’eccessiva (diceva lei) e ossessiva (dicevo io) presenza dei suoi nella sua vita e nelle sue scelte – dovevano sempre dare il loro buon consiglio, anche quando non richiesto – senza far nulla in concreto per liberarsene, se non qualche timida obiezione. Così ogniqualvolta Elke doveva andare fuori città per lavoro, anche solo per poche ore, era costretta a telefonare a casa (e andare anche a cercare un telefono dove non c’era, e di questo si lamentava con me) per avvisarli di essere giunta sana e salva a destinazione. Stessa storia se erano invece loro a partire. Nel bel mezzo della serata, e magari proprio mentre eravamo in ben altre faccende affaccendati, squillava il telefono, e dall’altra parte si sentiva una vocina che domandava se tutto andava bene e ricordava ad Elke o a Giulia di fare questo e non fare quest’altro. Che palle!
Giulia che è assai più scaltra di Elke, e pensa soprattutto agli affari suoi, aveva capito che comportarsi con discrezione non solo non serviva a limitare la loro invadenza ma che anzi tutto ciò era controproducente; non mancava quindi in ogni occasione di tirare in ballo il nome e la presenza del suo insignificante fidanzato Wilhelm, il quale in poco tempo aveva assunto il ruolo del dominatore in casa Weiss.
Wilhelm decideva di passare le feste con i suoi? Giulia, naturalmente, doveva seguirlo. Dal suo punto di vista ciò doveva sembrare del tutto logico anche per i genitori di lei; le vacanze estive? Non c’era alcun problema: Giulia le trascorreva con lui e poi se c’era il tempo “anche” con i suoi.
Ad Elke, invece, un simile pensiero non doveva neanche lontanamente passare per la testa.
Se non fosse che l’amo troppo (e che comunque voglio costruire con lei il mio futuro) non avrei mai sopportato il condizionamento indiretto della mia vita ad opera dei suoi genitori, soprattutto se penso all’assenza totale di controllo in cui invece sono cresciuto io, e quindi alla totale insofferenza che provo per chi si lamenta senza mai intervenire per cambiare uno stato di cose.
(continua)
Paola Cimmino, Storia di Igwald, 1993 (rev. 2012)
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