Chi sono io? Nessuno. Quando sono nato, i miei genitori mi hanno dimenticato all’ospedale. Dopo il parto mia madre è tornata a casa senza di me e si è quasi meravigliata quando ha visto arrivare un’ambulanza che le portava un fagottino, “Questo è suo, signora… Non facciamo i furbi!”. Si dimenticavano spesso di darmi da mangiare, ma ho fatto presto a capire che piangere era inutile, non mi sentivano. Quando sono cresciuto mi sono accorto che nemmeno gli altri bambini si accorgevano di me, mi avvicinavo a loro per giocare ma facevano finta di non vedermi, o forse non mi vedevano proprio. A scuola ero da solo nell’ultimo banco, nessuno si è mai seduto accanto a me, non venivo mai interrogato e se non andavo a scuola non se ne accorgevano, ai miei compagni di classe si chiedeva la giustificazione ma a me no.
Quando ero molto piccolo questa specie di invisibilità, questo disinteresse del mondo nei miei confronti, mi rattristava, e passavo un sacco di tempo a piangere nella legnaia. Qui ho scoperto che non ero solo. Allora nel mio quartiere c’erano tantissimi gatti e ogni giorno qualcuno di loro veniva a farmi compagnia in quella capannuccia, mi saltavano in braccio, facevano le fusa, giocavano con me. Io rubavo in casa il cibo per nutrirli, tanto i miei genitori non si accorgevano mai di nulla, portavo via anche vecchie coperte e poltrone per stare più comodi, e man mano che crescevo la legnaia diventava la mia casa, il solo rifugio in cui esistevo, in cui qualcuno si accorgeva di me e mi voleva bene. Ci passavo tutto il mio tempo, spesso anche la notte, con i miei soli amici, i libri e i miei adorati gatti.
Alle medie i miei compagni di scuola organizzavano le feste di domenica pomeriggio, ma non mi invitavano mai. Se mi imbucavo non mi mandavano via, forse soltanto perché non mi vedevano entrare, però se invitavo le ragazze a ballare non mi rispondevano, mi guardavano attraverso come se fossi stato un fantasma. La mia “invisibilità” al mondo aveva anche i suoi vantaggi, a scuola non sono mai stato interrogato e i miei compiti in classe sparivano misteriosamente, i professori non me li restituivano, però alla fine dell’anno ero sempre promosso. Forse agli scrutini si chiedevano a chi corrispondeva il mio nome, nessuno si ricordava di me e per non perdere altro tempo mi promuovevano. Anche la cartolina di richiamo per il servizio militare non arrivò mai, perfino l’esercito si era dimenticato della mia esistenza.
Finite le scuole dovevo pensare a guadagnarmi da vivere, e per un “nessuno” come me c’era solo un lavoro, l’impiegato. Mi presentai a una selezione, c’erano migliaia di persone stipate in un palazzetto dello sport e notai con gioia che ci somigliavamo tutti, creature grigie e amorfe di cui era praticamente impossibile notare l’esistenza. Anche tra di noi non ci notavamo, nessuno si rivolgeva la parola. Nella graduatoria tra i “nessuno” arrivai tra i primi, e mi emozionai così tanto a vedere il mio nome scritto su quell’elenco che corsi a casa a prendere la macchina fotografica. Peccato che la pellicola rimase bianca, non si impressionò. Nel giorno fissato dalla lettera di convocazione mi presentai in un enorme palazzo di cemento armato, insieme con un esercito di altri nessuno. Mi diedero una scrivania in un sotterraneo privo di finestre, in un enorme stanzone occupato da altri impiegati addetti come me a fare cose che non capivano. Per anni ho preso i foglietti dalla scatola alla mia sinistra, li ho copiati, timbrati e riposti nella scatola alla mia destra. Non ho mai capito una parola di quello che c’era scritto sopra ma non aveva importanza, non era di mia competenza.
I primi tempi pensavo di fare amicizia con qualcuno degli altri nessuno, magari anche loro amavano i gatti, o i cani, o i libri, speravo di trovare qualcuno con cui andare al cinema, però mi sono accorto che i nessuno non parlavano nemmeno tra di loro. Arrivavano al mattino a testa bassa, si chinavano sulla loro scrivania e non aprivano bocca fino all’ora di andare a casa. All’uscita si dileguavano come ombre dietro gli angoli, sparivano come se fossero fatti di nebbia. Pazienza, ci ero abituato. Tornavo a casa a piedi, facevo la spesa per i miei gatti, ora che avevo un po’ di soldi potevo comprare loro il macinato e altre prelibatezze, tante volte il macellaio si dimenticava di me e io andavo via senza pagare. Quando morirono i miei genitori, dalla legnaia ci trasferimmo tutti in casa e fu il momento più bello della mia vita. I miei odiavano i gatti e non permettevano loro di entrare, ma adesso che la casa era tutta per me avevo messo a disposizione i letti, i divani, i tappeti… Che gioia il primo inverno, tutti abbracciati stretti vicino al calore del camino!
La mia vita è andata avanti in questo modo per molti, molti anni, non so nemmeno io quanti. Alla mia maniera ero felice, il lavoro nei sotterranei mi dava i soldi per vivere, anche se non me ne servivano tanti, se al supermercato uscivo senza pagare non se ne accorgeva nessuno, al cinema la maschera non mi chiedeva mai il biglietto, e quando aprirono una mega libreria gigante nel mio quartiere mi accorsi con gioia che potevo uscire con le braccia cariche di volumi e i commessi non facevano una piega. Ho sempre mangiato pochissimo e mi preoccupavo solamente di nutrire i miei gatti e tutti i loro amici che avevano bisogno. Andavo alle Poste per pagare le bollette e mi accorgevo che potevo saltare la fila e la gente in coda non si arrabbiava, strano, di solito si scannavano per un posto… Col tempo ci furono cambiamenti anche nel palazzo di cemento armato, gli altri signori nessuno scrivevano su buffi apparecchi che sembravano un incrocio tra una televisione e una macchina da scrivere, mentre io continuavo a copiare i fogliettini e a timbrarli come il giorno in cui avevo preso servizio lì dentro, ma il mondo è strano ed io avevo imparato a non farci caso.
La mia vita si è sconvolta il giorno in cui sono tornato a casa e non ho trovato i miei gatti. Erano scomparsi. Sono piombato nella più profonda disperazione, loro erano tutta la mia vita, i miei affetti, la mia compagnia. Che fine potevano avere fatto? Ho provato a chiedere ai vicini ma come sempre non mi hanno risposto, ho vagato per tutta la notte in giro per il quartiere chiamandoli per nome, uno a uno, ma non ho sentito nemmeno un miagolio, finché, finalmente, verso l’alba, ho visto spuntare da sotto la siepe un musetto tigrato. Era la più piccina della covata, la mia coccola, quella che ancora non sapeva mangiare da sola. Il mio adorato batuffolino mi è saltato in braccio e mi ha indicato una strada, quella che conduce al cimitero. Le ho dato ascolto, come sempre, i gatti non sbagliano mai. I cancelli del cimitero erano ancora chiusi ma sono passato agevolmente tra le sbarre, ero molto dimagrito negli ultimi tempi. Li ho trovati tutti lì, i miei amori, raccolti intorno a una tomba. Incuriosito, mi sono avvicinato: chi ci poteva essere di così importante in quel sepolcro da aver radunato non solo i miei gatti, ma anche tutti quelli del quartiere?
Mi sono avvicinato alla lapide e ho visto un nome. Il mio. Non c’era la fotografia, ma è normale, non ne avevo. La data di nascita me la ricordavo, quella di morte era di alcuni mesi prima. I gatti mi hanno salutato uno a uno, strofinando i musetti sulla mia ombra che diventava sempre più sottile. Mi hanno assicurato che non mi avrebbero mai dimenticato e che ogni giorno sarebbero venuti sulla mia tomba a salutarmi e a confortarmi con le loro fusa, ma che per me era arrivato il momento di dormire. Avevano ragione, come sempre: mi ero consumato quasi completamente, da un po’ di tempo non riuscivo più a farmi la barba perché non mi vedevo nello specchio. Pensavo di essere diventato miope ma non era la vista che se ne era andata, era la vita. Sono sempre stato così abituato all’invisibilità che non ci facevo caso, anche da morto continuavo a fare le cose di tutti i giorni, in fondo non cambiava quasi niente, ma i gatti, come sempre, avevano ragione. Ho appoggiato la testa sulla lapide e mentre li accarezzavo vedevo le mie mani sparire e sentivo arrivare il sonno, un sonno più profondo di quanto avessi mai provato in vita, un sonno caldo, confortevole, un sogno di pellicce e di fusa.
Da allora quel cimitero è diventato famoso per la colonia felina che ci vive, e che neppure i più feroci nemici dei gatti sono riusciti a scacciare. Meravigliose creature felpate e flessuose abitano fra le tombe e i vivi che le amano portano loro tutti i giorni cibo e conforto. Spesso si siedono sulla mia tomba con i gatti in braccio, parlano e ridono, i gatti hanno mantenuto la loro promessa e non mi lasciano mai solo, quando nascono i piccoli me li presentano, quando i più anziani sanno di doversene andare vengono a spegnersi vicino a me. Sulla mia tomba è cresciuta la più bella erba gatta del quartiere e intorno si intrecciano amori, liti, combattimenti, relazioni… Adesso, finalmente, mi sento vivo.
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