Storia di Igwald (parte VIII)

 

percorso 

 

Mi sto sforzando dall’inizio del nuovo anno di lasciare alle spalle il carico di ricordi dolorosi che hanno segnato gli ultimi due mesi, ma è un’impresa non facile. Passo sempre più tempo in solitudine e, quel che è peggio, non riesco a combattere la pigrizia fisica che mi sta attanagliando.
In apparenza conduco la vita di sempre, gli stessi orari, le stesse abitudini, ma qualcosa è davvero cambiato dentro di me… è come se in un certo senso mi stessi scollando dal mondo e da tutti i suoi problemi, dall’ansia di arrivare, dal desiderio di possedere.

Mi sto perfino trascurando fisicamente: ho lasciato crescere la barba, io che non l’ho mai portata lunga in vita mia, e non curo più come un tempo il mio aspetto. In passato perdevo delle ore davanti allo specchio per cercare di apparire migliore di quanto mi vedessi, sperando che Elke mi trovasse attraente. Dal modo in cui lei mi guardava percepivo il valore della mia immagine, il suo potere di fascinazione, e il mio ego ne usciva inebriato.

 

Che fine ha fatto l’Igwald di allora, disponibile a lottare, a superare le difficoltà…

Il destino poi del mondo mi sembra segnato dalla violenza e dalla pazzia, alle quali assistiamo quotidianamente tra clamori o indifferenza.

 

divisorio

 

La tenuta dei Parsons

Altra storia, una favola nera.

So che tu non la leggerai, piccola, non ne hai il tempo… ma io te l’ho scritta lo stesso.

Toni foschi, dirai.

Perdonami, non riesco a scrivere altro…

 

La tenuta dei Parsons

Dopo il terribile rogo seguito al terremoto di San Francisco nel 2003, questa grande città, devastata dalle rovine dei crolli, si era spostata a circa 150 Km, e faticosamente si era ridestata dallo spavento e dalla depressione per i danni subiti. Ma le grandi rapine e saccheggi che durante i giorni neri avevano movimentato quell’immenso cimitero ardente non erano finiti; mai più le ombre della quiete avevano avvolto le tiepide serate della città.

Altre città erano state distrutte. La furia della natura si era spinta nell’interno senza risparmio di forza. La malavita organizzata, pur subendone i contraccolpi era ritornata, nel giro di qualche mese, più  fiorente che mai. La polizia, con le sue auto e gli elicotteri, sorvegliava la città distrutta per cercare di impedire, laddove fosse possibile, gli ultimi atti vandalici e le razzie di piccoli nuclei di bande armate che fuggivano con oro e argento, resti di pellicce bruciacchiate e tutto ciò che si era salvato dal fuoco, per rivenderlo al mercato nero. Non si riusciva ad arginare il dissanguamento quotidiano di una città che ormai in coma sperava in un ritorno all’attività normale.

Fu in quel periodo che le varie bande spadroneggianti in città decisero di unirsi e fondersi per avere più potere, realizzando dei piani perfetti di attacco delle zone più ricche del paese in modo da creare un unico grosso centro organizzato della criminalità.

I boss, messi da parte, almeno temporaneamente, odi e antichi rancori, in un vertice nei sotterranei del loro quartier generale elessero dei capigruppo e divisero la folta schiera in vari nuclei, col compito di esplorare a fondo il territorio alla ricerca di una sede dove poter istituire una base.

La tenuta dei Parsons era forse la più ricca e meglio organizzata di tutto lo stato. Quale migliore occasione aveva dunque la banda che di espropriare a ragione questo splendido spazio che si allargava fra gli alberi per migliaia di ettari, con ville e gazebi, due ristoranti, hotels, piscine e un’immensa rete di servizi? Tutto ciò rappresentava l’ideale per chi volesse agire indisturbato e con tutti i comfort, lontano da sguardi indiscreti di estranei e polizia.

tenuta 

Camminando di mattina dopo l’alba per i viali sconfinati e i tratti di bosco infoltiti dalla mancanza di cura, non si poteva immaginare che laggiù, ai bordi del lago artificiale si potessero fare interessanti incontri non del tutto occasionali. L’odore dei cadaveri si perdeva facilmente fra tutto quel verde, e poi non erano mai più di due o tre per notte.

Trascinati in questo posto oscuro i ricconi delle città nelle loro Rolls Royce finivano i loro giorni per effetto di una giustizia sommaria dopo aver intestato, dietro leggera coercizione, tutto ciò che avevano ai capi della banda, e il lago rinfrescava i loro corpi martoriati dai proiettili o dai coltelli; così ondeggiavano lungo quei bordi, che per il  carico quotidianamente sopportato si erano adombrati e riempiti di una strana melma in cui pesci e anfibi sguazzavano senza paura.

A pochi metri di distanza dal lago gruppi di alberi mostravano ampie fosse in prossimità delle radici. Anche qui presto avrebbero trovato estremo ricovero i corpi più recentemente “lavorati”.

Il parco digeriva una grande quantità di carne umana, e lo faceva anche quando era sazio. Primi fra tutti i Parsons avevano conosciuto il tepore di quella terra grassa che aveva dato così tanti profitti. Ora ben altri erano i frutti della loro semina.

A pochi mesi dalla fondazione questo “centro” era diventato il più temibile avversario della polizia e dello stato. A nulla servivano le lamentele della gente comune nelle trasmissioni televisive, a nulla l’organizzazione dei ricchi industriali e dei gruppi bancari, e a nulla le forme coercitive della giustizia e l’appello del papa a questi criminali perché rilasciassero gli ostaggi.

La polizia aveva paura anche soltanto a nominare quel luogo maledetto in cui entrare significava chiudere il proprio conto con la vita nel peggiore dei modi.

Quando la televisione dava notizia di qualche ricco rapito dalla banda, le famiglie si stringevano nelle case rabbrividendo. Non si sapeva mai che fine questi poveretti avessero fatto, ma si immaginavano le cose più atroci.

Un potente teleobiettivo era stato installato permanentemente su una unità della polizia di stato, un elicottero speciale appositamente costruito se non per combattere il mostro almeno per strappare qualche immagine dell’interno, spiando tra le foglie fittissime sui rami degli alberi. Ben poco però si poteva vedere: qua e là qualche corpo reso irriconoscibile dalla decomposizione, qualche enorme cane di razza che giocava con l’osso di un braccio, e solo raramente qualcuno della banda, corpulento e saldo sui suoi passi.

Durante il giorno una apparente tranquillità sembrava regnare nel parco e la notte gli infrarossi vagavano da una parte all’altra per capire che cosa succedeva, e dove si concentrava la vita. Ma nessun segno si offriva alla vista, mentre l’ansia torturava i sonni della gente più ricca spingendola ad augurarsi la miseria piuttosto che quella ricchezza sfrenata che la sventura avrebbe trasformato in una condanna a morte.

 (Favole per Elke di Daniel Mayerling – 1989)

 

 

Ragionavo ieri con Edwin a proposito degli sviluppi della terribile malattia che ha colpito nostra madre, e sul fatto che nessuna cura, tranne l’ultima, sembrava funzionare. Lei ha trascorso quasi metà della sua vita in uno stato paranoico e non sempre cosciente. Ha accettato più o meno volontariamente di sottoporsi a vari trattamenti con psicofarmaci atti per lo più a soffocare le sue crisi, in passato molto frequenti e in qualche caso violente.

 

Mio padre non riusciva a capacitarsi della trasformazione che Louise aveva subito dopo la nascita di Edwin, non si era mai rassegnato, sperando sempre in un suo recupero.
I fatti sembravano smentirlo: i terribili miscugli di medicine che i vari specialisti consultati prescrivevano le procuravano soltanto intossicazioni senza raggiungere altro risultato. Ma Emile era ostinato: forse non l’amava più, ma non voleva rinunciare alla presenza di una donna che allevasse i suoi figli, dei quali non riusciva ad occuparsi da solo come avrebbe voluto. Dal momento che le sue condizioni economiche non gli consentivano di assumere una governante a tempo pieno e, nel contempo, sentendo forte l’obbligo morale di non abbandonare sua moglie nella cattiva sorte, decise che il sistema più semplice era di farla curare a casa, di modo che, nei momenti di tregua dalla malattia avrebbe potuto tornare ad essere la moglie e madre di sempre.

Solo adesso, forse, Emile ha capito quale tragico errore ha commesso tanti anni fa, quando noi eravamo ancora bambini, lasciando che sopravvivessimo in una situazione insostenibile. Louise non sopportava la presenza dei suoi stessi figli poiché non ci riconosceva come tali, eravamo estranei o, peggio, acerrimi nemici… tutto ciò almeno, quando era in preda alle crisi. Quando queste terminavano ritornava normale e perfino affettuosa, anche se ciò non serviva a equilibrare i sentimenti contrastanti che provavamo per lei. Mi sentivo rifiutato o completamente dimenticato, e tante volte ho sperato che mio padre la mandasse via, da qualche parte, dove nessuno potesse sentirla, anche se poi mi vergognavo di aver augurato una cosa così cattiva a lei che dopo tutto era mia madre. Qualche volta però le sue condizioni erano così gravi che mettevo da parte i miei sensi di colpa sperando che non tornasse mai più.

 

Lei doveva certo soffrire più di quanto noi immaginassimo, se ha tentato, almeno una volta da che io ricordo, di levarsi la vita. Ne è passato di tempo da allora, e non è cambiata la sua malattia, solo forse attenuata; siamo invece cambiati noi, radicalmente.

 

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Ogni giorno le stesse chiacchiere, sempre gli stessi discorsi… Sembra che i problemi del mondo si esauriscano intorno a due, tre futili argomenti: questa è la vita di mia madre, che ora si sforza di curare anche altri acciacchi causati dall’età, senza interessarsi di nient’altro che le pulizie domestiche e a mala pena il pranzo. Tutte le sue paranoie sono ora concentrate su Maior, non avendo più nessun altro da tormentare. Lei non l’ha mai potuto vedere, così come ogni altro gatto che l’ha preceduto in casa nostra, perché “…gli animali sporcano e rovinano le tappezzerie!”.

Maior in effetti è sempre stato molto vivace e nonostante l’età continua ad esserlo, ma non ha mai causato grossi danni, come invece sostiene lei. La vera ragione del suo odio per lui è che noi tutti, ma soprattutto io e mio padre gli vogliamo bene come se fosse una persona ed ha ai nostri occhi la medesima importanza. Lei non tollera di essere messa sullo stesso piano di un animale, e quando sta male urla e sbraita contro di lui per colpire indirettamente noi altri. In questi casi non ha senso replicare cercando di farla ragionare, conviene solo aspettare che la crisi sia passata.

Sono stanco di questa routine, dell’assoluta mancanza di dialogo, che non sia superficiale, sia con i miei genitori e i fratelli maggiori, che con gran parte dei miei amici. Solo con Elke posso parlare di qualunque cosa, dei miei stati d’animo, per lo meno quando lei c’è, il che avviene sempre più raramente… Quante volte l’aspetto di sera nel letto, col proposito di parlarle; lei però arriva stanca morta, e mi trattengo dal dire qualunque cosa per non disturbarla. Si stringe a me e si addormenta nel giro di cinque minuti, e io rimango lì, evitando perfino di muovermi per non svegliarla. Forse anche a lei non piace la situazione in cui vive, ma almeno non si lamenta come faccio io, che in qualche caso esagero, irritandomi per delle sciocchezze. Forse anche per questo ho deciso di scrivere un diario, per sfogare la rabbia che altrimenti riverserei su di lei.

 

 

Voglio cercare di superare lo stato di perenne insoddisfazione in cui mi trovo anche se al momento non vedo molte soluzioni. Mi sembra di essere vivo solo quando faccio l’amore con Elke: solo allora,tunnel per pochi minuti riesco ad abbandonarmi completamente e a non pensare a tutto il resto. Ma non posso vivere illudendomi che le cose si risolvano da sole, né continuare in questo modo che equivarrebbe a deporre le armi e con esse ogni speranza di trasformazione.
Sono sicuro che molti non capiranno la mia situazione, perché non riesco ad essere felice.
Fino a poco tempo fa la mia vita era un inferno, ma avevo ancora degli obiettivi da raggiungere, andar via di casa e vivere con Elke, con la quale, come ho già detto ho trascorso gran parte dell’esistenza, condividendo sogni e progetti. Non mi sono mancate soddisfazioni sul piano degli studi e ora del lavoro, che resta per me fondamentale, e in fondo non mi posso lamentare neanche degli amici, ai quali non ho mai negato il mio aiuto, pur non ricevendone sempre a mia volta. Ho una casa e dei soldi per vivere.

Se le alternative sono prendere o lasciare, credo che me ne andrò. Forse è l’unica soluzione per la mia “malattia”.

 

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Finisce così il diario di Daniel Mayerling, più noto come Igwald, dal nome di una marionetta che da piccolo gli avevano regalato e che portava sempre con sé, fino a quando un giorno sua madre la diede via insieme a delle robe vecchie pensando che a Daniel, ormai grandicello, non servisse più. Igwald era stato il suo compagno di giochi, ma Louise non l’aveva mai notato, o comunque non vi aveva dato importanza. “Te ne comprerò un’altra” diceva lei al piccolo che si disperava. La madre gli fece credere che Igwald era partito e che un giorno sarebbe tornato. Daniel lo aspettava e invocava tutte le sere, finché non si stancò. Quel nome però gli rimase appiccicato più di quello vero.

Tra quelle pagine (che ho riportato con la sola omissione delle date) c’erano anche dei fogli con altri appunti, alcune lettere a Mark ed Egon, abbozzi di racconti scritti per Elke, e tanti piccoli schizzi e caricature.

ritratto elkeHo creduto utile inserire a margine alcuni frammenti anche se ritengo non aiutino a capire la scelta finale di Daniel.

È stato Manuel a ricostruire con me quello che presumibilmente è successo nei due mesi precedenti alla morte di Igwald, che lui stesso non riesce a spiegare.

Agli inizi di marzo Elke ritornò a Parigi per concludere il lavoro che aveva avviato l’anno precedente. Era un periodo di grande tensione per lei, perché dai risultati ottenuti dipendeva il suo avvenire nel Dipartimento, e benché ammettesse di trascurare il suo compagno, era sicura di poter recuperare il tempo perduto al suo ritorno, fissato per la fine di maggio.

Alla fine di marzo Igwald consegnò, con discreto anticipo rispetto ai suoi colleghi, un articolo al quale aveva lavorato nei mesi precedenti, che il suo relatore trovò eccellente concordando un nuovo argomento di studio in vista dell’avvio della tesi di specializzazione.

Da quel momento, non essendoci più obblighi formali di frequenza, Igwald rimase quasi sempre a casa, uscendo dopo il pranzo, come sempre aveva fatto e portando con sé i libri e l’occorrente per studiare. Ai suoi genitori non apparve diverso dal solito: parlava poco, il che non era una novità; scambiava poche battute anche con Edwin, completamente assorbito dalla stesura della sua tesi di laurea.
Anche gli amici lo vedevano di rado.
Ogni sera intorno alle dieci sentiva Elke al telefono per pochi minuti senza lasciar trapelare il suo stato d’animo reale e incoraggiandola a proseguire. Studiava per tutta la notte, freneticamente, spegnendo la luce sul suo comodino solo allo spuntar dell’alba; dormiva tutto il resto della mattinata, riprendendo poi la routine pomeridiana. Giocava con Maior: era diventato il suo unico motivo di svago, ora che non poteva abbracciare la sua donna, se non nei sogni. Voleva limitare le ore di sonno al minimo proprio per non essere tormentato dal ricordo di lei, che lontana non poteva immaginare il percorso da lui intrapreso.

Agli inizi di maggio cominciò a ingerire dosi crescenti di un sedativo che sua madre aveva assunto in passato, e i cui effetti non erano immediati; andò avanti con tenace costanza per due settimane, poi cominciò ad aumentare la dose. Trascorse quell’ultima notte a casa dei suoi, con la scusa di sentirsi poco bene a causa di una infreddatura. Portò Maior nella sua stanza, si spogliò e rimase lì a sonnecchiare dopo aver preso altre pillole, insieme a un bicchiere di whisky. Il resto già lo sapete.

In ospedale l’unità d’urgenza era impegnata in un delicato intervento a seguito di un terribile incidente stradale, e appena giunto Igwald fu esaminato frettolosamente e dichiarato non grave: un testimone aveva riferito di aver visto il giovane scendere con difficoltà dalla macchina e accasciarsi sul parapetto del vecchio fiume, come in preda ad un malore, finendo col cadere accidentalmente di sotto; e poiché non vi era alcun motivo per dubitarne fu prontamente somministrato del sedativo per calmare le deboli lamentele del ragazzo.

La caduta aveva provocato, in assenza di uno stato di tensione muscolare, solo molte escoriazioni e l’incrinatura di una costola, ma non vere e proprie fratture, e fu proprio la nuova dose di calmante ad essere fatale per Daniel.

Dopo avere pronunciato, quasi in dormiveglia, poche parole ai giornalisti (momentaneamente stretti intorno a lui, ma in realtà in attesa di notizie del più grave incidente avvenuto quella sera stessa appena fuori città e che, come ho già detto altrove, aveva coinvolto una nota personalità politica), il cuore di Daniel cessò di battere. Solo dopo l’autopsia i sanitari si accorsero dalle analisi del sangue della presenza massiccia di una sostanza usata in psichiatria, ma poiché tutto ciò avrebbe sollevato interminabili polemiche, gettando discredito su tutto l’apparato, fu convenuto di avvalorare la tesi del sopraggiunto arresto cardiaco per cause naturali.

Fu Edwin ad avvertire Elke, senza ovviamente lasciar trapelare la verità che le avrebbe causato un terribile choc.
Lei arrivò durante la notte. Si precipitò all’ospedale e si può immaginare la sua reazione quando si rese conto davanti al corpo di Daniel di quello che era successo. abbandonatoRimase là per ore, senza staccare lo sguardo da lui, illudendosi che facesse un movimento, che le mostrasse che non se n’era andato, che non l’aveva abbandonata. I genitori di lei cercarono di convincerla a lasciare la stanza, tentando anche con la forza. Fu irremovibile. Soltanto quando gli infermieri la informarono che dovevano liberare la stanza e trasportare la barella nella sala delle autopsie Elke si vide costretta a staccarsi da lui.

Non le riusciva di credere che Daniel fosse morto per un arresto cardiaco: non aveva mai accusato disturbi che lasciassero presagire un esito così definitivo, ma lì per lì sembrò accettare il referto dei medici.
Volle tornare a casa, benché temesse l’impatto iniziale con tutto ciò che era stato di Igwald, i suoi vestiti, i suoi libri. Chiese che la si lasciasse in pace, che nessuno la cercasse.
Staccò il telefono e congedò seccamente anche i suoi genitori preoccupati per le sue possibili reazioni. Loro non riuscivano a capire perché Elke li rifiutasse, li tenesse a distanza: lei non poteva dimenticare quello che avevano detto di Daniel solo sei mesi prima, quando per caso, messa alle strette da Rose, che voleva a tutti i costi un nipotino, Elke si era lasciata sfuggire che non sarebbe mai stato possibile, perché Daniel si era sottoposto a vasectomia. Rose rispose ridendo che non ci credeva; quando però anche Igwald lo confermò in tono serio, si convinse che doveva essere vero, troncando l’argomento. In seguito ne parlò con suo marito che trovò la cosa un po’ strana e tuttavia legittima. Rose invece la trovò disgustosa.
Quando rivide Elke da sola tornò alla carica, pressandola con le solite richieste e sperando in una diversa reazione. Quest’ultima confermò quanto detto in precedenza. “Quel tuo Daniel è proprio un mostro!” si lasciò sfuggire lei. Elke non replicò, limitandosi ad andar via.
Ora le tornavano in mente le settimane in cui non aveva chiamato i suoi genitori, cosa che aveva lasciato Igwald nel dubbio che fosse successo qualcosa tra lei e i suoi; a lui Elke non aveva detto niente di quanto era avvenuto, essendo completamente dalla sua parte e non volendo procurargli un inutile dolore.

Ripensava a quelle parole, al fatto che in fondo i suoi genitori non avevano mai visto di buon occhio la loro relazione, il loro matrimonio, e men che meno la loro decisione di non essere come tutte le altre famiglie.

Non contava dunque la sua felicità, solo il rispetto delle consuetudini.

Decise di non prendere parte ai funerali di Daniel, poiché non poteva sopportare neanche l’idea di quell’ultima separazione da lui.

Il giorno seguente, dopo aver trascorso un’altra notte senza chiudere occhio, si diresse con un presentimento alla scrivania di Daniel, aprì il cassetto, e sotto alcuni quaderni di appunti quaderni e diariodelle lezioni trovò il suo diario. Elke non ne era a conoscenza.
Lo lesse attentamente sicura di trovare una spiegazione o anche solo una traccia che l’aiutasse a capire quello che era successo. Si rese conto di come Daniel avesse sofferto per la mancanza di comprensione da parte di quelle persone che avrebbero dovuto essere più vicine.

Si sentiva colpevole di averlo trascurato negli ultimi mesi per colpa del suo lavoro, anche se Daniel non le aveva mai fatto pesare nulla.

Capì che le sue ultime parole lasciavano intendere il fermo proposito di dare una svolta alla sua esistenza. Ma ancora Elke non pensava a un suicidio.
Quando infine si accorse che nel cappotto che Daniel aveva lasciato nello sgabuzzino era rimasta la prescrizione per un sedativo, Elke credette di intuire la direzione che Igwald aveva preso: si diresse sicura al cassetto delle medicine e vi trovò due confezioni vuote di quel prodotto. Fu allora che chiamò Manuel confidandogli i suoi sospetti.
Manuel confermò che negli ultimi tempi Danny era stato quanto mai scontroso e solitario, benché sia lui che Egon avessero cercato di convincerlo a farsi vivo e uscire con loro. Le disse anche che sapeva che lui stava lavorando ad un articolo che voleva completare prima di avviare la tesi e che per questo lui ed Egon non avevano insistito più di tanto. A nessuno di loro aveva però manifestato il proposito di farla finita. 

 

(continua)

 

 

Paola Cimmino, Storia di Igwald, 1993 (rev. 2012)

 
 
 
 
 
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